mercoledì 29 maggio 2024

Boy kills World

di Moritz Mohr.

con: Bill Skarsgaard, Yayan Ruhian, Jessica Rothe, Famke Jenssen, Andrew Koji, Isaiah Mustafa, Michelle Dockery, Brett Gelman, Sharlto Copley.

Azione

Sud Africa, Usa, Germania 2023


















Prendete "The Raid", aggiungete la passione per i picchiaduro (classici e a scorrimento) dei primi anni '90, aggiungete qualche rimando a "The Running Man" e una vaghissima influenza di "V per Vendetta", condite tutto con un humor grottesco sfrontato e il risultato è "Boy kills world".
Una formula vincente, si direbbe, data dall'estrapolare il meglio dei punti di riferimento per mescolarli in un qualcosa di nuovo. Se non fosse che l'esordio di Moritz Mohr, pur accorato e in fin dei conti non disprezzabile, commette un errore inescusabile, ossia il non saper sfruttare a dovere i suoi stessi punti di forza.



La volontà è quella di unire la brutalità dell'action moderno con la stilizzazione (anche) ironica del videogame, in un susseguirsi surreale di scontri uno contro uno o di gruppo. Le citazioni si sprecano, andando da un generico rimando al mondo delle sale giochi allo specifico look del protagonista, praticamente ricalcato su quello di Lion Rafale nei primi capitoli di "Virtua Fighter".
L'acerbità di Mohr finisce però con l'essere fatale: le coreografie dei combattimenti sono tutto sommato semplici, brutali quanto basta ma mai davvero ingegnose. Quel che è peggio, la regia sembra quella di un qualsiasi action americano anni 2000, con otturatore della macchina da presa semichiuso per aumentare artificialmente il ritmo e montaggio sconnesso, dovuto anche a scavalcamenti di campo arbitrari. Risultato: spesso non si capisce quello che sta accadendo su schermo, difetto mortale per un film d'azione.




Per tutto il film c'è una ricerca quasi ossessiva della soluzione grottesca, l'inseguimento di uno "stile pazzo" per dare un tono giocattoloso e splatter alla storia. Ma, ancora, lo stile acero blocca tutto sempre prima che la follia sia davvero raggiunta, come nella scena della guardia con gli occhiali che viene "smontata" un pezzo alla volta, castrata da una messa in scena davvero troppo priva di polso.
Quando poi la storia cerca di abbracciare il dramma o la fantascienza distopica, le cose peggiorano.
Il dramma personale del Boy è pretenzioso e l'inclusione di una traccia incestuosa sottopelle (forse per far colpo su quella Gen Z che, tra le altre cose, inizia a idolatrare anche l'incesto) fa scadere spesso le scene nel cattivo gusto. 
Quando poi si cerca di tirare in ballo la manipolazione dei media e la lotta del singolo contro un sistema totalitaristico, il confronto con i modelli di riferimento è impietoso, persino quello con quel cult con Schwarznegger che pure aveva i suoi limiti.




"Boy kills world" è così un esordio malriuscito e tutto sommato trascurabile. Si spera che Moritz Mohr riesca a fare di meglio in seguito, visto che la almeno la grinta sembra non mancargli.

lunedì 27 maggio 2024

Furiosa: A Mad Max Saga

di George Miller.

con: Anya Taylor-Joy, Chris Hemsworth, Lachy Hulme, Tom Burke, Charlee Fraser, Elsa Pataky, Alyla Browne, George Shevtsov, John Howard, Angus Sampson, Nathan Jones, Josh Helman.

Fantastico

Australia, Usa 2024
















---CONTIENE SPOILER---

Sono passati nove anni da quando "Fury Road" ha infiammato le sale. Nove anni nei quali il nome di Mad Max è tornato a imprimersi nella memoria collettiva, raggiungendo anche vette di riconoscimenti mai avuti neanche quando "Mad Max 2" aveva ridefinito l'estetica post-apocalittica creando un vero e proprio filone.
Nove anni dopo, George Miller è riuscito a dirigere solo un altro film, il bel "Tremila anni di attesa", mentre lui stesso era in attesa che la Warner gli concedesse il via libera per dare forma a "Furiosa".
Un progetto nato praticamente in parallelo a "Fury Road" (e al prossimo capitolo su Max), con Miller e gli sceneggiatori che hanno creato una lunga e articolata backstory sul personaggio cardine di quel quarto film. E che sembrava dovesse prendere le forme di un film d'animazione, poi trasformato in live-action a seguito del crescente successo di "Fury Road", solo per impantanarsi nel classico "developement hell" dovuto all'incapacità della Warner di capire cosa volesse davvero produrre e come (si vedano i casini del DCEU).
Ora, a circa 78 anni, Miller è finalmente riuscito a cesellare un nuovo tassello di quella che, come il titolo suggerisce, non è più semplicemente la storia di un personaggio, ma una vera e propria mitologia. Che con "Furiosa" raggiunge una nuova vetta.




L'idea di trasformare la storia di Max in una mitologia di un mondo a venire è partita in "Mad Max 2" e già "Fury Road" doveva far leva definitivamente sulla statura mitologica del suo personaggio e delle sue gesta. Nella prima versione, tutto il film era incorniciato dal racconto di un cantastorie, che secoli dopo il verificarsi degli eventi li narrava ad un pubblico dinanzi ad un fuoco; narratore che finiva anche per incrociare Max nel racconto, in uno strano inserto metatestuale. Di questo contesto, alla fine è rimasta solo la citazione che chiude il film, la quale così risulta anche bizzarra.
"Furiosa", d'altro canto, incorpora totalmente in sé il tono epico e quasi aulico che doveva essere proprio del capitolo precedente, come quello del canto di un aedo, tanto che il personaggio del cantastorie diventa parte integrante della storia e del racconto, affiancandosi alla protagonista anche negli eventi oltre che nella narrazione extradiegetica. Questo perché tutto il film, per una volta, non è un action nel quale la storia e i personaggi vengono raccontati e descritti tramite immagini e azioni, quanto un racconto "convenzionale" dove le sequenze d'azione sono quasi un contorno. Ovverosia, quel "Mad Max con la trama" che Miller cercò già di creare una trentina d'anni fa con "Thunderdome".




