lunedì 1 ottobre 2018

Una Lucertola con la Pelle di Donna

di Lucio Fulci.

con: Florinda Bolkan, Stanley Baker, Jean Sorel, Silvia Monti, Mike Kennedy, Alberto De Mendoza, Ely Galleani, Anita Strindberg.

Thriller

Italia 1971

















Di artisti come Lucio Fulci si è perso lo stampo. Non ci sono più, nè sulla scena internazionale, tantomento in quella italiana, registi in grado di passare con nonchalance da un genere all'altro con film bene o male sempre riusciti; men che meno autori in grado di sovvertire le regole del cinema di genere in toto per creare un proprio stile personale che sia lontano anni luce da qualsiasi modello di riferimento, in grado, anzi, di imporsi esso stesso come modello di riferimento per i futuri filmmaker. Un artista dotato di una preparazione tecnica perfetta, che padroneggiava il linguaggio filmico a livelli incredibili, prediligendo scelte di regia ardite e spiazzanti, riuscendo sempre a sorprende e ad ammaliare con immagini ipnotiche.
Fulci era tutto questo: un artigiano in grado di portare su schermo con gusto le imprese di Adriano Celentano e Franco e Ciccio per poi concedersi incursioni nel cinema di genere sino a divenirne uno dei massimi autori sulla scena internazionale, nonostante il credito per il duro lavoro svolto sia arrivato solo postumo in Italia, come accaduto con un altro grande artista nostrano, quel Mario Bava a cui deve comunque qualcosa. Ed è proprio nel cinema di genere di stampo baviano che Fulci ha trovato lo spazio necessario per sviluppare il proprio stile.




Narra la leggenda che, prima di iscriversi al centro sperimentale di Roma, Fulci fosse un chirurgo e che, durante un intervento, abbia litigato furiosamente con il primario; da qui la decisione di abbandonare la professione medica per dedicarsi ad altro, ossia al cinema.
Nel 1969, dopo aver diretto varie commedie di successo, arriva finalmente al thriller con venature erotiche con "Una sull'Altra", ma è con il successivo "Una Lucertola con la Pelle di Donna", nel 1971, che si affranca definitivamente dal modello baviano per creare un proprio stile, subito riconoscibile, che poi trapianterà con altrettanto successo nel horror.
L'anno di produzione è essenziale: nel 1970 Argento rinvigorisce il giallo con "L'Uccello dalle Piume di Cristallo", aprendo la strada alla solita pletora di imitatori. Tra questi spunta anche "La Gabbia", titolo di produzione del film (decisamente più calzante), poi ribattezzato in modo faunistico proprio per avvicinarsi al cinema argentiano, che Fulci dirige sovvertendo i canoni baviani e quelli dello stesso Argento, imponendosi già da ora come "il terrorista dei generi".



Fulci contrappone due registri antitetici, senza mai mischiarli; da un lato il piano onirico, con le visioni notturne della protagonista Carol perse in non-luoghi dalle coordinate spazio-temporali rarefatte e confuse; dall'altro quello oggettivo, con l'indagine poliziesca affidata all'ispettore Corvin, che ricostruisce la trama in modo chiaro e concreto.
Trama che con il "whudunnit" classico ha poco o nulla a che spartire; mancano due degli elementi essenziali del giallo-movie, ossia l'assassino e le morti seriali; l'intera vicenda ruota attorno ad un unico omicidio, quello di Julia Durer; niente guanti neri, nè uccisioni violente, quindi. Fulci spinge il pedale sull'atmosfera e sulla tensione, creando un mystery in piena regola, dove però è appunto l'atmosfera a contare più della risoluzione.



La location in tal senso è esemplificativa: la Londra dei primi anni '70, post "swingin'", dove alla libera affermazione della sessualità da parte della controcultura e dei suoi esponenti si contrappone il bigottismo della classe dirigente.
Carol è di fatto una donna chiusa in una gabbia, quella della ricca famiglia persa nelle fredde cene e nelle chiacchere vacue. Dall'altro lato del muro, nell'appartamento attiguo, c'è la lascivia del sesso psicheledico e libero, le orge controculturali che sono esaltazione di quelle pulsioni frustrate che attanagliano la bella borghese. Ne consegue una fascinazione per il proibito, incarnato dalla sensuale Durer, nonchè la voglia di distruggere quella gabbia, con i cadaveri della famiglia che Fulci dispone come nei dipinti di Bacon.
L'omicidio diviene così sublimazione di un'attrazione/repulsione che sfoga la frustrazione sessuale sopita, quella dell'omoerotismo così come quello dell'erotismo in toto, frustrato nella "gabbia" familiare eppure così vicino ad esplodere. La paura così si fa paranoia, che prende le forme dei corpi martoriati dei cani, scena per la quale fu chiesta la censura e la distruzione dell'intero film (!), evitata solo quando un giovane Carlo Rambaldi dimostrò in tribunale (!!) come di fatto si trattasse di effetti speciali e non di veri cani seviziati.



La lettura psicoanalitica purtroppo si infrange dinanzi alla rivelazione del colpevole, che appiattisce la caratterizzazione della protagonista così come la storia in sè, che si fa semplice giallo con un colpevole.
Ciò che conta, di conseguenza, è la costruzione della tensione e l'atmosfera onirica; da antologia  la scena dell'inseguimento nell'Alexandra Palace, così come le sequenze oniriche, con il simbolismo fallico del coltello giustapposto a quello saffico dei sensuali corpi delle attrici.



Fulci crea così un thriller dalle forti tinte erotiche affascinante, benchè non riuscitissimo, un viaggio nella paranoia che è attacco sfrontato al bigottismo ed affermazione della pulsione sessuale come forza distruttiva. Un cult il cui status è meritato.

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