lunedì 30 settembre 2024

R.I.P. Kris Kristofferson



 1936 - 2024

Volto granitico della new wave americana, attore prediletto di artisti del calibro di Sam Peckinpah e Michael Cimino, Kris Kristofferson è stato un artista il cui contributo alla settima arte talvolta non viene ricordato a dovere.
Ma basta dare un'occhiata anche solo superficiale alla sua filmografia per accorgersi di come sia apparso in alcune delle pellicole più rappresentative della vera epoca d'oro del cinema americano, come Pat Garrett & Billy the Kid, Alice non abita più qui o il capolavoro maledetto I Cancelli del Cielo, il quale ha portato la sua stella in parte ad eclissarsi.
Già noto come cantante country, Kristofferson lascia dietro di sé una filmografia densa e diversificata, il cui valore è talvolta davvero immenso.

martedì 24 settembre 2024

Uomini Contro

di Francesco Rosi.

con: Mark Frechette, Gian Maria Volontè, Alain Cuny, Giampiero Albertini, Pier Paolo Capponi, Franco Graziosi, Mario Feliciani, Alberto Mastino, Brunetto Del Vita, Nino Vingelli, Daria Nicolodi.

Guerra

Italia, Jugoslavia 1970













L'esperienza non proprio idilliaca avuta con C'Era una Volta fece nascere in Rosi la necessità di riconnettersi con la realtà, andando al di là delle pretese fantastiche per ritrovare un territorio narrativo che gli fosse più consono. Il suo progetto successivo, tuttavia, non narrava una realtà contemporanea, cosa inedita nel suo cinema persino contando il passato recente di Salvatore Giuliano; Rosi si confrontava infatti con un passato che già nel 1970 appariva remoto, ossia la Prima Guerra Mondiale.
Un passato che nell'Italia della fine degli anni '60 era però pressoché inedito su Grande Schermo; certo, c'era stato il successo del kubrickiano Orizzonti di Gloria e persino il celebre esperimento di La Grande Guerra, ma uno sguardo onesto e veritiero verso il primo conflitto globale non era mai stato davvero gettato; cosa che risultava ancora più urgente laddove si tenesse conto di come persino i libri di scuola dell'epoca non arrivavano a coprire quel dato periodo storico, per questo considerato ancora come troppo delicato.
Rosi, dal canto suo, parte dal capolavoro Un Anno sull'Altopiano di Emilio Lussu (che riadatta in maniera molto libera assieme ai collaboratori abituali Tonino Guerra e Raffaele La Capria), per creare un affresco sporco nel quale fa confluire assieme ad un'onesta ricostruzione storica anche uno sguardo politicamente impegnato. Il risultato è tutt'oggi notevole, benché fatalmente imperfetto.



















Un affresco che poggia sulla dinamica tra tre personaggi, ciascuno rappresentativo di un ideale diverso: il generale Leone (Alain Cuny) è il conservatore, un vecchio nobile che incarna i valori guerrafondai della destra italiana; Ottolenghi (Volonté) è l'anarchico, un ribelle che aspetta di tornare in patria per dar vita ad una rivoluzione volta a cancellare il regime costituito; tra di loro, il pacifista Sassu (Mark Frechette, all'epoca reduce dal Zabriskie Point di Antonioni), che disprezza il conflitto e la classe dirigente, ma è cosciente di come una rivolta non porti davvero a nessun cambiamento.
Una dinamica a tre che diventa paradigma del potere. Un potere in mano a pochi, ad una classe dirigente tanto bieca quanto incapace, non per nulla si tratta di quella che è riuscita a perdere la Grande Guerra pur avendola vinta, un nugolo di ufficiali di alto grado che rappresenta il vero nemico dei soldati; sono questi ultimi gli "uomini contro", uomini che cercano invano di ribellarsi alla gerarchia, ad un nemico interno ben più feroce dell'evanescente nemico esterno (i Tedeschi appaiono giusto di sguincio) ; una "massa", un popolo che viene sfruttato e distrutto a piacimento e senza remore alcuna.


















I risvolti marxisti più estremi vengono perorati da Ottolenghi, a cui Volonté dona un naturale carisma dato anche da una performance magnificamente tra le righe. Quelli meno feroci da Sassu, vera e propria figura mediana: non un rivoluzionario, non un guerrafondaio, quanto un uomo che comprende appieno i meccanismi del potere e quelli della guerra e ed è cosciente di come non possano essere elusi o eradicati in alcun modo; comprensivo quando può, ferreo quando serve, sa quando esporsi per il prossimo (il climax) e quando rimettere in riga i sottoposti; tra questi spicca Marrasi, l'eterno disertore, ed è purtroppo qui che la visione di Rosi trova un primo difetto; a Marrasi viene demandato il ruolo del pacifista, del ragazzo semplice, il campagnolo del sud che cerca di salvarsi dall'ingiusto massacro delle trincee; ma la sua caratterizzazione è troppo basilare e insistita, divenendo antipatico sin dal prologo, quando lo sguardo che dovrebbe suscitare dovrebbe essere invece quello di piena comprensione e compassione.
Monodimensionalità che purtroppo affligge anche il personaggio del generale Leone, vero e proprio cattivo del film; e che purtroppo porta la costruzione drammaturgica a cedere.


















Non si riesce davvero a prendere sul serio questo generale da macchietta immerso in un contesto serissimo. Leone è lo stereotipo del nobiluomo avulso da ogni realtà che manda al massacro i sottoposti e ne ordina l'esecuzione sommaria solo per compiacere il proprio fanatismo ed il proprio immane narcisismo. Cuny lo rende a suo modo memorabile caricandolo con tutta la teatralità possibile e se non risulta mai credibile non è certo per colpa sua, quanto per una scrittura che da drammatica decide di farsi satirica praticamente solo su questo piano; colpa, probabilmente, delle simpatie politiche degli autori, le quali qui finiscono solo per creare un difetto davvero becero.














