di Ridley Scott
con: Keith Carradine, Harvey Keitel, Edward Fox, Tom Conti, Albert Finney, Cristina Raines, Diana Quick, Gay Hamilton, Meg Wynn Owen.
Drammatico/Storico
Inghilterra (1977)
Guardando pellicole come "The Counselor", "Le Crociate" o "Hannibal" sembrerebbe impossibile, ma vi fu un tempo un cui Ridley Scott era un autore vero, dotato di uno stile personale e in grado di creare due delle pellicole più influenti di sempre: "Alien" (1979) e "Blade Runner" (1982); visionario, esteta fin nel midollo, in grado di creare immagini potenti e raffinatissime, sperimentatore nell'uso del montaggio e anticipatore di tendenze future, Scott fu uno degli artisti di punta del cinema americano degli anni '80; nel corso del tempo la sua carica visionaria e l'eleganza eststica si sono stemperate e adagiate sui canoni hollywoodiani più popolari, in particolare sulle istanze del cinema-videoclip di Michael Bay, che pure ha pesantemente influenzato la (ben più mediocre) produzione di suo fratello Tony; ha smesso di sperimentare, di rischiare nuove possibilità tecniche, narrative e visive e si è ridotto ad un mediocre mestierante, ricordato esclusivamente per i cult del passato; ma nel 1977, a seguito del successo del suo esordio "I Duellanti", vincitore del Gran Premio della Giuria di Cannes, Scott era una delle migliori promesse del cinema europeo.
Il punto di riferimento dell'estetica scottiana è qui altissimo: il "Barry Lyndon" (1975) di Stanley Kubrick, con il quale in quegli anni stringeva una lunga e proficua amicizia; dal capolavoro del grande regista Scott riprende l'idea di un film in costume come perfetto spaccato di un'epoca, ma anche e sopratutto lo stile, sia nella messa in scena che nella fotografia, curata da un allora esordiente Frank Tidy, già suo collaboratore in televisione. Scott immerge ogni figura in chiaro-scuri nettissimi, colori caldi per gli interni e freddi per gli esterni; gioca con la luce come un vero e proprio pittore, inaugurando un'estetica dell'illuminazione che sarà il suo marchio di fabbrica per buona parte della sua filmografia a venire; nella messa in scena, d'altro canto, eccede con le carrellate all'indietro kubrickiane, a disvelare la natura puramente derivativa del suo stile, che si fa vero e proprio richiamo nella scena in cui introduce il personaggio della moglie di Feraud: interpretata dalla bellissima Gay Hamilton, già interprete di "Barry Lyndon", che Scott mostra con un primissimo piano come a volerla sventolare in faccia al pubblico in modo trionfale; il risultato è a tratti indigesto: troppo compiaciuto e barocco, ai limiti del tronfio.
Eppure le immagini sono sempre ipnotiche, perfette nella composizione anche nelle dinamiche scene di duello, girate tutte con camera a mano come nel capolavoro di Kubrick; ogni singolo incontro tra i due antagonisti ha un suo stile e trasuda tensione da ogni fotogramma: la prima scaramuccia, volutamente piatta e lenta, il furioso scontro nel granaio, dove le due figure si inseguono fino allo sfinimento, il magnifico confronto a cavallo, in cui Scott introduce flashback e flashforwrd spezzando la linearità del racconto, introducendo una forma di montaggio strettamente narrativa che da qui in poi avrebbe fatto scuola; fino all'ultimo magnifico incontro, un anticlimax intenso e onirico che anticipa di cinque anni lo splendido inseguimento finale di "Blade Runner" (1982). Ed è proprio nel montaggio che Scott si fa notare: spezzato, ai limiti del frammentario, usato per centellinare la tensione ed isolare ogni singola scena in uno spazio-tempo unico e rarefatto; l'uso improvviso degli stacchi e degli attacchi nel mezzo della scena, volti ad infrangerla per creare tensione drammatica, fa qui il suo esordio e toccherà l'apice massimo già nel successivo "Alien".
Ma l'opera prima di Scott non è semplice estetica, quanto un trattato ironico e preciso dello scontro tra due figure speculari; Gabryel Feraud è un soldato vecchia maniera, il cui onore è ragione di vita; come introduce la voce narrante "per un soldato l'onore è un ossessione" e Feraud è la personificazione di questa istanza; vive per servire il proprio orgoglio e gioisce nell'umiliare i suoi avversari; privo di scrupoli e ripensamenti, Feraud è la tradizione militaresca napoleonica fatta carne, una figura ormai prossima all'estinzione che trova nel confronto con il suo rivale un ulteriore motivo di affermazione; ed Harvey Keitel dona al personaggio una carica austera a tratti insostenibile, incarnando perfettamente il rigore folle del suo personaggio. D'altro canto D'Hubert incarna la nuova generazione si soldati, più duttile e meno legata ai dogmi del codice cavalleresco e di conseguenza più razionale; Keith Carradine si dimostra perfetto nelle vesti del soldato suo malgrado costretto a combattere e ad ottenere fama e gloria dagli inutili scontri con il rivale; il lungo duello così diviene scontro ideale tra bieca tradizione e modernità conscia dell'inutilità dei vecchi dogmi.
Ed è la tradizione a venire battuta al suo stesso gioco: distrutta ed umiliata secondo le regole cavalleresche e forzata ad accettare la sconfitta, ossia privata persino di una morte onorevole; Feraud diviene nel finale l'incarnazione dell'età napoleonica: lo scontro si conclude nel 1816, ossia due anni dopo il Consiglio di Vienna, e il personaggio viene trasfigurato in un doppio dell'imperatore; umiliato e sconfitto, non gli resta che mettersi in disparte, ritirarsi ed ammirare un mondo al tramonto, in un immagine splendida, che da sola vale la visione dell'intera pellicola.
Magnifica è anche la ricostruzione d'epoca, con costumi e location perfettamente ricercati e valorizzati dalla regia pittorica e attenta ad ogni dettaglio; "I Duellanti" è, in sostanza, un quadro semovente, un dipinto d'epoca rarefatto ed affascinante, un esordio che sorprende ancora maggiormente se si tiene conto del budget ridicolo con cui è stato girato: appena 900.000 dollari dell'epoca.
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