mercoledì 27 novembre 2024

Il Gladiatore II

Gladiator II 

di Ridley Scott.

con: Denzel Washington, Paul Mescal, Pedro Pascal, Connie Nielsen, Joseph Quinn, Fred Hechinger, Derek Jacobi, Rory McCann, Peter Menash, Matt Lucas.

Azione

Usa, Regno Unito, Marocco, Canada 2024







---CONTIENE SPOILER---

E' giusto liquidare Il Gladiatore II come un sequel inutile. Quello che forse sfugge è come un'operazione del genere abbia più senso di quanto appaia. Perché l'originale altro non era se non una riesumazione del peplum classico hollywoodiano, quindi una pellicola spettacolare fatta e finita, senza ulteriori pretese o ambizioni. E' sbagliato criticare sia l'originale che questo seguito per la scarsa verosimiglianza storica, visto che questa non è mai stata né una prerogativa del genere, tantomeno del cinema di Ridley Scott, che già ai tempi del suo esordio con I Duellanti si prendeva più di una licenza poetica in nome della pura spettacolarità (tutto questo senza voler neanche provare a citare il disastro di Napoleon). Il Gladiatore II non è che una continuazione di quel discorso filmico, che vanta tra l'altro anche un "illustre" predecessore ne Il Figlio di Spartacus di Corbucci, sequel "ufficiale" del cult di Kubrick che qui viene letteralmente saccheggiato sul piano narrativo.
Messi quindi da parte tutti i pregiudizi di sorta, si può così guardare in modo obiettivo a questo legacy sequel; solo per accorgersi lo stesso della sua inusitata pochezza.



La perfetta incarnazione del film è data dal suo stesso protagonista, Paul Mescal, un attore che ha sicuramente la faccia giusta e il giusto talento, ma che si sforza costantemente per essere un eroe para-mitologico senza però avere il carisma necessario per riuscirci. Allo stesso modo, Il Gladiatore II vuole essere un sequel tanto degno quanto più grande del suo amatissimo predecessore, ma ci riesce solo sulla carta.
La storiella imbastita da Scott e soci per il ritorno nella sua Roma del II secolo dopo Cristo tutto sommato è lodevole, anche per come si riconnette al primo film; certo, è poco più di una fotocopia di quella del predecessore nel quale tutti dimenticano anche solo di accennare a come Geta e Caracalla abbiano preso il potere, ma è tutto sommato un difetto scusabile.
Il problema è come questa storiella viene portata in scena, ossia con il pilota automatico.




Tutte le scene d'azione, siano esse le battaglie che gli scontri nell'arena, mancano sempre di enfasi. Fortunatamente Scott ha superato la moda dei primi anni '00 dove tutto veniva costruito in montaggio, con macchina multipla, inquadrature strette e otturatore chiuso, quindi si possono finalmente seguire i movimenti dei suoi gladiatori, ma questi sono quanto mai robotici, rendendo gli scontri freddi, vanificando ogni forma di tensione possibile e immaginabile.
Non conta quindi che questa volta sia riuscito finalmente ad infilare un rinoceronte nel Colosseo e persino quella battaglia navale tanto fantasiosa quanto storicamente reale (squali a parte), ogni volta che i personaggi estraggono le spade non si ha il mino sussulto. Con la conseguenza che tutta la storia perde di mordente e di coinvolgimento. Si è scossi, semmai, per l'alto tasso di violenza, anch'essa superiore al primo film, ma talvolta fuori luogo.




Se poi proprio si vuole cercare il pelo nell'uovo ed essere anche un po' scorretti, si può sottolineare come molte delle inesattezze storiche questa volta sembrano più figlie della sciatteria che di una precisa scelta artistica. Perché passino pure gli squali nel Colosseo e le soldatesse numide (neanche fossero Pitte...), ma quando spuntano scritte in inglese, babbuini selvaggi in CGI sedati con la cerbottana e un senatore romano che legge un giornale su carta stampata, la sospensione dell'incredulità crolla miserabilmente senza però avere nulla in cambio.




A salvare la visione ci pensa quindi Denzel Washington nei panni del villain Macrino, che in quanto a carisma divora sia Mescal che il pur sempre affidabile Pedro Pascal, qui quanto mai sottotono. Washington, d'altro canto, non si risparmia e plasma il suo cattivone sovversivo e nichilista con la giusta dose di determinazione e divertimento; tanto che si potrebbe scherzare su come il vero gladiatore del titolo sia lui, non il protagonista Annone.




Il Gladiatore II stupisce dunque per il suo essere inspiegabilmente dignitoso. Delude, ovviamente, come pellicola di puro intrattenimento, prova di come Scott forse sia davvero invecchiato, davvero incapace di creare un film all'anno senza scadere nella mediocrità più totale.

giovedì 21 novembre 2024

Sacco e Vanzetti

di Giuliano Montaldo.

con: Gian Maria Volontè, Riccardo Cucciolla, Cyril Cusack, Rosanna Fratello, Geoffrey Keen, Milo O'Shea, William Prince.

Storico

Italia, Francia 1971













Il racconto dell'omicidio di Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti è divenuto in pochissimo tempo la testimonianza di una delle pagine più vergognose della storia americana. Un racconto fatto di razzismo, di intolleranza verso il "diverso" dovuta alla sua lontananza non solo genetica, ma anche ideologica verso un sistema le cui storture si vogliono ignorare proprio attraverso ulteriori storture e ulteriori ingiustizie.
Giuliano Montaldo, da sempre fautore di un cinema che guarda al passato recente per preservarne il ricordo, era l'autore perfetto per cristallizzare questa storia in un racconto filmico. E, infatti, il suo Sacco e Vanzetti rappresenta un magnifico esempio di cinema che si fa testimonianza, racconto di un'ingiustizia affinché quelle figure, loro malgrado tragiche, facciano da esempio affinché episodi del genere non debbano più verificarsi.



