con: Cailee Spaeny, David Jonsson, Isabela Merced, Archie Renoux, Aileen Wu, Spike Fearn.
Fantascienza/Horror
Usa, Regno Unito 2024
---CONTIENE SPOILER---
Ha davvero senso fare un legacy sequel per Alien?
I legacy squel o requel o come li si voglia chiamare sono, per loro stessa definizione, una vera e propria riesumazione di un film o di una serie di film che hanno avuto un grosso successo di pubblico, che magari hanno anche segnato l'immaginario collettivo per un dato periodo, ma che, per un motivo o per l'altro, nel corso degli anni sono spariti, in maniera più o meno marcata, dalla coscienza collettiva. Più è grossa tale assenza, più il successo e persino la riuscita del revival sono assicurati, non per nulla i più celebri del filone sono stati quelli di Top Gun, Ghostbusters e Scream.
Ma l'alieno portato al cinema da Ridley Scott nel 1979 e la sua successiva incarnazione di James Cameron del 1986 non sono mai davvero scomparsi dalla memoria collettiva: è da 45 anni che tra film, videogame, romanzi e fumetti la testa falliforme di Alien continua a spuntare con regolarità nella cultura pop, in quel luogo della coscienza collettiva dal quale non è mai andato via.
Perché dunque un legacy sequel? Perché, da un punto di vista strettamente commerciale, è la mossa più sensata per riportare i fan a comprare il biglietto e per introdurre i neofiti alla serie. La saga di Alien ha infatti subito diversi brutti colpi nel corso degli anni in termini di apprezzamento: si parte dal flop (più che meritato) di Alien- La Clonazione nel 1997, il successo relativo del cross-over Aliens vs. Predator nel 2004 e del suo inguardabile sequel del 2007, si arriva all'accoglienza deludente riservata a Prometheus e Alien: Covenant. La parola d'ordine e ridare al fanbase ciò che il fanbase vuole, ossia, nella mentalità dei produttori interessati solo alle vendite e con una visione davvero ristretta delle cose, ridare loro quelle immagini, quei simboli, quell'estetica che li fece innamorare del franchise decenni addietro.
La scelta di Fede Alvarez come regista non stupisce, di conseguenza, proprio lui che è salito alla ribalta con quello pretenzioso remake di The Evil Dead nel quale comunque dimostrava di avere mestiere; Alvarez ha poi ammesso candidamente di aver accettato l'incarico solo perché fan del videogame Alien- Isolation piuttosto che della serie di film, dimostrando quello spirito nerd che tanto fa gola agli executives.
Fatto sta che rifacendosi totalmente al lavoro di Scott e di Cameron, Alvarez porta a casa la pagnotta con un nuovo capitolo certamente dignitoso, ma anche privo di qualsivoglia forma di ambizione e creatività.
Ogni singolo film di Alien ha una sua identità, persino quelli decisamente non riusciti riescono ad essere memorabili per il loro lato stilistico-estetico. Romulus invece altro non è se non un best of di quanto visto in passato, inserito all'interno di una storia solo apparentemente dotata di spunti originali e a sua volta allungata malamente a quasi due ore di durata.
Una storia che per la prima volta nella serie mette al centro dell'azione un gruppo di ragazzi: circa vent'anni dopo il primo film, su di una colonia mineraria della Weyland-Yutani, la giovane Rain (Cailee Spaeny) è letteralmente schiava della compagnia e cerca di fuggire dal suo giogo assieme al suo androide "fratello" Andy (David Jonsson). L'opportunità si presenta quando il suo spasimante Tyler (Archie Renaux) la convince a rubare delle capsule criogeniche da un relitto stranamente arrivato nell'orbita del pianeta; questo si scopre ben presto essere il relitto della stazione di ricerca Romulus, infestata dai celebri alieni.
Sembrerebbe una storiella originale, quantomeno all'interno del franchise, ma ci si accorge subito di come lo spunto sia praticamente quello di Man in the Dark, solo con lo xenomorfo al posto dell'anziano marine incazzato. Alvarez ricicla dal suo passato anche questo così come praticamente tutto il resto.
Il giochino che solitamente si fa quando si guarda un legacy sequel qui raggiunge una nuova vetta, visto che non c'è praticamente nessun singolo elemento ad essere davvero nuovo e tutto il lavoro di scrittura e messa in scena si può riassumere in una parata di citazioni e rimandi. La scenografia è praticamente ricalcata su quella del primo film, così come la fotografia, lo score musicale e persino gli effetti sonori. Nulla viene aggiornato, la tecnologia usata dai personaggi diviene così retro-futuribile, basata com'è sui sistemi degli anni '70, retrodatando il film ad una sorta di limbo nel quale il mondo di Alien sembra perso (cosa che funzionava in Isolation per il semplice fatto che lì la storia è ambientata solo poco tempo dopo il primo film).
Con un look così orgogliosamente derivativo, Romulus perde incontrovertibilmente la sua identità, la quale si adatta a quella di una semplice imitazione, un giochino cinefilo da fanboy che si sostanzia, nel corso di circa due ore, nella volontà di caricare il film con tutte le citazioni possibili e immaginabili. Abbiamo così le inquadrature più celebri prese dal passato e inserite qui a forza (e spiattellate già nel trailer e nelle immagini promozionali, per rassicurare i fan), tra le quali per una volta spunta anche il celebre primo piano a due di Alien 3, sequel tutt'oggi sin troppo bistrattato; i dialoghi talvolta sono presi di peso e semplicemente trascritti mettendoli in bocca a nuovi personaggi, come il mitico "Get away from her, you bitch!" che, ricontestualizzato, diventa squallido e ridicolo; l'intera struttura del film ricalca quella del capostitpite, con tanto di quarto atto e messaggio di rapporto della protagonista a fare da epilogo; c'è lo scontro con una nuova forma di vita aliena come in Alien- La Clonazione, ma qui il design del mostro è talmente blando da sembrare l'opera di un bambino che ha preso la testa del pupazzetto dell'ingegnere di Prometheus e l'ha incollata sul corpo mutilato e scolorito di quello di uno xenomorfo, vero affronto fatto da Giger nel quarto film; verso la fine compaiono a sorpresa gli effetti laser visti nell'astronave aliena del 1979 e persino le celebri Reebok che Ripley sfoggia in Aliens, giusto per non farsi mancare nulla.