Come racconto, "Furiosa" è una storia di vendetta e sopravvivenza, ma del tutto antitetica a quella di Max, rispetto alla quale risulta complementare. L'input è dato nuovamente dal mito greco: così come quello delle Pleiadi era alla base di "Fury Road", qui Miller sembra rielaborare quello di Proserpina e del suo rapimento da parte di Plutone. Furiosa vive con le amazzoni vuvalini in un futuribile giardino dell'Eden, ma un invasore la reclama come premio da offrire ad un dio malvagio, da cui la sua odissea e la sua volontà di vendetta. Laddove in "Fury Road" era lei il motore degli eventi, ora è un oggetto che si muove in un gioco più grande, una bambina (poi giovane donna) strappata alla sua vita e chiamata ad adattarsi alle circostanze.
Il suo cammino è quello di una sopravvissuta che riesce a fuggire al suo ruolo prefigurato di vittima e schiava per farsi guerriera. Da cui la parte centrale, per forza di cose la più affascinante, dove impara i trucchi della guerra da strada da Pretoriano Jack, personaggio che altro non è se non una versione alternativa di Max che incarna ciò che gli sarebbe accaduto se si fosse unito ad una qualsiasi tribù anziché percorrere le wasteland in solitaria.
Quando poi il momento della vendetta giunge, la "retribuzione" al signore della guerra Dementus è diversa, sostanziandosi in un suo castigo perenne; non c'è una spirale distruttiva, non c'è annichilimento sadico del colpevole, non c'è la perdita di senno e anima come conseguenza della violenza. Laddove il contrappasso inflitto dal maschio è morte e distruzione, quello inflitto dalla donna genera vita, trasforma l'energia distruttiva in linfa vitale, la morte in speranza per il domani.




Il viaggio di Furiosa è però solo una parte dell'affresco che Miller dipinge con i colori caldi della sua wasteland. Partendo dal concetto di mito e mitologia, crea un canto epico post-apocalittico, un poema di un passato futuro nel quale signori della guerra dell'era post-atomica (e qui, per la prima volta, anche post- crisi climatica) si danno guerra come futuribili condottieri elleni. La storia di "Furiosa" non è essenzialmente la sua storia (così come i tre capitoli precedenti non raccontavano strettamente la storia di Max), quanto la storia di un mondo che vive di guerra e sottomissione violenta. Una sorta di "Iliade" post-apocalittica, con due re che si confrontano per il dominio di una città e una donna contesa tra i due, "Furiosa" abbandona la narrazione lineare fatta di sole sequenze d'azione per farsi racconto più lungo e articolato, diviso in tre atti distinti anche per i personaggi che vi si avvicendano.




In tal senso, si ha una costruzione del tutto antitetica all'essenzialità di "Fury Road" (pur riprendendo il tema dell'assedio da "Mad Max 2"), dove a contare sono si le azioni e gli sguardi dei personaggi, ma non le sequenze (o la sequenza) di inseguimento. L'azione di "Furiosa", anzi, è alquanto scarna e si concentra totalmente nell'ennesimo assalto alla cisterna, che pur ben condotto, mostra i limiti di un budget e di un know how in tema di effetti speciali non adeguato alle necessità di messa in scena, sfoggiando una CGI palesemente finta per sostituire degli stunt impossibili. A Miller va fatto certamente il plauso per non aver portato in scena una semplice replica di quanto visto in passato (come avveniva in "Thunderdome"), con gli assalti aerei a dare un tocco di originalità alla visione, ma quei limiti di messa in scena sottraggono parte del divertimento.
Limite che però risulta relativo: ciò che conta in "Furiosa" è il racconto epico e personale e da questo punto di vista la mano di Miller risulta ancora salda. 




Senza esagerare con l'enfasi, usando i dialoghi ancora come meri strumenti di contorno (coniando tra l'altro un linguaggio ancora più originale che in passato) e con un tono generalmente secco e brutale, Miller riesce davvero a intessere un canto epico, una storia archetipica la quale riesce a coinvolgere con poco e a virare dalla tradizione in modo originale.
Mostrando l'influenza che Ogilvie ha avuto su di lui, utilizza un ritmo sapientemente lento, lasciando che le scene respirino, senza rincorrere gli eventi, lasciando anzi che questi prendano la giusta forma davanti agli occhi dello spettatore, senza però mai scadere nel fiacco nonostante la lunga durata, la quale, davvero, alla fine finisce per non avvertirsi. E se "Fury Road" era un gioco al rialzo nella spettacolarità, "Furiosa" tende quasi a scansare la ricerca della soluzione spettacolare per restare ancorato ad una forma di brutalità più immediata, la quale rende la storia definitivamente coinvolgente.




Le wasteland di "Furiosa" sono in tutto e per tutto uguali a quelle di "Fury Road" e si può certo rimproverare una mancanza di originalità nell'estetica, troppo legata al passato (e non giustificabile dalla natura di spin-off del film, visto che gli altri capitoli avevano comunque tutti un look differente); Miller, fortunatamente, riesce lo stesso ad inserire singoli elementi originali, come l'auriga di Dementus, fantasticamente condotta da motociclette guidate con le sole briglie, o il look punk rock di Octoboss e il suo completo nero che stacca totalmente dai colori caldi dell'ambientazione.
La continuità è qui come non mai ricercata anche sul piano narrativo, ma per forza di cose non tutto torna: Anya Taylor-Joy alla fine del film risulta fin troppo giovane e il cameo di Max è quasi fuori luogo, visto che gli eventi dovrebbero svolgersi in parallelo a "Thunderdome", dove non aveva ancora ricostruito la V8 interceptor. Il cast di "Fury Road" torna al completo, eccezion fatta per il compianto Hugh Keays-Byrne, scomparso nel 2020, ma Nathan Jones è misteriosamente fuori forma e il suo Rictus Erectus è palesemente diverso da come appare nella storia cronologicamente successiva.
Poco male: gli eventi bene o male si incastrano a dovere, la Taylor-Joy riesce a lasciare il segno con una performance fatta praticamente di soli sguardi e azioni e per una volta Chris Hemsworth può mettere il suo incontenibile istrionismo al servizio di una storia dove un personaggio del genere ha senso di esistere.




Il risultato è un'epica tanto sfaccettata quanto immediata, un racconto più complesso che in passato, ma dotato di quella semplicità archetipica che lo rende immediatamente coinvolgente e ammaliante. Miller non ha perso il suo tocco

venerdì 24 maggio 2024

C'Era una Volta

di Francesco Rosi.

con: Sophia Loren, Omar Sharif, Georges Wilson, Leslie French, Dolores Del Rio, Marina Malfatti, Anna Nogara, Rita Forzana, Carlo Pisacane.