L'idea di fare il film nasce proprio dalla necessità di creare una testimonianza per un episodio storico che in Italia non aveva avuto effettiva risonanza, almeno fino ad allora; gli anni nei quali si svolge il processo a Sacco e Vanzetti sono infatti quelli dell'ascesa del Fascismo, in particolare il periodo che va dal 1920 al 1927; mentre nel mondo le proteste per la loro liberazione erano imponenti, con vere e proprie folle oceaniche che si radunavano nelle piazze di tutto il globo, in Italia le folle oceaniche erano riservate per il regime e un movimento di protesta contro l'ingiusta esecuzione di due attivisti anarchici era semplicemente inattuabile. Il che ha portato all'oblio della loro storia, della quale neanche Montaldo, alla fine degli anni '60, era effettivamente a conoscenza.


L'effetto che poi il film ha avuto forse non era neanche stato messo in conto dai suoi autori: a partire dalla metà degli anni '70, il caso dei due immigrati ingiustamente giustiziati viene studiato nelle facoltà di legge di mezza America e nel 1977 il governatore del Massachusetts arriva persino a riabilitarli, pur in un'azione postuma, la quale però conserva lo stesso il significato di una presa di coscienza verso un'ingiustizia che solo in quegli anni poteva avvenire. Senza contare come la bellissima ballata di Joan Baez sia divenuta l'inno ufficiale della lotta per i diritti umani per Amnesty International.
Nel ricostruire la vicenda, poggiando la narrazione essenzialmente sul lungo processo, Montaldo non manca di enfatizzare la situazione precaria e paranoica che la democrazia non solo americana attraversava negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d'Ottobre.
La paura era quella di una rivolta armata del proletariato, situazione che nel Massachusetts dei conservatori era incarnata dal governatore Palmer, vero e proprio McCarthy ante-literam, il quale non si è certo fatto scrupoli quando si è trattato di reprimere il "pericolo rosso". Tanto che il film si apre, in bianco e nero, con le immagini degli arresti verso i membri dei comitati sinistrorsi, che Montaldo porta in scena come una vera e propria repressione squadrista, solo con i poliziotti americani al posto delle Camicie Nere.


Il rigore morale è alto, tanto quanto l'accuratezza nella ricostruzione degli eventi. Il vergognoso caso giudiziario viene riproposto con dovizia di particolari: la mancanza di terzietà del giudice Thayer e la ferocia xenofoba del procuratore distrettuale Katzmann, mossi dalla propria indole razzista prima ancora che dalla paura dei tumulti di classe viene portata in scena senza filtri, né abbellimenti. Il caso di Sacco e Vanzetti diventa così la cartina di tornasole di quello che oggi definiremmo un "razzismo sistemico" internalizzato al capitalismo pre-sessantottino, dove tutto è mirato al compiacimento di una classe dirigente borghese la quale si pone come una vera e propria nuova aristocrazia.
Sacco e Vanzetti diventano così l'incarnazione degli ultimi, di quella massa di lavoratori dimenticata o, meglio, ignorata dal potere e dai potenti, il volto, scafato e infelice, di chi è giunto in America alla ricerca del Sogno Americano, ma non lo ha trovato. O che, forse, costituisce quel humus necessario affinché il Sogno Americano si avveri per gli altri, per i più fortunati, non certo per loro.
Il loro sacrificio è così necessario al mantenimento del benessere altrui; in questo, i due sono simili ai protagonisti di Gott mit Uns nel rappresentare il capro espiatorio con il quale un sistema ingiusto e corrotto si legittima davanti ai suoi stessi membri, due ingranaggi necessari alla macchina del potere dalla quale vengono però schiacciati.



La ricostruzione della cospirazione ai danni di Sacco e Vanzetti è anch'essa certosina, con le prove sparite e il fascicolo riguardante i veri rapinatori volatilizzatosi; ma Montaldo non si dimentica di caratterizzare in modo umano i suoi protagonisti e di far empatizzare lo spettatore con il loro dramma anche in modo più genuinamente sentimentale. Da cui l'enfasi data alla crisi famigliare di Nicola Sacco e il disgregarsi del suo rapporto con la moglie e il figlioletto Dante.
Nel portare in scena l'umanità insita al dramma, l'autore trova due ottimi interpreti; Volontè al solito non delude, alternando forza enfatica ad una sottigliezza fatta di silenzi e sguardi. Meglio di lui riesce a fare Cucciola, nell'abbandonarsi totalmente alla pietà verso il suo personaggio. A coronare il tutto ci pensa poi la musica di Morricone, resa ancora più struggente dalle note delle celebri ballate, giustamente divenute sinonimo di emotività prima ancora che le note della lotta per i diritti.


Sacco e Vanzetti rappresenta così una splendida fusione tra il rigore del cinema d'inchiesta e lo sguardo pietoso del dramma. Montaldo raggiunge qui uno vertici della sua carriera e ci regala una testimonianza che oggi acquista ancora più valore: il ritorno in auge della estrema destra in Italia così come nel resto del mondo è sinonimo della dimenticanza del passato. Per questo, un film del genere, la storia del rituale sacrificio di due dissidenti la cui unica colpa è stata quella di essere rimasti delusi dal sistema e aver professato l'anarchia, andrebbe proiettato nelle piazze.

venerdì 15 novembre 2024

Longlegs

di Osgood Perkins.

con: Maika Monroe, Nicolas Cage, Blair Underwood, Alicia Witt, Michelle Choi-Lee, Dakota Doulby, Lauren Akala, Kiernan Shipka.