Rosi riesce tuttavia a portare in scena una Grande Guerra da incubo: soldati immersi nel fango, ammantati in capi logori e fiaccati dalle angherie dei superiori, persi in un'atmosfera lugubre dove dietro ogni ordine si nasconde una forma di prevaricazione. La guerra di Rosi altro non è se non un massacro ideologico prima ancora che fisico, dove i molti vengono chiamati a morire per il lusso di pochi, dove la vita non vale nulla in primis per i propri superiori. Non esiste speranza, non c'è lo scampolo della vittoria e la morte è la sola certezza; una morte brutale e veloce, talvolta ironica, ma sempre aberrante.
I limiti del budget si vedono tutti nelle prime sequenze, dove l'unico vero scontro frontale tra i due eserciti viene risolto con una serie di tagli veloci e inquadrature strettissime; una trovata che oggi potrebbe essere percepita come moderna, visto che tempo qualche decennio e sarebbe diventata lo standard per la costruzione delle scene di battaglia anche nelle grandi produzioni americane, ma che qui non riesce a trasmettere il senso di scala e drammaticità che tenta di ricercare.


















Uomini Contro resta così un'opera sospesa tra grandissime ambizioni e risultati solo in parte raggiunti. La disanima della disumanità del sistema di potere palesato dal contesto bellico è ben definita, così come la ricostruzione storica e la tensione data dal conflitto. E' semmai il sistema narrativo ad essere fin troppo basato sulla convenienza dell'uso di archetipi che cozzano con un racconto drammatico tout court, gene3rando un corto circuito che affossa parte della credibilità.

venerdì 20 settembre 2024

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

di Elio Petri.

con: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Gianni Santuccio, Orazio Orlando, Sergio tramonti, Arturo Dominici, Massimo Foschi, Aldo Rendine, Pino Patti, Vittorio Duse, Salvo Randone.

Italia 1970

















Un rappresentante delle istituzioni commette un delitto e resta impunito, i suoi colleghi ritengono impossibile che un loro simile possa avere colpe, quindi ne rigettano le responsabilità e finiscono per assolverlo sul piano anche solo strettamente umano.
Il potere non può e non deve essere giudicato. Un teorema originato da Kafka. Un teorema semplice. Un teorema provocatorio. Un teorema ineluttabilmente attuale, dunque non un teorema quanto una dinamica reale, che già nel 1970 costituiva una rappresentazione veritiera e che oggi è divenuta una prassi che si ripete a scadenze regolari in Italia.
Elio Petri, ovviamente, era perfettamente cosciente delle dinamiche del potere nella classe dirigente italiana dell'epoca; proprio per questo, con "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" ne porta in scena la descrizione, disanima e rappresentazione.
Un atto d'accusa verso lo Stato e i suoi rappresentanti che arriva a due anni dalla fuga di Un Tranquillo Posto di Campagna e che segna così un ritorno al cinema d'impegno civile, oltre che al registro grottesco espressivo che ne ha caratterizzato i lavori più celebri. E che diventa il suo primo vero capolavoro.



















Una trama, quella di "Indagine su un cittadino", che si apre come quella di un giallo, ennesima revisione del genere da parte dell'autore: un commissario della Polizia di Roma, il cui nome non viene mai pronunciato e al quale ci si riferisce solo come "dottore" (Gian Maria Volonté) assassina la propria amante, la libertina Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Lasciate tracce visibili sulla scena del delitto, inizia un vero e proprio gioco al fine di farsi catturare dai propri colleghi. Ed è da qui che la struttura del film si discosta da tutto per trovare una sua dimensione, squisitamente descrittiva, volta a scandagliare le contraddizioni del potere e dei potenti.
Il potere non può subire limiti, né essere condannato in alcun modo. Da qui parte Petri, riprendendo il mantra kafkiano classico. Il Dottore altri non è se non lo strumento del potere costituito, che a sua volta viene descritto come una malattia la quale finisce per ammorbare l'essere umano e riplasmarlo come un qualcosa di diverso, di alieno rispetto ai suoi simili, uno strumento appunto, un essere che vive solo per affermare e tutelare il potere stesso.
Il potere corrompe? Non proprio: il potere muta, possiede il corpo di chi lo perora come farebbe un demone; il posseduto ne diviene agente, usandolo anche e talvolta soprattutto per i propri fini, i quali non confliggono mai davvero con lo stesso proprio perché l'idea del potere e l'essere che se ne fa portare divengono un tutt'uno.
























La prima limitazione che il potere teme, la più ovvia, è quella della propria antitesi, della sovversione, che prende la forma della rivoluzione sessantottina, il Maggio 1968 che neanche due anni dopo ancora infiamma l'Italia. Petri descrive i sessantottini in modo diretto, con tutte le loro contraddizioni certo, ma anche con un occhio di riguardo; la perfetta nemesi del Dottore è così il giovane Pace, ragazzo neanche trentenne, studente e anarchico convinto e dichiarato, il quale gli tiene testa nell'interrogatorio come se niente fosse.
L' altra ossessione del Dottore, al di là di quella che concerne il delitto che ha commesso, è l'eradicazione del dissenso, la distruzione di ogni opposizione per l'affermazione definitiva e incontrovertibile del potere stesso; difatti il film si apre con la sua promozione a capo dell'ufficio politico della questura e largo spazio viene concesso alla descrizione dei mezzi che la polizia usa per tenere sotto controllo i dissidenti o presunti tali, con l'allora avveniristico calcolatore in grado di condensare decenni di documenti in poche righe e un sistema di intercettazione telefonico da fare invidia a Echelon. Nonostante si definiscano come diversi dalla Gestapo, anche i tutori dell'ordine di quella che si definisce come una democrazia non esitano ad usare sistemi totalitari per salvaguardarsi. Petri, ovviamente, non vuole semplicemente illustrare le contraddizioni della società civile o del governo democratico, quanto affermare come ogni singola forma di potere sia, su di un dato livello, uguale, come esso non possa mai subire minacce, neanche le più innocenti, qualsiasi forma di governo assuma.



