Fantastico

Italia, Francia 1967
















Il nome di Francesco Rosi resterà per sempre legato al cinema dell'impegno civile. Ma, proprio come il collega Elio Petri, anche lui non si è tirato indietro quando si è trattato di partecipare a pellicole leggere e lontane dai canoni della sua filmografia.
"C'Era una Volta" non è di certo l'unico exploit commerciale di Rosi, visto che giusto un paio di anni prima c'era stato "Il Momento della Verità", che raccontava la storia di un torero; e se quel viaggio dell'Andalusia degli anni '60 aveva ancora qualche elemento del cinéma vérité del maestro di origine napoletana, questa favola partenopea ha un fascino più strampalato. 
Progetto nato dalla volontà di Carlo Ponti di creare un film fantastico che facesse da ennesimo e tutto sommato inutile biglietto da visita per la moglie Sophia Loren, viene affidato al grande autore che cerca in ogni modo di farlo suo, senza però riuscirci davvero e fallendo anche nel trarne un racconto interessante.




Nella Campania del XVI secolo, lo scapestrato principe spagnolo Rodrigo (Omar Sharif, all'epoca forte del successo de "Il Dottor Zivago", sempre con Ponti) si imbarca in una serie di avventure che lo portano a stringere un legame amoroso con la contadina Isabella (la Loren), tanto bella quanto rozza.





Una favola vera e propria, un racconto semplice dove il rapporto di odio/amore tra i due bellissimi interpreti fa da trait d'union di una serie di scenette altrimenti slegate tra di loro. Il primo limite di "C'Era una Volta" è difatti proprio questo, ossia una frammentarietà narrativa a tratti imbarazzante, con una storia che progredisce per puro caso.  Il che sarebbe anche un difetto scusabile, vista la natura appunto favolistica del film, se non fosse che tutta la storia non riesce mai ad avere quel fascino che Rosi cerca costantemente di imprimerle. 
Avvicinando la narrazione alla natura popolare de "Lo cunto de li cunti" di Basile, cerca di fatto di rifarsi al floklore meridionale, ma la scarsità dei riferimenti e la generale superficialità con la quale la materia viene maneggiata non porta davvero da nessuna parte. Più che favola, "C'Era una Volta" finisce così per somigliare ad una telenovela nella quale le schermaglie amorose non sono mai contornate dalla giusta carica visionaria. E quando il fantastico irrompe, le cose non vanno sempre per il meglio.




Rosi decide di restare stretto tra l'ambientazione storica e le influenze sovrannaturali, con una congrega di streghe che si affaccia nella storia assieme ad un fraticello in grado volare. Il rapporto tra bene e male resta ambiguo, ingenerando talvolta confusione sul ruolo delle figure ancillari, in particolare sulle streghe, talvolta caratterizzate come antagoniste, talaltra come figure benigne, con uno sguardo che resta così scisso tra influenze rivalutative moderne e quelle del manicheismo storico. 
La messa in scena di tali derive fantasiose è poi altalenante: il sabbath nel bosco ha anche il giusto mood, ma l'apparizione dello stormo di santi volanti risultava ridicola anche all'epoca dell'uscita in sala.




Di certo non più riusciti sono gli aspetti "terreni" delle avventure che i protagonisti devono affrontare. Qualche episodio gustoso c'è anche, come quello della truffa dell'asinello che "caga oro", ma in generale il tono, per quanto popolare, non risulta mai davvero accattivante. Basta paragonare quanto qui si vede con quello che Pasolini, giusto qualche anno dopo, farà con i racconti popolari nella Trilogia della Vita per accorgersi dello mancanza di mordente: Rosi non riesce mai a creare situazioni davvero simpatiche o a stimolare a dovere i sensi dello spettatore persino quando si affida all'avvenenza dei protagonisti.




Alla fine, di "C'Era una Volta" restano impressi la cura dei valori produttivi, le curve della Loren e il carisma di Sharif. Il resto è un viaggio opaco e insipido in un mondo tra il verosimile e il fantastico che avrebbe meritato uno sguardo decisamente più sensibile verso tale tipo di materia per essere davvero riuscito.

mercoledì 22 maggio 2024

Mad Max- Oltre la sfera del tuono

Mad Max beyond the thuderdome

di George Ogilvie & George Miller.

con: Mel Gibson, Tina Turner, Bruce Spence, Frank Thring, Angelo Rossitto, Angry Anderson, Robert Grubb, Paul Larsson, George Spartels.

Avventura/Fantastico

Australia 1985














Laddove "Mad Max" aveva dimostrato al mondo il talento di Miller, "Mad Max 2" lo ha elevato a vero e proprio autore pop. Il suo nome viene associato sin da subito a quello dei più illustri colleghi di oltre oceano e nel 1983 si unisce agli estimatori Joe Dante e Steven Spielberg per lo sfortunato "Ai Confini della Realtà", nel quale dirige lo splendido remake dell'episodio "Nightmare at 20,000 feet", sfoggiando nuovamente grinta e talento da vendere.
Assurto a superstar, inizia a pensare al suo prossimo progetto e gli si fanno strada due opzioni, ossia un adattamento de "Il Signore delle Mosche" di Golding, del quale ha subito il fascino sin da giovane, oltre che l'adattamento del romanzo post-apocalittico del 1981 "Riddley Walker". Miller opta però per una scelta strana e decide di trasformare l'adattamento di Golding nel terzo film dedicato a Mad Max; un terzo film che fosse così più particolare, con una storia più curata e articolata e meno basato sulle sole sequenze d'azione. "Mad Max beyond Thunderdome" esce così nelle sale nel 1985 e chiude momentaneamente le avventure dell'eroe dell'era post-apocalittica, con una nota un po' strana e quasi fuori luogo. Per capire il perché, bisogna tenere a mente le circostanze che hanno portato alla sua lavorazione e le influenze che vi si sono riverberate.




Guardando il film finito, le similitudini con il libro di Golding sono palesi. Ma se ci si ricorda di "Riddley Walker" (pur tutt'oggi inedito in Italia) la visione si fa quasi sinistra. Il romanzo è infatti ambientato in una Inghilterra post-atomica dove il giovane protagonista inizia una strana avventura in un mondo ostile. Un mondo nel quale i sopravvissuti utilizzano armi e utensili del passato riadattati alle necessità future e nel quale aspetti ordinari della vita del XX secolo sono assurti ad una statura mitologica, idolatrati come leggende di un passato aureo.
Stando a quanto ammesso dall'autore Russell Hoban, fu proprio lui a contattare Miller al fine di avviare un adattamento del suo libro, cosa che poi non è andata in porto. Intervistato anni dopo l'uscita di "Thunderdome",  ha ammesso come si fosse consultato con il proprio editore in merito ad una possibile azione legale contro Miller e soci, solo per rendersi conto di come di plagio vero e proprio non si potesse parlare. Pur tuttavia, la questione porta a interrogarsi su di un quesito scottante, ossia quanto Miller abbia "copiato" da altre fonti per i suoi film?
Questione che in realtà risale anche a prima di "Thunderdome". Se le fonti di ispirazione più ovvie sono anche quelle meno biasimabili, ossia Kurosawa, Leone e John Ford, oltre che Harlan Ellison e il cinema post-apocalittico anni '70 americano, alcune similitudini con specifiche pellicole non saranno di certo sfuggite all'occhio del cinefilo più attento.