Thriller/Horror

Canada, Usa 2024
















---CONTIENE SPOILER---

Cercare di dire qualcosa di nuovo con la tematica dei serial killer è impresa assai difficile, visto il riorno in auge dell'argomento che si è verificato negli ultimi anni. Tra serie televisive che ricostruiscono la vita degli assassini più efferati (con risultati talvolta di cattivo gusto) e podcast di true crime che dissezionano ogni singolo evento di cronaca nera (con risultati talvolta di ancora più cattivo gusto), al cinema non resta che cercare di rileggere l'argomento stilizzandolo verso l'horror, soluzione che funziona soprattutto quando non si tirano in ballo eventi reali.
Longlegs alla fine non fa altro che riprendere gli stilemi di tanto cinema sui serial killer del passato, in particolare di quella visione post Il Silenzio degli Innocenti che ibridava il thrilling poliziesco con l'horror vero e proprio; la visione di Osgood Perkins, figlio del compianto Anthony e solitamente più attivo nel filone apertamente sovrannaturale, è chiara, ossia quella di rifarsi alle letture più disturbanti del fenomeno, per poi calarlo in un contesto squisitamente orrorifico, che nell'ultimo atto sfocia, appunto, nel sovrannaturale vero e proprio. Impresa perfettamente riuscita, ma di certo non memorabile come si potrebbe credere.



Usa, anni '90. La giovane detective del FBI Lee Harker (Maika Monroe) scopre di avere delle capacità psichiche; per questo viene messa sulle tracce del serial killer semplicemente noto come "Longlegs" (Cage), attivo dal oltre vent'anni...
L'ambientazione riporta alla mente i classici del thriller-horror, ma l'atmosfera cui si rifà Perkins pesca più che altro dall'immaginario del cinema anni '70, con tanto di richiami vintagexploitation nelle scenografie e soprattutto nell'uso del 4:3 per i flashback.
L'intento è chiaro, ossia quello di rielaborare in chiave fantastica alcuni casi di cronaca: alla base della storia c'è infatti la figura della "Bestia del Jersey", attiva nei primi anni '70. Perkins enfatizza gli aspetti satanici degli omicidi e ne fonde la figura con quella di Zodiac Killer, con tanto di codici astratti usati per comunicare con gli inquirenti.


La transizione da comune thriller con venature orrorifiche a horror vero e proprio avviene in modo naturale anche grazie all'atmosfera che il film riesce ad intessere con cura; un'atmosfera autunnale e fredda, nella quale la violenza risalta maggiormente, oltrepassata in efficacia solo dai riferimenti religiosi e sacrileghi, che riescono davvero a comunicare un senso di disagio costante per tutta la durata.
Perkins riesce così a tenere sempre alta la tensione, anche grazie allo stile ipnotico della costruzione delle inquadrature, ricercatissime nella loro essenziale geometricità. Ed è proprio qui che Longlegs, paradossalmente, mostra tutti i suoi limiti.


Perché alla fine della fiera, tutto il film non è che una riesumazione di un vecchio filone del cinema dell'orrore, tanto che, una volta scoperta la transizione verso l'horror satanista che si ha a metà film, il paragone con il purtroppo dimenticato Il Tocco del Male appare inevitabile. Ma Perkins dirige tutto con la mano pesante di chi crede di stare creando un'opera radicale e originale, come un Ari Aster o un Robert Eggers, caricando di enfasi ogni singola immagine e ogni singola scena e, contemporaneamente, dirigendo Maika Monroe in modo da essere il più fredda possibile. 
Il risultato è il più classico degli "elevated horror" degli ultimi anni, un perfetto paradigma di quei film di genere prodotti dalla A24 o dalla Neon (che guarda caso qui è coinvolta) dove la messa in scena vuole far credere che ci sia qualcosa di più a livello contenutistico, quando invece non c'è nulla oltre ad una semplice storia poliziesca e orrorifica. Con la conseguenza, ulteriore, che il film perde di personalità proprio perché ancorato agli stilemi di una messa in scena "snob" di tanto cinema degli ultimi dodici anni, con tanto di camera a mano che pedina la protagonista, inquadrature laccate, macchina da presa immobile per trovare sempre la soluzione geometricamente più azzeccata e poche inquadrature per le scene più importanti (come nell'apparizione, essenziale ai fini della storia, di Kiernan Shipka, risolta praticamente con un'unica, lunga inquadratura).


Longlegs è, in buona sostanza, un puro exploit di genere travestito da pellicola "elevata", nulla più di quello che fino ad una quindicina di anni fa sarebbe stato etichettato come l'ennesimo epigono di Se7en, sul quale è stata poi passata una mano di vernice per travestirlo da film impegnato e innovativo. Perkins lo ha semplicemente diretto con la flemma di chi sta dirigendo un dramma esistenzialista, nulla più, perché di tutti gli argomenti "elevati" toccati, nessuno diventa mai il centro effettivo del racconto: non la tematica satanista o antropologica, non il rapporto famigliare "malato" dei personaggi, non la ricostruzione della religiosità in America, né gli effetti che una serie di omicidi brutali possano avere sulle piccole comunità. Persino il nome del killer non trova effettiva spiegazione.
Tolta la patina di "impegno", quello che resta è un film di genere solido e con due ottimi protagonisti, ma è anche corretto dire che non sia altro se non "Il Tocco del Male diretto a là Bergman". E la mente corre a Thriller- A Cruel Picture.

lunedì 11 novembre 2024

Terrifier 3

di Damien Leone.

con: David Howard Thornton, Lauren LaVera, Elliotl Fullam, Antonella Rose, Samantha Scaffidi, Margaret Anne Florence, Alexa Blair, Bryce Johnson, Clint Howard, Tom Savini, Jason Patric, Chris Jericho.