La seconda limitazione, più subdola, è quella interna, quella data dall'indegnità dei propri agenti e dello scandalo che potrebbe conseguire qualora un uomo di potere fosse scoperto ad abusarne o a seguire dettami contrari alle regole civili. Siamo ancora in epoca DC, dopotutto, quando la classe dirigente e la classe politica in particolare tenevano ancora al modo in cui venivano percepiti dall'opinione pubblica.
Il potere non può contraddirsi, dunque un rappresentante delle istituzioni non può essere colpevole di un delitto. Il potere non permette di essere questionato e se un'azione è stata compiuta in violazione di un suo precetto, questa azione in realtà non è mai esistita. Il Dottore è un personaggio che vive nella coscienza di tale contraddizione, la quale lo ossessiona a causa della sua natura di essere ligio al dovere. La sua azione è dunque rivolta a smascherare questa ipocrisia, a dimostrare, nelle sue stesse parole, l'incoerenza imperante nel sistema. Circa sessant'anni fa un personaggio del genere poteva essere visto solo come un viscido esempio di anarchia del potere, oggi potrebbe essere quasi definito come un rivoluzionario a causa della mancanza di una indole morale nell'intera classe dirigente che sia anche solo di facciata.
L'azione, definibile davvero come "anarchica", del Dottore si sostanzia poi grazie al morboso rapporto che ha con la sua amante e vittima.




Augusta è, in buona sostanza, una tentatrice, una libertina che vive per il brivido della provocazione e che intreccia la relazione con il protagonista sostanzialmente al fine di spingerlo oltre i limiti. Limiti che, in realtà, lui stesso non conosce, perso com'è nelle sue ossessioni da perfetto archetipo del sessualmente incompetente petriano; il Dottore, da un punto sessuale, altro non è che un bambino che sublima l'eros attraverso la scopofilia e si eccita ricreando le scene dei delitti sui quali ha investigato.
Il sesso diventa anch'esso strumento di dominazione, estrinsecazione fisica del rapporto di subordinazione che il comune cittadino ha nei confronti del potere. L'azione anarchica si sostanzia nell'aver voluto intrecciare una relazione al puro fine di affermare sé stesso e i valori che rappresenta senza voler subire conseguenze alcuna, anzi forzando l'accettazione del prossimo tramite tale relazione e il delitto che ne è conseguito.























L'estrinsecazione del dominio del potere e della correlata anarchia non potevano che prendere uno forma filmica definibile come "kafkiana", data ovviamente non solo e non tanto dalla citazione finale.
Petri immerge la vicenda in una Roma letteralmente aliena, dove a farla da padrone sono essenzialmente location in stile bauhaus, vere e proprie tombe di cemento razionaliste che seppelliscono i personaggi in una zona fuori dal tempo e dallo spazio; persino quando le architetture classiche fanno la loro comparsa, finiscono anch'esse per avere una valenza claustrofobica.
Claustrofobia che viene centuplicata dal particolare stile di costruzione della scena che Petri adotta: le inquadrature sono quantomai strette, focalizzandosi principalmente in primi e primissimi piani, con la macchina da presa che resta praticamente sempre ad altezza uomo; e che inquadra il suo protagonista tramite le ottiche rotanti, come se lo sguardo di chi lo osserva fosse quello di uno scienziato o di un medico che guarda un microorganismo al microscopio.
Una visione che però non è mai davvero distaccata: il montaggio talvolta spezzato e la celebre colonna sonora di Morricone (tra le sue più orecchiabili e famose) finiscono per immergere il tutto in un'atmosfera grottesca e espressionista, confezionando un registro atipico, quasi stridente, sicuramente efficacissimo nel narrare un personaggio sui generis.


















Nella sua estrema lucidità, Petri traccia così uno spaccato grottesco del meccanismo del potere e dell'anarchia imperante tra i suoi rappresentati. Un'opera che all'epoca poteva essere definita come surreale e provocatoria, ma che oggi, visti i tempi che corrono, può essere solo definita come ovvia e realistica.

lunedì 16 settembre 2024

Love Lies Bleeding

di Rose Glass.

con: Kristen Stewart, Katy O'Brian, Ed Harris,  Dave Franco, Jena Malone, Anna Baryshnikov, Eldon Jones, Orion Carrington, Matthew Blood-Smyth, Keith Jardine.

Thriller/Noir

Usa, Regno Unito 2024

















Amore e morte nel profondo degli Usa. Un amore passionale, puro, incondizionato, eppure immerso in un mondo sporco e lordo di sangue. Love Lies Bleeding è essenzialmente questo, il che è paradossale se si pensa che si è cercato di venderlo come il classico film sulle problematiche della comunità LGBTQ+ quando l'omosessualità delle protagoniste resta praticamente sempre in secondo piano (se non in terzo) e non viene neanche descritta come problematica per chi sta loro intorno. Dopotutto, Rose Glass aveva già fatto intendere con il suo esordio Saint Maud di non essere una cineasta più di tanto interessata alle mode, quanto di essere un'autrice dotata di un proprio stile e di una propria poetica, le quali, pur avendo dei numi tutelari riconoscibili, concedono alle sue opere una forma di identità.



















Sud degli Stati Uniti, 1989. Lou (Kristen Stewart) lavora nella palestra locale, ma è figlia di Lou Sr. (Ed Harris), gangster coinvolto nel contrabbando di armi con il Messico. Sua sorella Beth (Jena Malone) è poi sposata con il viscido JJ (Dave Franco), che la abusa quotidianamente. Gli equilibri di questa comunità sbandata vengono ulteriormente scossi dall'arrivo di Jackie (Katy O'Brian), bellissima body-builder che cerca di sbarcare il lunario.