Il primo "Mad Max" è per certo versi un ibrido tra il "tarantiniano" "Zozza Mary, pazzo Gary" e un misconosciuto film sui motociclisti australiano, "Stone" del 1974. Il termine "ibrido" non è usato con leggerezza, poiché i due film sembrano essere stati fusi insieme per creare qualcosa di nuovo, ma i rimandi sono fin troppo espliciti: in "Zozza Mary", i due protagonisti Peter Fonda e Susan George sono due teppisti che sfrecciano sulle highways americane a bordo di un auto truccata, inseguiti da un giovane sceriffo a bordo di una "interceptor" (slang dell'epoca usato per indicare le auto da inseguimento in dotazione alla polizia) ultimo modello, introdotta proprio come la mitica V8, con tanto di inquadrature simili; in "Stone", invece, la vicenda ruota attorno all'uccisione del leader di una gang di centauri tossicodipendenti ora in cerca di vendetta, con tanto di scena nella quale la bara del capo viene portata alla sepoltura dai suoi uomini in una processione funebre di motociclette; e con praticamente mezzo cast di "Mad Max", compreso un giovane Hugh Keays-Byrne.




L'idea di un mondo devastato e infestato da gang di predoni nel quale gli ultimi sopravvissuti si imbarcano in un viaggio utopico verso un idilliaco "ultimo Eden" è presente sia in "Thunderdome" che soprattutto in "Mad Max 2", ma era alla base anche di "Gli Sciacalli dell'anno 2000", dimenticato exploit del filone post-apocalittico del 1979 con Ernest Borgnine. Allo stesso modo, lo spunto di uno straniero che salva degli innocenti da una tribù di predatori per poi divenirne una leggenda mitologica era presente in "The Ultimate Warrior" ("Gli avventurieri del pianeta Terra" in Italia), altra pellicola post-apocalittica dimenticata nonostante la presenza di due attori del calibro di Max Von Sydow e Yul Brynner come protagonisti.
Tali debiti di ispirazione, benché talvolta palesi, non fanno certo gridare allo scandalo, poiché Miller riesce comunque a dare ai suoi film un'identità propria e forte al punto di imprimersi indelebilmente nella memoria collettiva. Il suo lavoro è quindi incontestabile e il debito è facilmente scusabile. Le similitudini tra "Thunderdome" e "Riddley Walker" sono invece francamente imbarazzanti, soprattutto quando si viene a conoscenza del fatto che Miller fosse stato contattato per farne un adattamento. 
Se tale difetto finisce per comprometterne la riuscita, non è di certo l'unico a colpire un'opera la cui realizzazione è stata castrata anche da una vera e propria tragedia.




Il 17 luglio 1983, Byron Kennedy resta coinvolto in un incidente in elicottero e muore ad appena 33 anni. George Miller è a dir poco scioccato e slitta in uno stato ai limiti del catatonico. La produzione di "Thunderdome" è già iniziata e si è protratta quel tanto che basta per rendere impossibile cassare il progetto, che deve così andare in porto con o senza i creatori della serie.
Forse come forma d'obbligo verso il compianto amico, Miller decide di procedere, ma non ha la forza di dirigere di suo pugno tutto il film. Decide così di dividere la produzione in due fasi e portare a bordo un collaboratore che lo sostituisca alla regia di gran parte delle scene. La scelta cade su George Ogilvie, autore di produzioni televisive che Miller aveva avuto come mentore ai tempi della sua formazione come filmmaker. Con l'incedere della produzione, il ruolo di Ogilvie si fa via via più consistente, tanto da arrivare a dirigere praticamente tutto il film, fatte salve le sole sequenze d'azione, le uniche portate in scena da Miller in prima persona, il quale, pur restando presente sul set anche nelle parti delegate a Ogilvie, lascia che sia sempre quest'ultimo a tenere le redini della produzione.
Se già questa divisione dei compiti si riflette in modo diretto sul ritmo, creando un racconto altalenante, l'ultima stoccata alla messa in scena viene data da un fatto a dir poco curioso: a pochi giorni dall'inizio delle riprese, l'attore ingaggiato per il ruolo di Jedediah il Pilota si tira indietro. Lasciato vacante uno dei ruoli principali, Miller decide di correre ai ripari nel più strambo dei modi, ossia affidandolo a Bruce Spence, che da capitano del girocottero ora diventa pilota d'aereo, con la conseguenza che questo nuovo personaggio finisce per essere giustamente scambiato per lo stesso del film precedente, ingenerando una facile confusione negli spettatori.
Per lo meno, il resto del cast viene confermato: ritroviamo Mel Gibson nuovamente (e per l'ultima volta) nei panni di Max Rockatansky e niente meno che Tina Turner in quelli della cattiva Aunty (letteralmente "zietta") Entity, la quale canterà per il film anche le due canzoni, poi divenute hit, "We don't need another hero" e "One of the living".
Costato circa dieci milioni di dollari americani, "Thunderdome" ne incassa poco meno di quaranta in tutto il mondo, rivelandosi come un successo inferiore rispetto ai precedenti, cosa normale per l'epoca; ma, ad oggi, resta il capitolo meno riuscito dell'intera saga.




A colpire è in primo luogo lo scarto di tono rispetto ai film precedenti (e al successivo "Fury Road" quando messo nel contesto dell'intera serie): laddove negli altri film si ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo per adulti dove il tono grottesco enfatizza la violenza grafica anziché stemperarla, in "Thunderdome" il tono è più bambinesco quando si tratta di ritrarre le barbarie future; con la conseguenza che sembra di assistere ad un cartone animato dei Looney Toons un attimo più violento al posto ad un'epica fantascientifica di stampo post-atomico (non per nulla, uno dei bambini ha con sé un pupazzo parlante di Bugs Bunny, forse, tra le altre cose, omaggio di Miller all'amico Joe Dante); tra padellate in faccia tirate da bambini guerrieri pre- "Hook", incidenti catastrofici dove (quasi) nessuno si fa davvero male e quell'Ironbar sorta di Wez dei cartoni animati che muore allo stesso modo del suo predecessore, ma lanciando un infantile dito medio, è come se Miller abbia voluto ampliare il suo pubblico di riferimento verso quei bambini/ragazzini che di solito non sarebbero stati ammessi alle proiezioni dei suoi film. Con la conseguenza, ulteriore, che non si riesce a prendere più di tanto sul serio questa seconda scorribanda di Max nell'era della post-apocalisse.