Horror/Slasher/Gore

Usa 2024













Il successo di Terrifier 2 sembra aver nuovamente aperto le porte al cinema horror estremo. Successo che non è confinato ai semplici numeri, quanto anche alla cronaca, visto il famoso caso nel quale in una scuola media nostrana il film è stato mostrato per intrattenere gli alunni, causando urla di panico e svenimenti, episodio che ha cementificato la fama della creatura di Damien Leone presso i più giovani.
Arrivato circa due anni dopo il secondo (in realtà terzo) capitolo, Terrifier 3 ha letteralmente fatto a pezzi il box office americano e ottenuto un ottimo riscontro anche alle anteprime di Halloween qui in Italia, dove per la prima volta Art il Clown giunge in sala.
Successo meritato: quella di Art è davvero una maschera slasher memorabile e le sue gesta, anche in questo terzo film, sono talvolta da antologia del filone gore. Tuttavia, c'è qualcosa in questo nuovo capitolo che lo rende per certi versi meno memorabile del precedente...

















Sono passati cinque anni da quando Sienna (Lauren LaVera, bella e brava come sempre) ha decapitato Art il Clown (David Howard Thornton) durante la notte di Halloween. Lei è rimasta traumatizzata e ha trascorso tale periodo in una casa di cura, dalla quale viene dismessa per andare a vivere con gli zii. Lui è letteralmente rinato dal corpo di Vickie (Samantha Scaffidi), la final girl del primo film ora divenuta sua complice e compagna; dopo un periodo di vera e propria ibernazione, Art torna alla carica, giusto in tempo per il periodo natalizio...

















Leone alza in tiro in (quasi) tutti i sensi. Ha qui un budget ancora più alto che nel predecessore, che gli permette di curare maggiormente la messa in scena. La fotografia diventa davvero interessante, con i giochi di luce natalizi che creano immagini calde e avvolgenti, cornice perfetta per il gore al solito estremo; l'ambientazione, poi, aggiunge quel qualcosa di originale, rifacendosi alla tradizione degli horror natalizi a là Natale di Sangue, con Art che sfoggia un simpatico costume da Babbo Natale per quasi tutta la durata, trovata che ha portato poi alle classiche polemiche per la scena in cui fa saltare in aria dei bambini con una bomba, come se Gli Intoccabili di De Palma non fosse mai esistito...
Il tono affettuoso verso i classici prende poi le forme di un paio di amorevoli camei, con le apparizioni di Daniel Roebuck e Clint Howard nei panni di alcune vittime e del mitico Tom Savini in quelli di un tizio intervistato in merito al massacro al centro commerciale, trovata davvero simpatica.



















Il gusto per l'esagerazione è sempre presente e sempre alto, ma Leone sa comunque dove fermarsi, vista anche la presenza di bambini tra le vittime di Art. Nella famosa scena della bomba, di fatto non si vede mai la piccola vittima saltare in aria, così come nel prologo i due bambini muoiono fuori scena, anche se viene mostrato il cadavere mutilato di uno dei due, fortunatamente senza volto. Il cattivo gusto effettivo viene così evitato e il tasso di divertimento è sempre alto.
Tuttavia, a questo giro è come se parte del mordente sia andato perso: sebbene ci sia sempre una componente sadica nelle uccisioni, anche quando virate al grottesco, manca quella vena di vera cattiveria che era presente nei primi due film; manca, per intenderci, quel senso di disagio nel vedere i corpi delle vittime vandalizzati che si aveva nella celebre scena della morte di Catherine Corcoran nel primo film o in quella della ragazza "zombificata" nel secondo.



















Terrifier è diventato mainstream? Sicuramente, non per l'altro che per l'uscita in sala a livello internazionale, ma questo non è per forza un difetto, in prima istanza proprio perché Leone non si è lasciato condizionare in merito alla soglia del mostrabile. In secondo luogo, complice il buon budget, qui dimostra una mano da filmmaker decisamente più ferma, con il montaggio generale che non si ferma all'assemblaggio delle singole inquadrature, cosa che invece avveniva nel capitolo precedente e che dava la sensazione di stare assistendo ad una copia-lavoro piuttosto che ad un film finito. Soprattutto, oltre alla fotografia più curata, le singole scene danno la sensazione di assistere ad un film vero e proprio, non un piccolo indie girato giusto con gli spicci, e questo nonostante il budget non sia di certo stratosferico. Per intenderci: le scene ambientate al campus e al centro commerciale permettono al film di avere un respiro più ampio e di non confinarlo ai soliti interni di villette piccolo-borghesi o piccoli diner deserti.



















Se mai si può davvero rimproverare qualcosa a Damien Leone è quel finale fin troppo aperto, dove la sua volontà di far capire al pubblico come tutto Terrifier altro non sia che una scusa per imbastire ammazzamenti creativi diventa fin troppo evidente. La risoluzione che veniva data nei film precedenti, che pure mancavano (e fa strano scriverlo) di una "trama" completa, era decisamente più soddisfacente, qui invece si ha davvero la sensazione di aver voluto lasciare tutto in sospeso per non togliere tempo alle scene gore nel film successivo.
Mancanza che non rende il tutto meno godibile. Perché alla fine anche Terrifier 3 altro non è se non quello che appare, ossia un buon slasher vecchia scuola che intrattiene grazie agli SFX e all'iconicità del suo mostro.

venerdì 8 novembre 2024

In nome del popolo italiano

di Dino Risi.

con: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Ely Galleani, Yvonne Furneaux, Michele Cimarosa, Renato Baldini, Pietro Tordi, Maria Teresa Albani, Simonetta Stefanelli.