La connessione con il primo film è poi claudicante e forzata: si stabilisce nella prima scena come l'alieno portato a bordo della Romulus sia quello eiettato da Ripley fuori dalla Narcissus, ma per qualche motivo lo si ritrova a fluttuare tra i resti della Nostromo, che dovrebbero essere ad anni luce di distanza; ciò al solo fine di (letteralmente) gettare in faccia allo spettatore un pezzo di acciaio con la scritta Nostromo.
L'unica sequenza nella quale Alvarez sembra voler davvero fare qualcosa di nuovo è quella della fuga a gravità zero verso la fine del film, la quale però finisce per ricordare non solo la fuga nei corridoi allagati in La Clonazione, ma anche alcune sequenze di Dead Space. A voler proprio essere buoni, gli si può riconoscere il merito di aver messo su grande schermo la nascita di un Alien adulto, che qui esce da un bozzolo, ma è davvero troppo poco per parlare di una vera novità.
E poi c'è la riesumazione di Ian Holm, digitalizzato per interpretare una copia di Ash a quattro anni dalla sua morte, cosa che davvero si sarebbe potuta evitare e che viene inanellata anch'essa solo per compiacere i fan.
Come sempre, tutte le citazioni, i rimandi e le "ricalcature" sono riportate in modo meccanico, senza dare loro un valore specifico nella storia, non sono che una serie di strizzatine d'occhio che così risultano anche irritanti.
In circa due ore non c'è davvero un attimo nel quale Alvarez decida di rischiare, di creare davvero, di dare qualcosa di anche solo vagamente nuovo allo spettatore. Gli elementi originali sono così praticamente due: i personaggi non usano il fuoco contro gli alieni, ma il liquido criogenico, trovata che davvero scompagina tutto, non c'è che dire; e l'altra è l'innalzamento della soglia dell'inclusivismo insensato: l'androide Andy è praticamente autistico, mentre il maschio alfa Tyler sa usare un fucile da guerra praticamente perché è un gamer, probabilmente anche incel, roba di cui andare davvero fieri...
Proprio i personaggi rappresentano un altro punto dolente, essendo semplicemente blandi, tanto che neanche l'impegno degli attori riesce a farli brillare in alcun modo. La povera Cailee Spaeny vive di sole reaction shot e, per quanto riesca a tenere la scena, lo script le offre davvero troppo poco; David Jonsson dimostra un'ottima versatilità in quello che è praticamente un doppio ruolo, ma il suo personaggio è davvero troppo squallido per essere preso sul serio; Isabela Merced ci prova anche, ma sfortunatamente anche lei non ha abbastanza materiale. Gli altri tre personaggi sembrano poi dei riempitivi messi lì giusto per aumentare il body-count e, nel caso del teenager arrabbiato Bjorn, solo per darci qualcosa da detestare.
Quando poi si tratta di inserire la metafora piscoanalitica, Alverez riesce a fare persino di peggio. Laddove nella serie le metafore erano sottili e per questo riuscite, qui si decide di urlare letteralmente in faccia l'orrore della mutazione corporale data dal parto inserendo il personaggio di una ragazza rimasta incinta che serve solo a creare la scena finale e con tanto di dettaglio sul dipinto di un bambino che si allatta al cadavere della madre; dopotutto, stiamo parlando del regista che ha deciso di trasformare i deadite di Evil Dead in una metafora sulla tossicodipendenza creando un film dove la final girl urlava "ho chiuso con quella merda!" mentre uccideva il mostro finale, era da stupidi aspettarsi sottigliezze.
Mentre quando deve fare davvero il suo dovere e costruire sequenze ricche di suspense, Alvarez si dimostra persino meno volenteroso che in sede di scrittura, incredibile ma vero. Ogni singola scena deve avere un jump-scare e ogni singolo jump-scare deve essere accompagnato da una sviolinata per far saltare lo spettatore dalla sedia; sono lontani i tempi dei silenzi assordanti di Scott, dell'azione furiosa e disperata di Cameron, dell'atmosfera opprimente di Fincher e persino di quel sinistro senso di grottesco di Jeunet, qui è la pura convenzionalità a regnare sovrana.
Come porsi di fronte ad Alien: Romulus?
Se non si hanno pretese e soprattutto se non si conosce la serie, lo si può anche apprezzare; certo è che quando ci si dovesse accorgere che tutto quello che mostra è stato fatto decenni prima e anche molto meglio, perderebbe automaticamente ogni valore relativo che così potrebbe assumere.
Se si conosce la serie, invece, ci si rende conto immediatamente di come questo non sia un vero film, quanto una sorta di fan-film con un budget multimilionario, una sorta di antologia dei momenti migliori del passato privo di una sua identità. O, in poche parole, il perfetto esempio di blockbuster per franchise degli ultimi dieci anni, l'ennesimo exploit di un'industria cinematografica dove mancano coraggio e forse anche vero talento per chi sta dietro la macchina da presa. Tanto che verrebbe quasi da rivalutare Prometheus e Alien: Covenant, i quali almeno cercavano di avere una propria identità.
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