Il mondo di "Thunderdome", poi, è tanto simile quanto diverso da quello di "Mad Max 2", del quale dovrebbe una sorta di evoluzione. Stando alla sceneggiatura, sono passati circa quindici anni da quando Max ha salvato gli estrattori dagli Humungus e la wasteland è in tutto e per tutto una nuova società nata dalla barbarie, dove le tribù hanno iniziato a riunirsi in sparuti villaggi organizzati come città-stato.
Ma nel gap tra film è successo qualcosa di importante, lasciato però troppo tra le righe, ossia niente meno che la guerra nucleare. E' qui che la saga di "Mad Max" diventa davvero post-atomica e il suo futuro non più quello degenerato per la crisi energetica, ma è stato anche flagellato dalla guerra nucleare. Eppure, in questa società neoarcaica non ci sono quasi tracce di radiazioni o mutazioni, tanto che se si tagliasse dal film il pezzetto nel quale appare il mercante d'acqua e i fotogrammi nei quali la cantastorie Savannah mostra il graffito del fungo atomico, nulla cambierebbe davvero. 
Un mondo simile, ma non uguale, quindi. Il che è strano, perché per il resto tutto è una continuazione di "Mad Max 2"; su tutto, la continuità è data non solo dai costumi, quanto dalla scarsità di benzina: la maggior parte degli spostamenti avviene a dorso di animale e persino quel che resta della V8 interceptor è stata riconvertita in un carro (forse per questo il titolo italiano per la prima volta non fa riferimento alla vettura?), mentre i veicoli a combustione vengono usati solo in casi estremi.




Il secondo scarto che colpisce è quello dato dalla regia, sia se si mette questo terzo film a paragone con gli altri, sia che si comparino le singole parti del film per se stesse. Miller si è praticamente limitato a dirigere le scene d'azione e il suo polso è sempre saldissimo; già la opening shot dell'aereo di Jedediah che disarciona Max dal carro è una vera e propria lezione di cinema, ma a colpire è soprattutto il duello nel Thunderdome: un'arena nella quale la fisica viene gabbata grazie alle funi elastiche, finisce per essere la trovata più riuscita e iconica del film, grazie alla quale Miller riesce a creare un combattimento adrenalinico e lungo quanto basta per lasciare soddisfatta la sete di spettacolarità già a metà film.
Ma quando si tratta delle sequenze dirette da Ogilvie, le cose cambiano. Il suo stile di messa in scena è solido, ma manca dell'occhio geniale di Miller, scadendo talvolta a causa di trovate strambe, come il combattimento nell'attico di Aunty, dove la caduta di una delle guardie nella botola non viene graziata neanche di un'inquadratura apposita. Il suo ritmo è pacato e quando si tratta di ritrarre la meraviglia di Max nello scoprire la tribù dell'aereo e la leggenda del capitano Walker (altro rimando al romanzo) funziona a dovere. Ma per il resto rasenta i limiti del fiacco, affossando in parte anche la tensione che sarebbe necessaria a rendere il racconto avvincente, come nelle scene delle sabbie mobili.
Proprio a tal proposito, Ogilvie, a differenza di Miller, non riesce a celare a dovere i debiti visivi verso David Lean e il mitico "Lawrence d'Arabia", tanto che determinate scene (come quella delle sabbie mobili, appunto) e precise inquadrature vengono riprese di peso dal film del 1962, aumentando il tasso di derivativià di tutto il film.




Derivatività che purtroppo si fa manierismo nel finale, con quell'ultimo e unico inseguimento del film che altro non è se non un rifacimento della mitica fuga finale di "Mad Max 2". Abbiamo nuovamente una fuga appunto, quella di Master e dei bambini da Aunty; abbiamo nuovamente un veicolo principale preso d'assalto da auto più piccole, questa volta un treno; abbiamo nuovamente una tribù di civilizzati contro una di selvaggi, solo a ruoli invertiti questa volta, con gli abitanti del villaggio a fare da "cattivi". E abbiamo nuovamente Max che si sacrifica per permettere la fuga ai più e la sua figura che diventa leggenda per un popolo che si stanzia sul mare, il quale finisce per narrarne le gesta come quelle di un eroe mitologico.
L'influenza di Golding e di Hoban è poi sempre avvertibile nella parte ambientata nel villaggio dei bambini: questa altro non è se non una versione "sana" della società de "Il Signore delle Mosche", dove i giovani non hanno trasformato il loro regno in una dittatura infernale del più forte sul più debole, forse proprio a causa della religione verso il capitano Walker; e oltre a tale nome, il romanzo di Hoban viene ripreso nel modo in cui i bambini utilizzano i cimeli del passato dando loro una valenza religiosa, come il vinile o i pezzi dell'aereo.




L'originalità di questo capitolo è quindi scarsa e appena sufficiente a dargli una propria identità. Alcune trovate meritano però un forte plauso, come il Thunderdome appunto, o la scelta di girare gli esterni nel deserto sabbioso e in quello salino, in modo da ritrovare un look diverso da quello dell'Outback e il suo deserto di terra rossa. Apprezzabile è anche lo sforzo di caratterizzare Max come un ritrovato eroe, che non ha un arco caratteriale vero e proprio e che decide già a metà film di imbarcarsi in un'avventura per raddrizzare un torto che lui stesso ha inavvertitamente contribuito a creare.


"Thunderdome" finisce così per essere un mix di fascinazione e delusione, ad avere in parte una sua identità autonoma e in parte una derivata da altre fonti riconoscibili. Quanto alla volontà di Miller di creare un "Mad Max con la trama", c'è poco da dire, visto che anche a storia è basilare. 
In generale, un terzo capitolo in tono minore, con giusto qualche spunto e qualche trovata interessanti.

lunedì 20 maggio 2024

Challengers

di Luca Guadagnino.

con: Zendaya, Mike Faist, Josh O'Connor, Naheem Garcia, Jake Jensen, Bryan Doo, Shane T.Harris, A.J.Lister, Darnell Upling.

Usa, Italia 2024




















Avevamo lasciato Luca Guadagnino con quel "Bones and All" che aveva dimostrato come anche lui sia in grado, quando vuole, di creare storie convincenti e coinvolgenti, non meri esercizietti di stile compiaciuti della e nella loro pochezza. Lo ritroviamo con questo "Challengers", tanto chiaccherato per le scene di sesso spinto anche prima della sua effettiva presentazione al pubblico, il quale si rivela fatalmente come la sua ennesima prova incolore.