Italia 1971

















---CONTIENE SPOILER---


Guardando i nomi coinvolti in un film come In nome del popolo italiano si potrebbe pensare alla classica commedia all'italiana o al massimo ad una commedia stile Un Giorno in Pretura; alla sceneggiatura troviamo Furio Scarpelli, sempre in coppia con Agenore Incrocci, in arte "Age"; alla regia un gigante della commedia come il mai troppo lodato Dino Risi; i due protagonisti sono Gassman e Tognazzi, i quali già all'epoca venivano ricordati e apprezzati principalmente per opere leggere e umoristiche.
Quando poi ci si accinge a guardare il film, ci si accorge di come di commedia non abbia quasi nulla (benché l'elemento umoristico sia più marcato rispetto ad opere simili dell'epoca, come Detenuto in attesa di Giudizio di Nanni Loy) e che si tratti in realtà di un esponente del filone del Cinema Civile Italiano anche alquanto rigoroso nelle sue posizioni (che nel finale si fanno persino radicali).
Non bisogna però stupirsene, in primis a causa dell'estrema versatilità di Risi, del duo di sceneggiatori del resto del cast artistico, i quali hanno sovente lavorato anche in opere decisamente più "serie" (il virgolettato è d'obbligo, visto che anche gli exploit più leggeri di leggero spesso avevano solo il tono); in secondo luogo, non va mai dimenticato come la Commedia all'Italiana di fatto sia figlia del Neorealismo, il quale, sul lungo periodo, ha finito per plasmare lo stesso Cinema Civile, non tanto nella messa in scena quanto nell'impegno delle tematiche trattate.
Commedia e film d'impegno morale e civico altro non sono, dunque, che due frutti del medesimo ramo e talvolta il confine tra i due è stato (ed è in realtà tutt'ora) labile. E In nome del popolo italiano è qui a testimoniarlo.



















Se molti esponenti del filone si sono dimostrati ancora attuali, In nome del popolo italiano si è dimostrato anche profetico, con la precognizione del berlusconismo e suoi orrori, i quali già nel 1971 erano palesi nella società italiana. La trama, in tal senso, è altamente esemplificativa: il dottor Bonifazi (Tognazzi). da poco promosso a giudice istruttore, si ritrova a dover investigare sulla morte della giovane e bella prostituta Silvana Lazzorini (Ely Galleani, all'epoca già vista in Una Lucertola con la Pelle di Donna di Fulci). Il principale indiziato sembrerebbe essere Lorenzo Santenocito (Gassman), rampante imprenditore con più aziende che capelli in testa.
La dinamica è quella dello scontro tra personalità opposte: da un lato un magistrato integerrimo e guidato unicamente dal suo senso civico, dall'altro un imprenditore spregiudicato ed edonista, nonché ex fascista arricchitosi alla borsa nera durante la guerra; ed è bene mettere subito le cose in chiaro: nello scontro di bravura tra Tognazzi e Gassman, è il primo ad uscire vincitore, non per altro perché la scrittura gli permette di interpretare un personaggio per lui in parte inedito, ossia un idealista distrutto dalla deriva immorale di quella società che è chiamato a tutelare, il cui sguardo triste trasmette una malinconia empatica. Gassman, pur divino, non fa altro che ripetere una delle sue maschere predilette, soprattutto nel cinema di Risi. 



















Lo scontro, in sostanza, è quello tra magistratura e classe dirigente corrotta e già qui l'ombra lunga degli scandali della squallida Seconda Repubblica si allunga a ritroso, resa ancora più cupa dalla centralità del personaggio della prostituta, sorta di olgettina ante literam usata da Santenocito per oliare i rapporti con i partner di affari. 
E' poi lo stesso Santenocito a rappresentare un paradigma perfetto del tipo di imprenditore che Berlusconi porterà alla ribalta a partire dalla fine del decennio, ossia uno spregiudicato in grado di usare qualsiasi strategia pur di prosperare e il cui motto è letteralmente "la corruzione è progresso"; un uomo che vive impunemente usando i valori tradizionali come paravento per darsi un tono di superiorità morale, solo per sguazzare nell'autoindulgenza più pura: lo vediamo affermare di essere un uomo di famiglia, ma poi scarica il padre quando capisce che non può utilizzarlo per costruirsi un alibi; allo stesso modo, ha una figlia che ha la stessa età dell'amante e alla quale inculca un moralismo anti-sessuale ilare nella sua ipocrisia. 
Ipocrita è appunto la parola giusta per descriverlo, manipolatore la qualità che meglio gli si addice, tanto che cerca persino di convincere Bonifazi di una comunanza che in realtà non hanno. Risi e gli sceneggiatori lo vestono da romano e forse mai maschera fu più calzante, con gli atteggiamenti narcisisti e immorali che ricordano davvero quelli di un archetipo della Roma pagana.


















Bonifazi è ovviamente una nemesi, un giudice irreprensibile il quale si ritrova ad aver a che fare con un campione di impunità. Laddove il suo nemico prospera, lui vive una vita tutto sommato agra, reduce da una separazione che lo ha svuotato di ogni forma di affetto, con lo spettro della moglie fedifraga pronto a riaffacciarsi solo per sfruttarlo; e, prima ancora, perso in uno stato di depressione dovuto all'alienazione verso quella società chiamata a difendere. 
Una società non diversa da quella che Risi, Age, Scarpelli e tutti gli altri autori della Commedia all'Italiana descrivevano, popolata da zotici e sfruttatori, pagliacci pronti a tutto pur di salvarsi e imbecilli dalla parlata veloce, dove la maleducazione la fa da padrone e il gergo aulico è usato come espressione di superbia, unico aspetto nel quale il film è invecchiato male: oggi l'imprenditore corrotto e ammanicato raglierebbe versi incomprensibili riguardo alla libertà, con un corredo di parolacce e insulti gratuiti.
Se i due poli opposti dello scontro ideologico tra morale e immoralità sono due persone tutto sommato posate, del tutto caricaturali sono coloro i quali vengono chiamati a ricoprire il ruolo del "volgo". In prima istanza, questo è ricoperto dai genitori della vittima, due spiantati che adoperano una patina di ricercatezza per coprire il buco nero umano e morale del quale sono fatti: poeta il padre, insegnante di musica la madre, gioiscono del fatto che la figlia si vendesse perché così garantiva loro un buon tenore di vita, attaccati più alla materia che a quei valori che, come tutti gli Italiani, tanto decantano.