Due donne forti coinvolte in una incandescente passione, Lou e Jackie sono un mix tra Thelma & Louise e Sailor e Lula, due anime gemelle il cui idillio è compromesso dal ciclo della violenza; una violenza endemica, che affligge un'intera comunità e che ha diverse forme.
La prima, più disturbante, è quella coniugale, la violenza immotivata di un marito che gratuitamente riduce una moglie in fin di vita. La seconda, meno esplicita, è quella di un patriarca mafioso che tiene in pugno una comunità sottomettendo persino l'amata figlia e eliminando chiunque vi si opponga.
Una violenza che cinge ineluttabile tutti i personaggi, siano essi vittime o carnefici: le due amanti non riusciranno mai davvero a sfuggirne, ma anche la vittima per eccellenza Beth alla fine compatirà quella figura mostruosa che per anni ne ha reso l'esistenza miserevole.
La passione prende le forme non solo delle incandescenti scene di sesso, ma anche della fisicità scultorea di Katy O'Brian, dei suoi muscoli sudati che si flettono nello sforzo ginnico. Uno sforzo rivolto alla salvezza, alla fuga da un destino di sangue che sembra segnato e inevitabile, che viene sostituito con un sogno verso la California, come da tradizione terra dei sogni.














La Glass guarda a questo pugno di personaggi con distacco, ne dipinge il cammino in modo visionario e volutamente freddo; il colore rosso non sottolinea la passione ma il pericolo e il cielo stellato che letteralmente li opprime non offre salvezza se non nelle fantasie deliranti. Con la conseguenza che tutti i personaggi hanno una loro tridimensionalità non restando ancorati agli stereotipi di ruolo, partendo dalle due protagoniste: Lou ha il sangue freddo che solo un passato di violenza può dare, mentre Jackie alterne una furia omicida incontenibile ad una fragilità insostenibile. Persino il maschio alfa, che Ed Harris si diverte a dipingere come una sorta di hippie sanguinario, ha un'indole morale più forte di quanto si possa credere in storie simili. Il risultato è un racconto tanto visionario quanto sfaccettato dove nessuno è quello che sembra, dove nessuno è davvero innocente e chi è davvero finisce inevitabilmente con il diventare vittima della loro furia, spesso per caso o convenienza, come solo la migliore tradizione del noi americano sa raccontare.



















Love Lies Bleeding riesce così nell'intento di dipingere in modo forte e credibile un gruppo di personaggi maledetti in una storia fosca e infuocata. Un thriller che potrebbe essere definito "vecchia scuola" per come non si fa scrupoli ad usare un registro cinico, ma al contempo visionario e cattivo.

venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice

di Tim Burton.

con: Michael Keaton, Winona Ryder, Jenna Ortega, Catherine O'Hara, Monica Bellucci, Justin Theroux, Willem Dafoe, Arthur Conti, Burn Gorman.

Commedia/Fantastico

Usa 2024













Tim Burton oramai è ufficialmente alla ricerca di una rinascita artistica. Complice anche la pessima esperienza avuta con Dumbo, ha realizzato di aver perso quel qualcosa che lo rendeva speciale, che gli permetteva di creare pellicole davvero memorabili non solo per i nomi degli attori che vi prendevano parte, veri e proprio pezzi di pop-art apprezzati da tutti, un passato che ben pochi cineasti possono vantare.
Beetlejuice Beetlejuice è quindi il film del "ritorno alle origini" con il quale Burton porta a compimento un progetto iniziato oltre trent'anni fa. A fronte del successo dell'originale Spiritello Porcello, un sequel pare fosse entrato in cantiere già nei primi anni '90; un primo script fu redatto dal compianto Warren Skaaren, che già aveva revisionato quello dell'originale, e vedeva Betelgeuse fuggire dal mondo dei morti per concupire una giovane parigina; ma la morte dell'autore, di concerto con gli impegni presi da Burton per Batman il Ritorno e Nightmare Before Christmas hanno portato a cassare questa prima incarnazione di Beetlejuice 2; il quale ritorna giusto qualche anno dopo come Beetlejuice goes hawaian, con una sceneggiatura talmente delirante che praticamente nessuno ha voluto toccarla.
Trentasei anni dopo il primo exploit, Michael Keaton torna così a vestire i panni del bio-esorcista e Burton torna a dare fondo alla sua creatività per dar vita alle sue peripezie. E va detto: Beetlejuice Beetlejuice sfoggia una forma decisamente più interessante rispetto agli exploit burtoniani degli ultimi quindici anni (Frankenweenie a parte, si intende); peccato però che resti il più classico dei legacy sequel che si possa immaginare.


















Trentasei anni sono passati anche per i Deetz. I Maitland? Liquidati fuori scena con una lacuna nel regolamento che li ha permesso di "trapassare" definitivamente (e di non spendere soldi per il de-aging software). Nel frattempo Lydia è divenuta una sensitiva televisiva e ha avuto una figlia, Astrid (Jenna Ortega) con un primo marito deceduto male, mentre ora frequenta l'arrivista Rory (Justin Theroux). Tutto va bene? Non proprio: papà Deetz muore male anche lui e per tutto il film non è interpretato da Jeffrey Jones, viste le sue condanne per detenzione di materiale pedopornografico. Il lutto è l'occasione per Lydia, Astrid e la matrigna Delia (Catherine O'Hara) per ricucire i rapporti. Ricucitura che interessa anche la misteriosa Delores (Monica Bellucci), defunta succhia-anime che viene risvegliata da un inserviente maldestro (Danny DeVito) e che ora è in cerca di Betelgeuse (Keaton); il quale, a sua volta, se la spassa ancora come bio-esorcista ciarlatano.



