Il tennis come relazione sentimentale, le relazioni sentimentali come una partita a tennis. Guadagnino imbastisce una nuova storia d'amore libero e tormentato dopo "A Bigger Splash" e proprio come in quest'ultimo film non si accorge dei limiti della sua visione.
La storia è super classica: Art Donaldson (Mike Faist) e Patrick Zweig (Josh O'Connor) sono due promesse del tennis e amici inseparabili fin dall'infanzia, inconsciamente attratti l'uno dall'altro. L'incontro con la bellissima Tashi Duncan (Zerndaya) porta alla nascita di un vero e proprio rapporto a tre che si protrae per anni.
Già a leggerla, la storia fa sorgere qualche dubbio: è praticamente una love-story omosessuale nella quale la donna è un elemento di disturbo, che però Guadagnino decide di declinare come un semplice rapporto a tre tra due amici uniti anche dalla tensione erotica e una ninfetta viziosa.




Scelta volontaria o del tutto inconsapevole? Difficile a dirsi, visto che la possibile profondità data dall'inconsapevolezza dell'attrazione tra i due protagonisti maschili viene fugata fin da subito, quindi è come se l'autore abbia deciso volontariamente di leggere questo rapporto non come prettamente omoerotico, ma come puramente amicale-professionale, dove l'attrazione viaggia sottopelle anche quando viene a galla. Zendaya si ritrova così nuovamente a vestire i panni della stronzetta antipatica, un personaggio che oramai sembra non potersi più scuotere di dosso (tanto che finisce per ritornare, inaspettatamente, anche in "Dune- Parte Due"), con l'aggravante che questa Tashi Duncan risulta anche essere un personaggio incompleto, le cui effettive motivazioni sono davvero difficili da comprendere: perché fa realizzare l'attrazione ai due ragazzi solo per poi concupirne uno? Perché avvia la relazione con Patrick per poi farla naufragare di punto in bianco? Cosa vuole davvero da lui?




La sua storia sembrerebbe essere quella di una tennista ambiziosa la cui carriera viene rovinata da un infortunio e che per questo decide di vivere della luce riflessa degli altri, ma la manipolazione verso Patrick avviene prima dell'incidente, lasciando il dubbio sulla sua effettiva caratterizzazione psicologica. Quando poi, tredici anni dopo, li si ritrova ai ferri i corti, il motivo risulta esagerato anche quando si scopre della loro scappatella ai danni di un Art prossimo alle nozze.
Così che, alla fin fine, "Challengers" risulta semplicemente essere la storia di una manipolazione ai danni di due amici/amanti, ma che vorrebbe essere qualcosa di più, una storia sui rapporti sentimentali/amorosi/sportivi che però non va a parare davvero da nessuna parte, oltre che un film sul tennis dove però lo sport è poco più di un glorificato sfondo, apprezzabile solo dai patiti.




Lo stile di Guadagnino è talmente sopra le righe da scadere apertamente nel ridicolo, come al solito. Si parte dai dialoghi fluviali, in teoria la spina dorsale del racconto, tutti categoricamente stereotipati, oltre che privi di mordente e intelligenza. Si passa attraverso un simbolismo ilare, con la tensione sessuale tra Patrick e Art simboleggiata dai churro mangiati avidamente, trovata che persino un adolescente in piena crisi ormonale avrebbe trovato esagerata. Si arriva alla costruzione delle scene, che a sua volta passa da un montaggio pazzo a inquadrature pacchiane, come la soggettiva della pallina che fa somigliare una delle scene madri all'intro di un videogame; oltre all'uso apertamente cafone della musica di Trent Reznor e Atticus Ross, che Guadagnino spara a mille in normalissime scene di dialogo per enfatizzarne la carica drammatica, ma finendo con il risultare clamorosamente kitsch. E poi ci sono le famose scene erotiche, clamorosamente caste, dove a colpire è solo e unicamente la sensualità di Zendaya, per una volta sfruttata a dovere.




"Challengers" finisce così per dimostrare nuovamente quello che può essere definito come "il paradosso Guadagnino", quello di un autore troppo borghese per essere popolare e al contempo troppo rozzo per essere davvero elegante, il quale però vuole essere entrambe le cose senza però riuscire mai a trovare un equilibrio tra elementi dissonanti. Come spesso accade, chi troppo vuole nulla stringe.

mercoledì 15 maggio 2024

Interceptor- Il Guerriero della Strada

Mad Max 2

di George Miller.

con: Mel Gibson, Bruce Spence, Vernon Wells, Emil Minty, Michael Preston, Kjell Nilsson, Virginia Hey, William Zappa, Arkie Whitley.

Azione/Fantastico

Australia 1981















All'indomani dello straordinario successo di "Mad Max", George Miller e Byron Kennedy si ritrovano in una posizione un po' scomoda: hanno dimostrato il loro talento e la vendibilità del loro film e proprio per questo devono farne un seguito. Ma come mai sarebbe potuta proseguire la storia di un personaggio che si concludeva del tutto nell'ultima inquadratura?
La posta in gioco è forse ancora più alta che in passato, ossia dimostrare la capacità di dirigere qualcosa su commissione, di poter creare un prodotto da vendere, ma che al contempo non sia un mero giocattolo con il quale bissare il successo passato. Miller opta quindi per la più intelligente delle soluzioni, ossia usare il budget più consistente per riplasmare l'idea all'origine del primo film.
La ristrettezza di mezzi aveva infatti reso necessario svilupparlo in una scala tutto sommato piccola e a farne le spese era stato soprattutto il setting, fin troppo ordinario per un film ambientato in un futuro ai limiti dell'apocalisse. "Mad Max 2", d'altro canto, è forte di un budget di circa due milioni di dollari australiani dell'epoca, un capitale immenso per una produzione autoctona, il che gli permette di creare un mondo apocalittico perfettamente credibile.
Uscito nei cinema a partire dal dicembre 1981 (in Italia arriverà a partire dall'agosto 1982, riscuotendo ottimi incassi nonostante la magra estiva), questo sequel supera in tutto e per tutto l'originale e finisce per diventare un manifesto di estetica post-apocalittica pop che ancora oggi conta innumerevoli epigoni e debitori di ispirazione.