Sono queste solo le due maschere più espressive di quel popolo italiano del titolo, in nome del quale è amministrata la legge; il quale non solo non ha coscienza di legge e morale, ma se ne infischia anche della differenza basilare tra bene e male.
Un popolo che vive in una nazione che viene sfregiata e devastata dall'azione degli imprenditori, i quali non hanno coscienza del loro male, né vogliono averla. Vediamo già nelle prime scene gli sversamenti illeciti delle industrie di Santenocito in mare, i quali avvelenano il pescato; assitiamo, più avanti, allo sfacelo causato dai lavori alle strade, le quali crollano con un nonnulla. Il tutto mentre i cittadini si voltano dall'altra parte, al pari dei rappresentanti delle istituzioni.
Uno scontro particolare avviene  tra Bonifazi e un pubblico ministero; nell'Italia pre-riforma del codice di procedura penale, la figura del giudice istruttore era delegata alle indagini, mentre il PM a sostenere l'accusa. Ma quello descritto nel film è un semplice burocrate che si compiace delle condanne richieste, anch'egli un residuato del Fascismo il quale usa e abusa il potere solo al fine di trarne un vantaggio personale, praticamente un Santenocito istituzionalizzato; tanto che è lo scontro tra i due che, idealmente, fa crollare il palazzo di giustizia, simbolo di come la corruzione delle istituzioni e la relativa conflittualità tra poteri porti alla distruzione effettiva del concetto di giustizia; anch'essa una posizione che ancora oggi risuona sanguinante.



















Risi e colleghi già nel 1971 fanno così sorgere quel quesito che dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino è diventato quanto mai urgente, ossia: perché un membro del potere giudiziario dovrebbe essere ligio al proprio dovere?
Il quesito, ancora più scottante, ad esso connesso è: che senso ha amministrare la giustizia in una società che vive e prospera basandosi quasi esclusivamente sullo sfruttamento coatto del prossimo e sull'impunità generalizzata? Che senso abbia, in sostanza, battersi per l'onestà e la giustizia in un luogo dove sono due concetti alieni, quasi sempre usati solo per darsi un tono di superiorità e mai davvero osservati. Risi e gli sceneggiatori non rispondo direttamente, ma lasciano intuire una risposta in quel finale apocalittico ed estremo.


















Si scopre come Santenocito sia in realtà innocente nonostante non possedesse un alibi, e che la ragazza si sia suicidata, come confessato in uno dei suoi quaderni (caso ha voluto che avesse una copertina rossa...); ma Santenocito non è di certo un innocente, reo di corruzione, oltre che di avvelenare l'ambiente e mettere a repentaglio la vita dei comuni cittadini con costruzioni abusive e pericolanti, situazione anch'essa sopportata in nome di un finto progresso e del benessere dei soli imprenditori spacciato per benessere di tutta la nazione. Bonifazi decide così di bruciare quel quaderno al fine di ottenere una condanna per il suo nemico.
Una decisione che farebbe drizzare i capelli in testa a qualsiasi giurista e di per se stessa altamente immorale. A renderla morale è però il contesto nel quale essa viene presa, dato sia dall'intero film che dall'ultimo atto.


















Nella sequenza finale, Tognazzi attraversa un città dapprima deserta a causa della partita Italia-Inghilterra che monopolizza l'attenzione di tutto il popolo. Un popolo che ritiene che il mondo debba fermarsi per il calcio, situazione già cinquant'anni fa a dir poco paradossale. La città è così un deserto in uno stato di sfacelo, popolato da senzatetto lasciati a sé stessi e insozzato da una coltre di immondizia.
Quando la partita finisce, il volgo si riversa in strada per festeggiare la vittoria della nazionale a suon di violenza gratuita e parolacce assortite. E' qui che Bonifazi vede nella gente comune Santenocito, fenomeno che può avere due interpretazioni. 
La prima è come la sua ossessione per un farabutto impunito lo abbia portato oltre ogni limite, finendo per plagiarlo, per comprometterne lo stato psicologico oltre i limiti della paranoia. La seconda è come dentro quel popolo si celi, in potenza, quella germa di menefreghismo mista a cattiveria propria del Santenocito: se un personaggio del genere fosse lasciato libero, la sua impunità rappresenterebbe il trionfo del malaffare e il suo esempio finirebbe per riplasmare l'intera società a sua immagine e somiglianza. Fermare una tale deriva è un dovere non solo per per la tutela delle istituzioni, ma anche per la tutela di quei valori che, almeno sulla carta, sono alla base della Repubblica.
Un finale provocatorio e scandaloso, quasi una chiamata alle armi per quel Popolo Italiano del titolo, il quale non deve lasciarsi sedurre da figure del genere, non deve lasciare che l'immoralità lo fagociti, non deve permettere che i suoi stessi interessi cedano di fronte al profitto di una singola categoria di criminali.

