Un legacy sequel che ha il difetto mortale di tutti i legacy sequel, ossia la venerazione per l'originale, aprendosi con un volo sulla cittadina di provincia che diventa di punto in bianco un diorama e chiudendosi con le folli nozze del mostro, proprio come nel 1988. E' stato facile per tanta critica incensarlo per lo stile visionario e le trovate slapstick, ma BeetleJuice Beetlejuice, come da copione, non fa altro che riprendere e riproporre il passato; le differenze sono pochissime, come la mancanza della palette cromatica a là Mario Bava per le sequenze ambientate nell'aldilà, sostituite da colori decisamente più convenzionali; l'omaggio a Bava ora si sostanzia essenzialmente nel flashback dove si spiegano le origini di Betelgeuse e Delores, tra l'altro narrate in italiano anche nella versione originale; altro? L'omaggio al mondo della disco music, che da qualche anno Burton sembra apprezzare e l'uso di una scena animata totalmente in claymotion, stranamente blanda, tanto che più che a Burton e alle sue fantasmagorie la mente corre al pur simpatico Happiness of the Katakuris di Takashi Miike, dove l'animazione era però volutamente scialba.
Per il resto nulla di quanto appare su schermo è nuovo; anzi, Betelgeuse si limita a sfoggiare i suoi look più celebri (il completo a strisce con gli anfibi e lo smoking bordeaux) ma non il suo primo look con lo spolverino, il design di Delores è una fusione tra la Sally di Nightmare Before Christmas e La Sposa Cadavere, mentre il Betelgeuse Bebè sembra più che altro un omaggio alla scena più divertente del mitico Splatters- Gli Schizzacervelli di Peter Jackson.



















Da un punto di vista strettamente narrativo, le cose vanno invece un pelino meglio: lo script almeno non è una fotocopia sbiadita del primo e, anzi, cerca di dire qualcosa di nuovo; perché poi questo qualcosa debba essere una storia pseudo-femminista su quattro donne e il loro rapporto con i compagni tossici non è chiaro, ma evidentemente agli sceneggiatori di Mercoledì non è venuto niente di meglio in mente.
Troviamo così Lydia alle prese con uno spasimante falso e arraffone non poi tanto diverso dallo Spiritello Porcello che cerca ancora di concupirla, Astrid alle prese con una cotta che si rivelerà a dir poco pericolosa e Delia a piangere un marito che invece era davvero un'anima gemella, fatto veramente strano soprattutto se si pensa ai trascorsi di Jeffrey Jones. Delores, d'altro canto, è una semplice villain, ma almeno funziona come perfetto controaltare al bio-esocrista ciarlatano più simpatico del cinema; e Burton ha la decenza di limitare al minimo sindacale i dialoghi della Bellucci, che come sempre quando si tratta di sfoggiare la sua inesauribile bellezza funziona a dovere.

















Si hanno così tre tracce narrative che si intersecano tra di loro; al bando la satira di costume, Beetlejuice Beetlejuice alla fin fine è una semplice commedia sulla guerra dei sessi e sull'accettazione di sé stessi, nulla più e nulla meno; la sceneggiatura non sempre riesce a tenere insieme le sequenze necessarie, che talvolta sembrano un po' forzate, come il flashback baviano, ma per la maggior parte il tutto scorre bene. Questo nonostante Burton a tratti non riesca a imporre il giusto ritmo, forse anche a causa del cast: Jenna Ortega fa sostanzialmente il suo classico personaggio da adolescente problematica senza impegnarsi più di tanto, Winona Ryder neanche cinquant'anni riesce a tenere la scena, Willem Dafoe è tutto sommato sprecato, l'unica che davvero dimostra grinta è Catherine O'Hara, davvero scatenata; quanto a Michael Keaton... il suo carisma è sempre lì e fa sua ogni scena, ma quella genuina pazzia e quell'entusiasmo strabordante del passato si percepiscono solo a tratti.

















Si potrebbe quindi etichettare Beetlejuice Beetlejuice come un sequel dignitoso ma modesto e lo si potrebbe anche tranquillamente detestare. Eppure, ha qualcosa che lo rende lo stesso divertente, che permetterebbe anche allo spettatore più cinico di divertirsi; c'è qualcosa in quest'alchimia ottenuta riciclando il passato che per una volta non urtica, né annoia; per una volta e da davvero molti anni a questa parte, l'entusiasmo di Burton si avverte davvero, pur al netto dei difetti di direzione; sarà perché gli ultimi exploit dell'ex enfant prodige di Burbank sono stati al meglio mediocri, sarà perché in generale quella del legacy sequel è una moda che ha generato davvero pochissimi esiti degni di nota, questa volta ci si riesce almeno a divertire.

martedì 10 settembre 2024

R.I.P. James Earl Jones

 

1931 - 2024

Resterà per sempre celebre come la voce storica di Darth Vader e di Mufasa de Il Re Leone, ma James Earl Jones è stato anche un glorioso caratterista con circa 190 ruoli all'attivo. Collaborando con autori del calibro di Stanley Kubrick, John Boorman, Francis Ford Coppola e John Milius, Jones si è imposto come interprete eclettico e carismatico prima ancora che come vera e propria icona popolare.

The Crow- Il Corvo

The Crow

di Rupert Sanders.

con: Bill Skarsgaard, FKA twigs, , Danny Huston, Josette Simon, Laura Birn, Sami Boujila, Karel Dobry, Jordan Bolger.

Fantastico/Azione/Gore

Usa, Regno Unito, Francia 2024















Ed eccolo qui finalmente, il famigerato remake/reboot de Il Corvo- The Crow (in Italia approdato invertendo titolo e sottotitolo) rimasto per quasi vent'anni in development hell, con una decina tra registi e attori che vi si sono avvicinati senza che nulla si sia concretizzato; una re-immaginazione partita come adattamento più fedele del capolavoro di James O'Barr, che per questo aveva avuto inizialmente l'appoggio dell'autore, solo per poi divenire altro e che vede adesso la luce grazie alla caparbietà del produttore Ed Pressman e a quella di Rupert Sanders, autore del blandissimo ma non totalmente disprezzabile remake yankee di Ghost in the Shell; girato in fretta e furia e praticamente in segreto, odiato prima ancora che arrivasse in sala a causa del suo look e della sua estetica lontani anni luce non solo dal film originale, ma anche dal fumetto originale. E questo remake che remake davvero non è, reboot che reboot davvero non è altro non è se non un quinto film dove il collegamento con l'originale è dato solo dal nome del protagonista, saldamente ancorato ai luoghi comuni di una serie dove il personaggio del titolo sembra condannato perennemente a risorgere per ripetere costantemente le stesse azioni, solo in contesti diversi e in film sempre più stanchi, brutti e privi di personalità. Dei quali questo nuovo capitolo non fa eccezione, ma tra i quali ha anche un pro e un contro che gli altri non hanno: è sicuramente più dignitoso di tanta altra spazzatura che ha portato il titolo "Il Corvo", ma al contempo dimostra di non aver capito assolutamente nulla né dello spirito del personaggio, né dello spirito di quella serie di film che, per quanto malriuscita, invece continuava a coltivarlo.
Per comprendere appieno l'errore madornale alla base di The Crow bisogna quindi ricordare che cos'era il The Crow cartaceo che a partire dal 1988 ha stregato milioni di lettori, compreso il compianto Brandon Lee.