"Mad Max 2" ovviamente non è stato il primo ad immaginare la società futura come una gigantesca "wasteland", tantomeno il primo a portare avanti l'idea che con la fine della civilizzazione, la barbarie si sarebbe manifestata in primis come una forma di pazzia che avrebbe divorato bene o male tutti gli individui. A questo ci aveva pensato qualche anno prima il bel "Apocalypse 2024", dal quale Miller riprende anche l'idea di un mondo devastato ridotto ad un gigantesco deserto abitato da predoni e sconvolto da lotte tribali. Le differenze con il piccolo cult di L.Q. Jones e Harlan Ellison sono però diverse e consentono all'opera di Miller di aveva una sua forte identità. E in fondo, quello di questo sequel non è che la naturale evoluzione del mondo visto nel primo film, con le Terre Selvagge che si sono estese anche oltre Anarchie Road per invadere tutto il globo.
La crisi energetica è diventata perenne, la società è collassata. La situazione è degenerata a caus dello scontro tra due potenze belliche che si potrebbe pensare siano Usa e Urss, ma che dai documenti di produzione del film si scopre essere Iran e Arabia Saudita che, partendo dalla reale crisi politica del 1979, si sono distrutte a vicenda innescando una reazione a catena che a portano ad una devastazione in tutto il creato. Max continua a correre a bordo della fida V8 Interceptor, ma senza meta alcuna, cercando di sopravvivere in un mondo ostile, perennemente alla ricerca di benzina, ora il bene il più prezioso esistente.




Nella wasteland esiste solo la violenza, solo la legge del più forte. Le ultime vestigia della società si sono sgretolate e i sopravvissuti si sono radunati in sparute tribù in lotta tra loro. L'estetica che Miller inventa (differenziandosi dai suoi predecessori) è originale è accattivante: i selvaggi sono dei punk bardati con abiti di pelle borchiati e protezioni sportive trasformate in armature, mentre gli ultimi civilizzati sono agghindati con tute di un bianco immacolato e con turbanti, visto il loro ruolo di estrattori di petrolio. Tra le intuizioni estetiche che più di tutte si sono impresse nella cultura popolare ci sono ovviamente la tuta di Max, con quello spallaccio singolo e la manica tagliata, ma anche il look di Lord Humungus, con quella maschera da hockey usata per coprire un volto deforme che ha avuto fortuna imperitura nel cinema horror.
Come il mondo di "Apocalypse 2024", anche quello di "Mad Max 2" è il rottame della società odierna, dove gli oggetti comuni sono stati riconvertiti in utensili offensivi; ma a differenza del primo, il film di Miller opta per un'estetica più radicale, per questo decisamente più memorabile. Il debito di ispirazione con il cult del 1974 è poi esplicitato dal compagno canino di Max, che pare Ellison abbia stranamente gradito.




In questo nuovo mondo, Max è un personaggio diverso, quasi agli antipodi di quello che era diventato alla fine del primo film. Leggenda vuole che durante il tour promozionale del suo esordio, Miller abbia incontrato Spielberg e Lucas, i quali si sono complimentati con lui. Stupito, ha chiesto loro cosa trovassero di bello in un film del genere, al che pare che Lucas gli abbia spiegato le similitudini tra la discesa nella pazzia di Max e il cammino dell'eroe di Campbell. Miller ha così deciso di creare una sorta di arco narrativo per la sua creatura, che inizia e in parte si conclude in questo capitolo.
Max è all'inizio in tutto e per tutto un personaggio da spaghetti western, un pistolero senza nome e senza meta che vaga in una terra senza legge alla ricerca dei mezzi per sostenersi. Il parallelo con l'eroe leoniano è reso ancora più evidente nella sceneggiatura originale, dove, dopo il primo inseguimento con Wez, Max tirava in aria un cartello stradale e proseguiva il suo vagabondaggio nella direzione casuale che questo indicava, in una citazione della scena d'apertura di quel "Yojimbo" che altro non era se non il calco di "Per un Pugno di Dollari" (scena poi eliminata in fase di riprese).




Max non è un eroe, non cerca di riportare l'ordine o di raddrizzare i torti. Non è, in tal senso, neanche un antieroe convenzionale, visto che non ha dei veri e propri valori da perseguire a suo modo. E' semplicemente un sopravvissuto che vive alla giornata, difendendosi dagli attacchi di personaggi che potrebbero essere come lui se fossero dei solitari. Tanto che l'incontro con lo strambo capitan Gyro (interpretato dal fortunato caratterista Bruce Spence) è del tutto casuale e la loro alleanza puramente opportunistica, così come lo è la decisione di difendere la tribù di estrattori.
Situazione che cambia nel terzo atto, dove questo sopravvissuto menefreghista, spogliato di tutto quello che aveva, decide volontariamente di guidare la fuga verso la salvezza degli alleati di convenienza, di divenire l'ago della bilancia nello scontro tribale. Alla fine, Max diventa un eroe, anche se in senso lato, un uomo che ha deciso volontariamente di sacrificarsi per il bene altrui senza avere nulla in cambio. Il suo atto diventa così un mito, la leggenda di una nuova era, tanto che tutto il film è narrato attraverso il ricordo del Feral Kid, il bimbo selvaggio che vede in Max una figura paterna. Ed è proprio tale rapporto che permette all'eroe di trovare per la prima volta una forma di ideale, in quello sguardo idolatrante del surrogato di un figlio che ha perso, che ora non vorrebbe, ma che non riesce a non proteggere.




La storia è come da copione ridotta all'osso, ma è qui che Miller inizia davvero ad utilizzare una narrazione secca, fatta principlamente di immagini. L'influenza del tanto amato cinema muto si riscontra nell'uso scarno dei dialoghi, davvero pochi e adoperati solo quando strettamente necessario. A parlare sono le immagini e la musica altisonante di Brian May, le quali illustrano da sole eventi e personaggi; i quali sono più profondi di quanto uno sguardo superficiale possa far percepire. Basti vedere i rapporti tra gli Humungus, le bestie fin troppo umane nel relazionarsi tra loro: la furia di Wez è dovuta all'uccisione dell'amato (anche se Vernon Wells ha più volte sottolineato come, lasciato libero di creare un background al suo personaggio dal regista, abbia deciso di vedere nella loro relazione quella di un padre surrogato e di un figlio acquisito, in un parallelo forzato, ma interessante con quello del personaggio di Max), mentre il rispetto che Lord Humungus ha per la sua "bestia prediletta" è tutta nel modo in cui cerca di calmarlo per evitare che si autodistrugga.
Quella di Miller è così una storia certamente essenziale, ma mai banale, ovviamente messa del tutto al servizio dell'azione. La quale è tutt'oggi qualcosa di incredibile.




