venerdì 31 marzo 2017

Ghost in the Shell

di Rupert Sanders.

con: Scarlett Johansonn, Michael Pitt, Takeshi Kitano, Pilou Asbaek, Juliette Binoche, Rila Fukushima.

Fantascienza/Cyberpunk/Azione

Usa 2017
















Fino a qualche anno fa, il progetto di un remake americano di "Ghost in the Shell" era uno di quegli "incubi" che ogni tanto si affacciavano nelle bacheche dei siti di informazione cinematografica o tra le fila delle preview nelle riviste specializzate, spaventando chiunque amasse il capolavoro di Oshii e fosse preoccupato che la sua eredità, intellettiva e cinematografica, venisse sporcata da un film che ne riprendesse giusto gli aspetti più superficiali per creare uno spettacolino da circo da offrire al solito pubblico affamato di esplosioni e trame cretine; una paura tutto sommato giustificata: basti vedere quanti danni abbia causato l'influenza della trilogia di "Matrix", primo epigono di "Ghost in the Shell" made in Hollywood.
Incubo che sembrava non dovesse mai realizzarsi: gli adattamenti di opere nipponiche si sono sempre rivelati dei cocenti flop al botteghino e non solo; basti pensare, per fare un esempio "supremo", allo scempio di "Dragon Ball Evolution" (2009), una tra i film più brutti e odiati di sempre. E di fatto, giusto qualche anno fa si è volatilizzata definitivamente la possibilità di adattamento dell'altro grande cult dell'animazione nipponica amato in America, quell' "Akira" (1988) che più volte si è cercato di rifare, sempre invano.
Eppure, "Ghost in the Shell" vede adesso il buio della sala nella forma di una produzione occidentale, dopo innumerevoli rinvii e false partenze, con al timone un regista famoso solo per l'exploit di "Biancaneve e il Cacciatore" (2012) ed una star come Scarlett Johansson a capitanare un cast internazionale, tra cui spicca ovviamente Takeshi Kitano, che torna a recitare in un film cyberpunk occidentale 22 anni dopo "Johnny Mnemonic"(1995).
Un film che è un remake addolcito, edulcorato e "depotenziato" del capolavoro di Oshii, dal quale finisce per riprendere persino intere inquadrature per creare un quadro puramente decorativo, dove le tematiche di fondo vengono declinate in modo superficiale e prevedibile.




Il tema della transumanizzazione viene introdotto nella prima scena: i corpi totalmente cibernetici che ospitano cervelli umani sono una nuova realtà e il maggiore Mira Killian (la Johansson) è il primo esemplare di una nuova umanità pronta ad affiancarsi a quella "classica", dove i cyborg sono semplici esseri umani potenziati. Ma ogni riflessione sul concetto di umanità e sul confine che separa un essere definibile come umano da una macchina viene immediatamente evitato, gettato via, ignorato per concentrarsi su di un altro tema, più vicino alla tradizione, ossia quello identitario, che avvicina così questo remake al "Blade Runner" di Scott più che all'originale di Oshii, almeno nelle tematiche.





Poiché, laddove Motoko Kusanagi si interrogava sulla propria identità riflettendo sulla propria natura, Mira Killian è una semplice persona orfana dei propri ricordi, che riaffiorano sotto forma di glitch visivi; la tematica diviene pretesto per la narrazione, che poggia al solito sulla caccia all'uomo, in questo caso il personaggio di Kuze (Michael Pitt), proveniente da "Ghost in the Shell Stand Alone Complex 2nd Gig", il cui ruolo è quello di McGuffin vero e proprio.
Lo smarrimento della protagonista viene ben sottolineato dalla performance minimale della Johansson e Sanders cerca di dargli spazio nella bella sequenza della prostituta, ma lo script non concede tregua: tutto è tracciato sui binari del già visto.
Ogni riflessione viene relegata a semplici linee di dialogo per poi sfociare nelle conclusioni più ovvie e scontante; la mente non viene mai stimolata, né si ricercano soluzioni ardite, tantomeno si pongono quesiti davvero interessanti (tutta la questione dei potenziamenti per gli organi umani viene gettata lì, tanto per dare un contorno al tutto). La trama di base si sviluppa anch'essa nel modo più prevedibile e scontato, tanto che nel terzo atto si ha la sensazione di stare rivedendo quello di "RoboCop", sia l'originale che il remake, a causa dei cliché tirati in ballo. L'unico colpo di genio riguarda la scoperta del passato del Maggiore, ma si tratta solo di un elemento isolato, che non aggiunge più di tanta profondità al tutto.




Derivatività narrativa che si affianca a quella visiva: tutte le immagini più celebri dell'originale ritornano, ricreate ad hoc per cercare una propria identità: tornano i titoli di testa sovraimposti alla nascita del cyborg, torna l'inseguimento nel canale di scolo, così come il volo dal grattacielo; torna l'aereo che si intravede nello spicchio di cielo tra i palazzi, così come il bassotto di Batou; tornano i costumi e le armi e persino lo scontro finale con il tank aracnoide. Innumerevoli anche i richiami ad "Innocence", primo fra tutti il personaggio della dott.ssa Haraway, con le sue sigarette ed il visore esterno. Ma i rimandi e le citazioni non fanno che appiattire la visione, ricordando allo spettatore di come in passato quelle stesse immagini fossero usate in modo più intelligente.
Sanders, dal canto suo, espande a dovere l'immaginario di Oshii: la metropoli nippo-hongkonghese è qui una versione aggiornata della New Port City del '95, con effetti olografici da realtà aumentata che aggiornano, riuscendoci, quell'immaginario seminale oramai in parte datato proprio a causa della sua essenziale influenza. E grazie all'uso di locations ed attori reali al posto della solita CGI, crea immagini plastiche di sicuro fascino. Il suo è il polso di un mestierante onesto, che chiamato a confrontarsi con un'opera più grande delle sue possibilità, cerca di non finirne schiacciato. Ma l'abuso di rimandi, sia visivi che narrativi, finisce per trasformare questo remake live-action in una sorta di mostro di Frankenstein composto da più parti (talvolta eterogenee) e dotato di una personalità blanda, priva di spessore, piatta.




Se "Innocence" era il duplicato dell'originale che aveva una propria anima, questo remake è l'esatto opposto: un clone che ha solo l'aspetto del capolavoro che fu, ma privo di una propria personalità. Un filmino banale, condotto certamente con mestiere, ma che è l'ombra sbiadita di una delle opere più importanti ed influenti degli ultimi 20 anni, dal quale riprende molto solo per appiattirlo.




EXTRA


Eppure, il remake americano non è la peggiore incarnazione dei personaggi creati da Shiro Masamune. Questo "onore" spetta a "Ghost in the Shell: Arise", serie di quattro OAV ed un lungometraggio, "The Rising", distribuiti nel 2013, che presenta una trama antecedente a quella di "Stand Alone Complex" che snatura completamente sia il mondo che i personaggi di riferimento.

4 commenti:

  1. La tua recensione ha confermato i miei timori su questo film. Un movie che riprende solo gli aspetti scenografici dell'opera animata e appiattisce tutto il resto.

    Su Arise sono d'accordo,un'occasione sprecata visto la buona qualità dell'animazione.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Era il timore di tutti. Tra l'altro, quando hanno annunciato che Ehren Krueger aveva messo mani allo script, il timore si è fatto panico.

      Elimina
  2. Piattume, insomma. Almeno possiamo guardare il culo di Rossellina...

    RispondiElimina
  3. Mah anche quello non è che brilli, qui....

    RispondiElimina