L'opera di O'Barr era essenzialmente uno stumento per elaborare il lutto che lo aveva colpito. La storia è in realtà nota a chiunque si sia appassionato anche solo al film del 1994: l'autore nasce figlio di una donna fortemente alcolizzata e viene letteralmente tratto in salvo a pochi giorni dalla nascita da una casa nella quale nessuno si era accorto del parto. Cresce in solitudine in orfanotrofio, passando i primi anni della sua vita a difendersi dalle angherie di altri piccoli disperati e quando viene adottato, a circa sei anni, si ritrova in una famiglia che, pur amorevole, è spesso assente. Il suo carattere diventa quindi ruvido e persino violento, con il cinema e la passione per i fumetti a rappresentare le uniche valvole di sfogo in una realtà a dir poco priva di luce.
Una luce che arriva inaspettatamente quando, adolescente, incontra Beverly, una compagna di classe che, nelle sue stesse parole, era il suo opposto, una persona gioviale e carica di vita; la storia tra i due è quella che oggi con cinismo potrebbe essere descritta come la tipica love-story adolescenziale, ma che nel contesto della turbolenta vita dell'artista risulta davvero come un raggio di speranza. La quale viene dissolta quando Beverly muore a soli 18 anni, nel 1978, a causa di un camionista ubriaco che la investe.
O'Barr, incolpandosi della sua morte, precipita così in una spirale autodistruttiva fatta di droga e violenza spicciola, per tenere a bada le quali decide di arruolarsi nell'esercito. Inviato a Berlino, inizia a lavorare come illustratore dei manuali di combattimento e sopravvivenza, affinando la sua tecnica, ma il suo demone interiore non trova pace: leggenda vuole che rientrato in patria abbia anche cercato di uccidere il responsabile della morte di Beverly, nel frattempo deceduto per altri motivi.
Il senso di frustrazione e di disperazione diventano così insostenibili e inizia a disegnare le prime strips de Il Corvo per cercare una catarsi almeno in un mondo di fantasia. Il resto è storia: a seguito di vari rigetti, riesce a far pubblicare la sua opera grazie ad un accordo con la Caliber Comics di Kevin "Turtles" Eastman, il successo è immediato e i diritti per un adattamento cinematografico vengono venduti già nel 1991. Quando la tragedia ha colpito il set del film, O'Barr si è ritrovato nuovamente in una situazione disperata: l'infrangersi dell'amicizia che aveva stretto con Brandon Lee lo ha portato nuovamente sull'orlo del baratro, dal quale è fortunatamente riuscito ad uscire grazie all'amore di una famiglia che nel frattempo si era costruito.


Il Corvo, quindi, è alla sua base un esercizio per l'elaborazione del lutto, una storia di disperazione resa ancora più nera grazie all'intuizione, geniale, di alternare le immagini più crude ad un romanticismo salvifico; così che quella che astrattamente è una semplice storia di vendetta violenta "vigilante style" come se ne sono viste a bizzeffe in tutti i media, diventa una perfetta rappresentazione dell'umano dolore, causato dalla perdita di una forza salvifica impossibile da elaborare davvero.
Facile è stato per i lettori più sensibili amare questa graphic novel adulta nel senso migliore del termine, anche grazie allo stile punk rock e alle citazioni musicali e letterarie che O'Barr vi ha immesso, con rimandi agli amati Joy Division e a Rimbaud. Ancora più facile è stato amare quel tragico film che, pur riarrangiando ampiamente storia e personaggi, ne sapeva cogliere alla perfezione sia lo spirito tragico, sia quello più solare, oltre che all'atmosfera cupa e violenta, infondendovi inoltre un tocco goth che ne aggiornava lo stile al nuovo decennio
Bisogna quindi partire da un duplice presupposto: Il Corvo di O'Barr non era una semplice storia di amore e vendetta e non portava in scena un supereroe/vigilante che faceva semplicemente giustizia verso le forze del male; il film del 1994 riprendeva pienamente tale aspetto e ha anche il grosso pregio di essere invecchiato molto meglio di quanto si possa immaginare.




La differenza più marcata di questo nuovo film rispetto a tutte le altre incarnazioni (meno che verso lo scalcinato Preghiera Maledetta) è il cambio di registro e di look: tolto qualche riferimento ai Joy Division nella colonna sonora, non c'è traccia del punk originario, nel del dark goth cinematografico. Rupert Sanders ha optato per un'estetica inedita nella serie e ciò gli ha sicuramente concesso una nota di originalità quantomeno nel look.
Un look totalmente moderno, con un Eric Draven che è un trapper mezzo nudo e agghindato con uno strambo spolverino ai limiti dello steampunk. Mossa azzardata? Non proprio: bisogna pur sempre tenere presente che sia il fumetto che il film sfoggiavano un'estetica perfettamente accordata alla moda del tempo; una moda underground e controculturale, ma pur sempre una moda, la quale oggi come oggi persiste solo negli aficianados, soprattutto di lunga data, nonostante abbia fatto scuola anche grazie al film.
Una nuova incarnazione che si accordi alla moda odierna ha perfettamente senso e se tutto il film risulta scialbo in termini strettamente estetici è solo perché (è il caso di dirlo) il look punk e quello dark goth sono decisamente più belli da vedere su schermo. Fatto resta che almeno questo finto remake ha una sua personalità, la quale risulta ancora più marcata perché prodotto in un periodo storico dove ogni sequel/remake deve necessariamente riprendere in modo feticistico stile e stilemi dei capostipiti senza mostrare nulla di nuovo, con esiti talvolta imbarazzanti.