Un monito, inutile dirlo, rimasto inascoltato. 
Se cinquantatré anni fa In nome del popolo italiano era una fotografia tagliente, oggi è un avvertimento sempre valido sul quale si è posata una coltre di amarezza simile a quella che ammanta Bonifazi. Rivederlo con la coscienza di quanto avvenuto in Italia negli ultimi trent'anni è quasi sconsolante. Rivederlo in un periodo nel quale la deriva anti-giudiziaria e pro-criminale ha ripreso forza e sembra si stia definitivamente concretizzando è a dir poco disturbante. Questo perché ha finito per ottenere un valore che nessuno dei suoi autori avrebbe mai sospettato, tantomeno voluto.

martedì 5 novembre 2024

The Substance

di Coralie Fargeat.

con: Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid, Edward Hamilton Clarke, Gore Abrams, Oscar Lesage, Hugo David Garcia.

Regno Unito, Francia 2024

















Revenge rappresenta in un certo senso il manifesto del cinema di Coralie Fargeat. Un cinema dove nulla è davvero originale e dove temi, messaggi e morale sono già stati decantati decine di altre volte in decine di altri film. Ma questo è per forza un difetto capitale?
The Substance è la risposta a questo quesito, che si traduce in un trionfante no.


















Cosa rende The Substance più riuscito di Revenge? In realtà quasi nulla, dove quel quasi sta nel fatto che riesce ad avere un'identità sua la quale non è la semplice somma delle singole fonti di ispirazione.
Fonti di ispirazione palesi che sono molteplici e che non occorre neanche citare tutte; basti sapere che siamo in una zona tra Cronenberg (sia David che forse soprattutto Brandon) e Nicolas Winding Refn e nella quale l'immortale Shining di Kubrick sembra essere un testo sacro. La Fargeat non si limita però a riproporre ciò che le piace, ma lo ricrea fino a dargli nuova forma. Una forma sua e per certi versi unica, tanto che possiamo tranquillamente dire di non essere dalle parti di Don't Worry Darling, per fortuna. E questo a partire da come affronta la tematica del corpo femminile.


















Perché The Substance, prima ancora che una critica all'ossessione per la bellezza, è un horror sugli orrori della vecchiaia, sul terrore di diventare obsoleti, sul ribrezzo causato da un corpo non più giovane. In tal senso, il casting di Demi Moore per la protagonista Elisabeth, punto di vista e motore di tutta la trama, è semplicemente divino: ex bellissima distrutta dalla chirurgia estetica già da giovane (fece scandalo il suo seno rifatto a poco più di trent'anni, che ne deturpava il corpo in modo ignobile), è ora una donna anche affascinante ma che porta sul suo viso i segni di un'ossessione ai limiti del diabolico.
Il tempo tiranno porta al decadimento, il decadimento porta all'oblio, almeno nel mondo dello show business: se non sei giovane non sei attraente, se non sei attraente non fai audience, se non fai audience non sei un prodotto che valga la pena vendere al pubblico, da cui la necessità di ringiovanire, creare letteralmente un nuovo sé da dare in pasto agli spettatori. Fino a qui, la Fargeat non fa davvero nulla di inedito o particolarmente radicale. La novità è però insita nel modo in cui guarda a questa sua protagonista.















Elisabeth, così come il suo doppio Sue, è una narcisista, una donna ossessionata dal proprio apparire e letteralmente drogata delle attenzioni che il pubblico le rivolge. La Fargeat qui prende una posizione che oggi può apparire scandalosa: si, il sistema che impone alle donne di essere sempre e solo giovani e belle è orrendo e si, i patriarchi allupati che vogliono divorare quei corpi giovani e tonici sono certamente grotteschi e disgustosi. Ma il biasimo va posto anche su quelle persone che provano piacere ad essere guardate, che godono nel sapere che la loro immagine mette l'aquilina in bocca ad un pubblico affamato di sesso, che provano orgoglio nel sapere che il loro corpo è un puro oggetto da consumare con gli occhi.
Da cui l'ossessione della cinepresa per il corpo della Qualley (ma anche per quello della Moore, che al di là di tutto è ancora oggi attraente), il cui sedere diventa il protagonista assoluto del film, quasi uno sberleffo alle polemiche, vecchie e nuove, sul "male gaze" al cinema che sembra uscito da un trip in acido di Tinto Brass.

















L'ossessione per la giovinezza è esternazione di narcisismo, l'incapacità di accettare i limiti della natura porta solo all'orrore. Nel finale, la Fargeat si dimostra coerente con quanto fatto nel suo esordio e ci delizia con un tripudio di body horror estremo e grottesco, un trionfo di carne spappolata e corpi deformati, praticamente un Tetsuo con polpa umana al posto del ferro.
Si può poi obiettare che la sua scrittura sia didascalica e tutto sommato trita e ritrita e come, di conseguenza, il premio ottenuto a Cannes sia stato frutto di una sopravvalutazione. Ma in fondo il grande pregio di The Substance sta proprio lì e risiede nel modo in cui l'autrice si pone nei confronti del pubblico: mai paternalistica o supponente, mai accusatoria verso chi osserva e chi vuole osservare, con una onestà intellettuale che di questi tempi vale davvero più dell'oro.

lunedì 4 novembre 2024

Venom: The Last Dance

di Kelly Marcel.

con: Tom Hardy, Chiwetel Ejiofor, Juno Temple, Rhys Ifans, Stephen Graham, Clark Bako, Andy Serkis.