Il budget più alto gli permette di muovere più veicoli in sequenze adrenaliniche, tutte tirate su con un gusto per la coreografia esemplare. La sua mano è fermissima e il suo occhio riesce sempre a catturare al meglio le singole azioni, persino quelle più complesse, come nel famoso inseguimento finale. Il quale, per forza di cose, è l'apice di tutto il film e forse della sua intera filmografia.
Rilettura fantastica del classico assalto al treno di tanto cinema western, l'assalto alla cisterna  è il coronamento di circa 90 minuti di adrenalina che in quest'ultima parte accelera fino ad impennarsi, una vera e propria lezione di cinema compressa in un'unica sequenza. La cadenza del montaggio è perfetta, ogni inquadratura si incastra a dovere (persino quelle dove la luce cambia, errore dovuto al poco tempo a disposizione per girare, cosa ovvia in un film dal budget comunque non esorbitante). Inseguimento che Miller segmenta in piccole scene dotate della giusta carica drammatica, soluzione che gli permette di rallentare e aumentare il ritmo a cadenza regolare senza infiacchire la durata generale; il climax lo si raggiunge nella scena nel quale il Feral Kid deve recuperare la cartuccia, apice risolutivo che prelude ad un colpo di scena ovvio solo a posteriori (benché anticipato da un piccolo errore di continuità qualche minuto prima).




Ancora oggi, la perizia stilistico-estetica che Miller sfoggia in "Mad Max 2" ha ben pochi eguali e l'intero film non ha perso davvero nulla della sua carica spettacolare e del suo fascino selvaggio. Il suo lascito è ancora forte, con quell'immaginario post-apocalittico ripreso quasi ovunque. Senza contare come, assieme al coevo "1997: Fuga da New York", già all'epoca avesse creato un vero e proprio genere exploitation, ennesima prova della sua importanza.

lunedì 13 maggio 2024

Priscilla

di Sofia Coppola.

con: Cailee Spaeny, Jacob Elordi, Ari Cohen, Dagmara Dominczyk, Tim Post, Lynne Griffin, Dan Beirne, Rodrigo Fernandez-Stoll.

Biografico

Usa, Italia 2023
















La fascinazione femminista che la Coppola sembra subire da qualche anno a qeusta parte si era concretizzata nel brutto "L'Inganno" già nel 2017; tonfo al quale era seguito l'evanescente "On the Rocks", di carattere prettamente più personale e lontano in parte dalle influenze politiche. 
Con "Priscilla", la figlia d'arte prova una carta in parte inedita, ossia un biopic che le permetta di ritrarre la figura di una donna vittima di una figura maschile che la sfrutta e la schiaccia, in un paradigma femminista di fin troppo facile costruzione, cosa che aveva già in parte fatto con "Marie Antoniette", ancora oggi uno dei suoi pochi film davvero riusciti. Il risultato è un'opera tutto sommato convincente, ma del tutto priva di nerbo.




La storia di Priscilla Beaulieu (Cailee Saeny) e Elvis (Jacob Elordi) viene riportata con dovizia di particolari, rifacendosi direttamente alla sua autobiografia. La Coppola la rilegge, appunto, come il dramma di una donna-bambina follemente innamorata di un uomo più grande, al quale dedica tutta se stessa ricevendo poco o nulla in cambio.
Il dramma di Priscilla è quello di una ragazza divenuta orpello, un essere umano usato come appiglio di speranza da un uomo afflitto dal lutto. La relazione tra i due, come da sempre sostenuto dalla vera Priscilla Presley, inizia in modo platonico: Elvis aveva bisogno non di una donna, quanto di una persona che fosse in grado di ascoltarlo, di dargli supporto a seguito della morte dell'amata madre.




La Coppola dipinge tale rapporto appunto come platonico, ma sottolinea come l'assenza di una relazione fisica abbia finito per compromettere l'affettività della ragazza. Il che talvolta finisce per far scadere il film nel cattivo gusto, visto che si tratta pur sempre della relazione tra una diciasettenne e un uomo di molto più grande, il quale vuole semplicemente attendere il raggiungimento della sua maggiore età prima di possederla fisicamente. 
Laddove la Coppola riesce perfettamente nel far trasparire il dramma della sua protagonista è nel suo ruolo di reclusa in un castello dorato, quella Graceland ove nulla le manca, tranne gli elementi essenziali per una vita vera, ossia i rapporti umani.




Graceland diventa una prigione asfissiante, perennemente ritratta in giusto un pugno di inquadrature in modo da incrementare la sensazione di claustrofobia. Il carceriere è lo stesso Elvis, che usa la donna amata come puro sfogo. Un appiglio, sicuramente, ma anche un oggetto da possedere e da plasmare a suo piacimento, modificandone l'aspetto fisico e quello caratteriale anche tramite l'uso delle pillole del quale lui stesso è schiavo.
Priscilla diventa così la succube di un uomo sensibile, ma privo di tatto nei suoi confronti, debole, ma pronto alla facile ira, del tutto incapace di comprenderne o persino percepirne gli effettivi bisogni. L'Elvis di "Priscilla" è tanto carnefice quanto vittima, schiacciato dal successo, compromesso dalle necessità dello showbusiness e di riflesso schiavo di quel colonnello Parker che pur non apparendo mai su schermo riesce lo stesso a gettare la sua ombra sinistra sulla storia.  
Una lettura credibile e veritiera, che riesce anche grazie all'impegno del cast, ma che trova un limite assoluto nell'incapacità della Coppola di tirare su una narrazione coinvolgente.




"Priscilla" è un film fin troppo freddo e compiaciuto della sua stessa freddezza, chiuso in inquadrature talvolta inutilmente statiche, ammantato in una fotografia dai colori fin troppo freddi persino in quella prima parte dove invece la storia d'amore tra la giovanissima figlia di un capitano di stanza in Germania e un sex symbol follemente innamorato avrebbe meritato un'estetica decisamente più gradevole. Tutto è freddo, dai dialoghi alle performance, dal montaggio volutamente fiacco alla fotografia dalle luci fin troppo naturalistiche. Scelta estetica del tutto coerente con il racconto di una donna chiusa in un rapporto privo di vera passione, ma che finisce per compromettere la possibilità dello spettatore di essere davvero schiacciato dall'atmosfera opprimente che la protagonista dovrebbe vivere, venendo invece schiacciato da un senso di gelo e talvolta di noia. 
La Coppola predilige uno stile vacuo, un ritmo flemmatico, una narrazione (in generale) del tutto inerte e per questo del tutto inerme, quella propria di praticamente tutto il suo cinema. Un cinema convinto che la sottrazione assoluta sia sinonimo di maturità, da sempre adagiato sulle coordinate di un'essenzialità che arriva a sfiorare il ridicolo, come in questo caso, dove l'assenza di controcampi in molte scene inificia persino il lavoro degli attori. 




Questo suo exploit finisce così per essere ben eseguito, ma tutto sommato insipido. Un perfetto controcampo al fin troppo sgargiante "Elvis" di Luhrmann come è stato definito? Sicuramente. Ma questo non lo rende davvero memorabile, purtroppo.