Va poi sottolineato come Il Corvo- The Crow non creasse davvero nessuna forma estetica del tutto inedita, almeno dal punto di vista strettamente cinematografico. Il film di Proyas era figlio né più nè meno del Batman di Tim Burton, dal quale ha ripreso il gusto per una messa in scena stilizzata, per una fotografia reminiscente del cinema horror classico e di quello espressionista e in generale un gusto per il gotico moderno che, come detto, andava a sostituire quel punk fumettistico che in immagini avrebbe reso il film più simile ad una pellicola sleazesploitation che ad un horror.
Anche Rupert Sanders riprende a sua volta la lezione esteitca di un altro film sull'Uomo Pipistrello per creare il suo The Crow- Il Corvo, ossia il The Batman di Matt Reeves, dal quale ricava il gusto per una metropoli notturna verosimile e immersa nei colori ambra e magenta dei lampioni. Ed è qui che sta uno dei problemi cardine del film, perché se il goth dark di Proyas era perfetto per trasmettere una sensazione di disagio e per ammantare i personaggi in un'atmosfera cupa e opprimente, il realismo quasi nolaniano di Sanders finisce per appiattire tutto.
Regia e fotografia cercano costantemente di trovare un'atmosfera che si attagli alla storia, ma falliscono miseramente; a tratti il gusto moderno paga anche, con qualche scena dove l'atmosfera autunnale e sleazesploitation riescono finalmente a filtrare, ma il tutto viene poi ammazzato dagli esterni giorno nell'assolata campagna americana, dagli interni che risultano anonimi anche quando ritraggono il lusso decadente di alcuni personaggi o da quegli orrendi colori pastello del centro di recupero. The Crow finisce così per non avere atmosfera, con un personaggio che si muove in un mondo anonimo nel quale non risalta neanche come creatura fantastica in un contesto verosimile, anzi risultando talvolta persino fuori ruolo. Manca in generale il senso di meraviglia, di bellezza, di stile. E se già questo sarebbe abbastanza per decretare il fallimento di questo revival, il vero colpo mortale lo infligge una sceneggiatura a dir poco pessima.



Tutti i luoghi comuni del moderno cinema di genere americano confluiscono a forza in meno di due ore; si parte da due protagonisti blandi: Eric è un tossicodipendente bullizzato dai compagni del centro di recupero, Shelly una tossicodipendente inseguita dal cattivone di turno. Il fatto che i due amanti immortali siano due tossici non deve stupire vista la volontà di riprendere gli stilemi della trap, che da sempre incensa le gioie della tossicodipendenza, tanto che non manca persino una scena nella quale i due si drogano come se fosse qualcosa di cui essere fieri e felici; più singolare è il fatto che regalando più screentime a Shelly la si trasforma paradossalmente in un personaggio peggiore (cosa successa di recente anche con la Chani di Dune- Parte Due): nel film originale era una ragazza che veniva punita perché si opponeva alle angherie di Top Dollar e alla speculazione edilizia di cui era fautore, qui è semplicemente una tossica che ha commesso un omicidio, nulla più. Vien da ridere se si tiene conto che l'amore di Eric nei suoi confronti vacilla quando scopre dell'omicidio, pur avendo piena coscienza del fatto che fosse stata manipolata dai poteri magici del cattivo Roeg.
Il fatto che il cattivo non sia un semplice criminale ma sostanzialmente uno stregone immortale che ha stretto un patto con il diavolo era anche un aspetto interessante; peccato però che non trovi sviluppo effettivo. In generale, tutta la trama sembra un semplice abbozzo dove manca ogni forma di sviluppo, con la "discesa all'inferno" di Eric che vive solo grazie a qualche dialogo.
L'intera storia di amore e morte viene poi raccontata in modo lineare, stabilendo per l'ennesima volta l'incapacità degli sceneggiatori americani di saper usare una struttura non lineare o anche semplicemente di usare la sintesi nella narrazione per immagini; l'intero film, di conseguenza, è diviso in due parti, letteralmente eros e thanatos, delle quali la prima è a dir poco atroce: l'incontro e l'attrazione tra Eric e Shelly sono forzatissimi, la loro unione dura giusto qualche giorno eppure sono innamoratissimi, come due adolescenti persi nel corpo di due ultraventenni (immaturi perché tossicodipendenti?) e la loro separazione finisce con il risultare insipida proprio perché preceduta da metà film costruita su esagerazioni e forzature.



Nella seconda parte le cose vanno anche peggio. Proprio a causa dell'incapacità di empatizzare per i due ragazzi, le uccisioni divengono pura vendetta dove non c'è traccia di disperazione o dolore. Il Corvo, qui, altro non è se non un Charles Bronson della trap la cui rappresaglia è persino sottolineata da un tasso di gore che finisce per glorificare la violenza spicciola. Ed è qui che The Crow si dimostra come del tutto ignorante nei confronti della sua base fumettistica, finendo per togliere a storia e personaggi ciò che li rendeva davvero memorabili, originali e riusciti.
Piatto come storia d'amore, piatto come storia di vendetta, piatto nella messa in scena, piatto persino nelle performance, con un Bill Skarsgaard che, povero lui, ci prova pure a dare spessore ad un personaggio monocorde ma non ci riesce, The Crow è piatto persino come film di supereroi, con l'ennesimo eroe che impiega praticamente tutto il film per sfoggiare il proprio look.