Commedia/Fantastico/Azione

Usa, Regno Unito, Messico 2024













Ora che il Venom della Sony ha compiuto il fatidico passo ed è divenuto una trilogia, che non sarà forse neanche la sola dedicata al personaggio, è chiaro come la mentalità dietro ad una tale operazione rappresenti una sorta di paradigma produttivo dello studio verso le proprietà intellettuali legate al mondo dell'Uomo Ragno: prendere un personaggio a caso, dargli un film senza pretese, sperare che il pubblico abbocchi e da esso far partire un tot di spin-off e crossover. 
Fortuna (e buon senso comune) ha voluto che solo il simbionte nero sia riuscito a fare breccia al box-office globale. Sfortuna ha voluto che il successo ottenuto già con il primo, orrido, film non abbia convinto lo studio ad aggiustare il tiro per dare un minimo di dignità a questi film.
The Last Dance, che ovviamente sarà ultimo solo nel titolo, rappresenta di fatto una perfetta evoluzione di ciò che il Venom cinematografico è stato finora: è un film ancora più cretino dei precedenti, ma soprattutto è il film dove Tom Hardy ha pieno e totale controllo creativo su tutto.
Hardy, in questo senso, ha fatto quello che Ryan Reynolds aveva fatto con Deadpool, ossia prendere un personaggio Marvel famoso e amato e farlo proprio. Reynolds aveva però capito quello che del personaggio funzionava e come renderlo su grande schermo, Hardy ha invece solo colto la palla al balzo per avere una megaproduzione tutta propria che gli consenta di fare quello che vuole, scrivere un copione che gli garantisca tutti i momenti di overacting possibili e immaginabili, far dirigere il tutto alla propria compagnia in modo da avere un regista che segua i suoi tempi e la sua visione (non che Andy Serkis e Ruben Fleischer avessero chissà quale ispirazione) e sostanzialmente cazzeggiare per tutto il tempo con la garanzia di un ottimo riscontro di pubblico.
The Last Dance è questo e questo soltanto, ossia un film idiota il quale scopre subito le sue carte e si presenta immediatamente come un one-man-show dove è solo il suo autore a divertirsi davvero.


















Idiozia che inizia già dalla trama, che come sempre è una sarabanda di buchi, forzature e cliché: entra in scena dal nulla Knull, il celestiale che ha creato i simbionti (e la necrospada di Thor: Love & Thunder, alla quale però si accenna nemmeno) e nella prima scena dà il via alla miserevole storiella con un vero e proprio infodump da fare paura. In pratica, Knull è stato esiliato in un posto dal quale non può uscire (pianeta? Dimensione? Caverna?), però a quanto pare adesso esiste un mcguffin che può liberarlo e guarda caso ce l'ha proprio Venom sulla Terra. Perché esista questo mcguffin, perché lo abbia proprio Venom, perché il mostro non lo attacchi già in Messico, perché i simbionti si siano ribellati al loro creatore e lo abbiano esiliato e soprattutto perché Knull non possa attraversare uno dei portali che adopera per spedire i suoi mostri a spasso per il cosmo per fuggire sono dettagli tutto sommato non necessari, quello che conta è dare a Hardy una scusa per stronzeggiare.















Perché la sceneggiatura di questo pastrocchio privo di senso sembra davvero scritta su di una serie di post-it dove sono state appuntate delle idee su come tirare cretinate su schermo, poi cucite insieme con un pretesto qualsiasi. Pretesto che è quello di far rientrare Eddie Brock negli Stati Uniti e farlo arrivare a New York, ma ovviamente si fermerà a Las Vegas per il confronto finale. Tutto il film è così un road-movie nel quale Eddie incontra personaggi stupidi e si scontra ogni tanto con i soldati o con i mostri di Knull.
L'imbarazzo è servito: in ogni singola scena il focus è su come Hardy si muove in modo impacciato o sulle battutine ad effetto. Alcune sono palesemente create ad hoc al solo fine di dargli una scusa senza neanche voler far finta di celare la loro natura, come quella dove libera i cani in Messico. Quando poi si arriva a Las Vegas, la sensazione di un film scritto a braccio è fortissima, con scene che durano fin troppo e nelle quali l'unica cosa che succede è una gag cretina. Il che culmina nella scena, già divenuta scult, nella quale Venom balla, inserita giusto per far capire definitivamente al pubblico come l'unica visione dietro a tutto sia quella dell'ironia votata al ridicolo.

















Non che quando il film decida di mettere su qualcosa di serio le cose vadano meglio, anzi forse finiscono persino per peggiorare. Assistiamo al solito scontro tra scienziati e soldati su come gestire la questione degli alieni (che a tratti sembra si voglia caratterizzarli come immigrati, ma mai sia dare una lettura seria ai personaggi dei fumetti Marvel), con i primi che voglio accoglierli e studiarli, i secondi solo sterminarli in nome della sicurezza nazionale. Al di là della poca originalità, fa ridere (involontariamente, ovvio) come per una volta si riesca a parteggiare davvero per l'ufficiale fascitoide di turno (interpretato da un Chiwetel Ejiofor che ci porta a chiederci perché la sua carriera stia deragliando definitivamente) visto che Venom è sostanzialmente un povero idiota ed eliminarlo rappresenta davvero l'unica soluzione al problema di un dio intergalattico incazzato che vuole distruggere tutto perché non ha niente di meglio da fare.
















A voler essere davvero buoni, si può riconoscere come The Last Dance e gli altri film su Venom siano comunque più dignitosi di Morbius e Madame Web, visto che non sono stati scritti, riscritti, triscritti, girati, rigirati, ri-rigirati e poi montati a caso; hanno una visione alla base, ma è proprio questa visione ad essere fallata. 
In senso lato, rappresentano l'evoluzione di quella stessa visione che era alla base del primo Iron Man, ossia fare un film tutto basato sull'istrionismo di un attore e sulle scemenze che può portare in scena in due ore. Ma se nel film fondativo del MCU una tale forma di noncuranza verso l'intelligenza del pubblico poteva in parte essere giustificata dal fatto che nessuno sapesse davvero cosa stesse facendo, vista anche la mancanza di uno script definitivo, nei film su Venom tale mancanza di rispetto non ha la minima giustificazione e discende anche da una innegabile mancanza di idee. E forse anche della mancanza di vero talento.