Alla fine della visione ci si accorge però di come questa piatta riproposizione del personaggio di culto sia sbagliata per un motivo sin troppo semplice: è il classico film hollywoodiano degli ultimi anni. E' l'adattamento di qualcos'altro, quindi non ha originalità; ha una sceneggiatura lineare, basilare, abbozzata priva di inventiva e di mordente; ha una messa in scena priva di stile, ispirazione e ambizione; si rifà a mode e modi squallidi risultando imbarazzante e urticante. In questo, Sanders ha davvero dato un'ottima lezione di moderno filmmaking.

venerdì 6 settembre 2024

Gott mit Uns (Dio è con noi)

di Giuliano Montaldo.

con: Franco Nero, Richard Johnson, Larry Aubrey, Helmuth Schneider, Bud Spencer, Michael Goodliffe, Relja Basic, Emilio Delle Piane, Enrico Osterman, Osvaldo Ruggieri, Renato Romano, T.P. McKenna, Rade Serbedzija.

Storico/Drammatico

Italia, Jugoslavia 1970













La prima parte della filmografia di Giuliano Montaldo è caratterizzata da opere eterogenee, con le quali ha toccato tematiche e persino generi disparati. Se con Tiro al Piccione portava alla ribalta la storia recente d'Italia, con Una Bella Grinta creava uno spaccato del presente che fondeva ritratto e melò; la partecipazione al documentario Nudi per Vivere (al quale prese parte anche Elio Petri) gli permise di muoversi direttamente nella realtà notturna dell'Italia degli anni '60, mentre i successivi Ad Ogni Costo e Gli Intoccabili lo portavano a misurarsi direttamente con il cinema di genere.
E' nel 1970, con il celebre Gott mit Uns, che Montaldo sembra trovare una quadra per il suo cinema, che ora torna a trattare della Storia (allora) recente, come agli esordi, in una pellicola che gli permette di far salire il suo nome nuovamente agli onori della critica e che segnerà parte della sua produzione successiva.



Maggio 1945, Olanda. Mentre la Seconda Guerra Mondiale volge al termine, i soldati della wehrmacht Bruno Grauber (Franco Nero) e Reiner Schultz (Larry Aubrey) disertano per salvarsi la vita e trovano rifugio presso un distaccamento canadese degli Alleati, dove fanno amicizia con il caporale Jelinek (Bud Spencer). Tale distaccamento ha occupato un ex campo di concentramento, convertito a campo di prigionia per gli sconfitti. Qui la tensione tra l'ufficiale alleato Miller (Richard Johnson) e il colonello tedesco Von Bleicher (Helmuth Schneider) è alle stelle e scoppia definitivamente quando quest'ultimo chiede di poter processare i disertori.




Un vergognoso e misconosciuto episodio di guerra, quello alla base di Gott mit Uns: due soldati disertori vengono processati da una corte marziale fuori tempo massimo e persino giustiziati pur se da un esercito sconfitto e finanche dopo che la guerra è ufficialmente finita. Un episodio che Montaldo traduce in un pamphlet sull'assurdità della guerra e sui disumani meccanismi dell'esercito, qui inteso come pura istituzione. La Storia che si fa ritratto, quindi, con i protagonisti che divengono a loro modo degli archetipi, a cominciare dai due disertori.
Grauber e Schultz, al pari dei più celebri Sacco e Vanzetti che Montaldo porterà sul grande schermo giusto un paio di anni dopo, sono due innocenti che vengono schiacciati da un sistema che non può tollerale gli afflati di dissenso, nemmeno quando questi sono resi necessari per la sopravvivenza. Grauber è il più insofferente, il quale arriva a ridere in faccia e persino minacciare il suo ex superiore; Schultz, giovane e inesperto, è un innocente che si ritrova suo malgrado coinvolto in una situazione mortale, non un ribelle, quanto un semplice "uomo comune" che ha provato a sopravvivere invano alle avversità.
Corrispettivamente, Miller e Von Bleicher sono i due volti dell'autorità. Il primo, canadese, è un ufficiale dai modi gentili e quasi naif nel suo rapportarsi con dei prigionieri superbi e volitivi; il secondo, suo opposto, è un perdente solo esteriormente, continuando a ritenere modi prevaricatori pur ritrovandosi dietro decine di metri di filo spinato, espressione di un egotismo che non conosce remore e che adopera codici e leggi militari al solo fine di non affrontare la sconfitta subita in battaglia.


















L'esecuzione diviene così l'ago della bilancia in un gioco di potere; gioco che in realtà non si combatte tra i due eserciti, tanto più che la guerra è terminata; lo scontro è quello tra l'istituzione e il popolo, una battaglia per garantire la percezione di insindacabilità dell'esercito e delle sue decisioni. Tutto viene così subordinato all'apparenza, ad una "ragion di Stato" che prende le forme della rispettabilità da imporre attraverso il terrore, in una coerenza che in realtà esiste solo per perorare il proprio potere, piuttosto che sfoggiarlo davanti ad uno spettatore (la popolazione comune in un sistema democratico) in realtà assente. 
Montaldo descrive così in modo schietto tutta la carica disumana che si cela dietro i meccanismi del comando, con un piglio retorico impossibile da mettere in discussione. Laddove perde colpi, paradossalmente, è nella semplice costruzione drammaturgica.


















Manca vero coinvolgimento, in Gott mit Uns; in una storia che richiede non la semplice indignazione morale, ma anche la contrizione emotiva non ci si ritrova mai davvero a percepire il dolore e la disperazione dei personaggi; emozioni vengono cucite addosso al personaggio di Grauber e ai suoi scatti d'ira verso le autorità, con la conseguenza che non c'è mai davvero un momento nel quale si riesce a provare vera commozione verso i due condannati. L'impianto dialogico del film è certamente corretto, portando ad un confronto serrato tra gli esponenti del potere, ma si avverte la mancanza di una vera scena madre che possa generare vera empatia verso i personaggi; questo nonostante nella prima parte vi siano un paio di scene (quelle con Bud Spencer, per intenderci) dove si cerca anche di dare spazio al lato più strettamente umano e emotivo della vicenda, senza però riuscirci davvero.
La freddezza e il distacco, certamente non voluti, finiscono così per rendere la visione per certi versi inefficace; il lavoro di Montaldo è certamente corretto anche sul piano della semplice formalità della messa in scena, ma questa mancanza di mordente rende tutta l'opera certamente riuscita, ma non molto coinvolgente.