giovedì 9 marzo 2017

Il Disprezzo

Le Mépris

di Jean-Luc Godard.

con: Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance, Fritz Lang, Giorgia Moll.

Italia, Francia 1963

















"Il cinema. disse Andrè Bazin, sostituisce al nostro sguardo un mondo più in armonia con i nostri desideri. Il Disprezzo è la storia di quel mondo" esclama Godard in apertura. Una frase che sola contiene quasi l'intero significato de "Il Disprezzo", suo sesto lungometraggio e forse il suo capolavoro più genuino, dove la sua riflessione ora si contrae su sé stessa, riprendendo parte degli stilemi e delle situazioni di quell'inimitabile esordio che fu "A' Boute de Souffle" per elevarli ad un piano successivo, dove lo sguardo si fa più acuto eppure sempre posato sulla medesima ossessione, sul quell'incredibile caleidoscopio che è il linguaggio filmico in tutta la sua insidiosa complessità.
Sguardo che ora va oltre il filmato per posarsi in quel mondo che vive al di là della quarta parete, quella babilonia di culture e frenesie che porta alla creazione dell'opera filmica. Perché "Il Disprezzo", come e prima di "Effetto Notte", è sopratutto un film sul cinema, che però sa anche riflettere sull'altra grande ossessione godardiana, ossia il rapporto di coppia.




Il che è doppiamente ironico se si tiene conto della gestazione del film. Chiamato da Carlo Ponti a dirigere un semplice adattamento del romanzo omonimo di Alberto Moravia del '54, il grande artista si vede tolto il final cut per la versione distribuita in molti paesi, compresa l'Italia, similmente a quanto già accaduto con "La Donna è Donna".
Un rapporto, quello tra Ponti e Godard, che da qui non si sarebbe più sanato e che come risultato ha privato il pubblico italiano della visione dell'autore per decenni: solo a partire dagli anni '00 la versione integrale è stata trasmessa sui canali satellitari italiani e poi editata in DVD, mentre per la proiezione in sala si è dovuto addirittura attendere quest'anno.




Un mondo del cinema, quello de "Il Disprezzo", che si muove tra le coordinate di una Cinecittà all'epoca già divorata dalla speculazione, dove un produttore americano della "Hollywood sul Tevere" aggressivo, Prokosch (Jack Palance), tenta di portare a compimento un adattamento dell' "Odissea" diretto niente meno che da Fritz Lang e scritto da uno sceneggiatore smarrito tra le ingerenze di entrambi, lo strambo Paul (Michel Piccoli), sposato con la bellissima Camille (Brigitte Bardot).
Un rapporto, il loro, che comincia in modo intimo e quasi giocoso, dove le forme prosperose ed irresistibili della Bardot (perfetta incarnazione della femme godardiana, ancora più dell'amata Anna Karina) divengono l'incarnazione definitiva di una comunione amorosa totale.




Sullo sfondo, comincia a muoversi quel mondo folle della produzione, introdotto nel modo più genuino possibile in un prologo da antologia: la prima scena viene rivista dal punto di vista di chi osserva l'osservatore, finché la macchina da presa, ora personaggio, infrange la quarta parete e si rivolge al pubblico ricambiandone lo sguardo, divenendo protagonista effettivo della narrazione assieme agli attori.
Un mondo che è una Babilonia di lingue e culture che tentano di mescolarsi riuscendoci a malapena, quando ci riescono, poiché le controversie di vedute sono inconciliabili. La necessità di un punto di vista sul racconto diviene il punto focale delle discussioni; Odisseo si trasforma così in un marito in fuga dagli obblighi coniugali ed ogni velleità artistica viene persa in piccolezze, scempiaggini che mandano all'aria ogni buona intenzione. Questo perché il punto di vista sull'opera deve essere unico, quello di un unico autore, come la politica dei "Cahiers" insegna: il caos generatosi dall'incontro di tre personalità forti la fa collassare su sé stessa. L' "Odissea" finisce per vivere solo di frammenti, di immagini sconnesse che appaiono e scompaiono nel corso del film senza alcuna logica, veri e propri UFO orfani di un collante che dia loro un senso.




Nel frattempo la crisi matrimoniale prende il via da un'incrinazione quasi impercettibile: Paul non presta attenzione alle avanches che il produttore Prokosch indirizza a Camille, la quale si sente usata come una merce di scambio. La famosa indole libertina francese viene contraddetta, forse a causa della matrice letteraria non francofona; e, in assenza di ogni schematismo, i due personaggi si rincorrono per il loro appartamento similmente a quanto facevano Michel e Patricia in "A' Boute de Souffle". Il conflitto tra i due si esaspera a causa dell'incomunicabilità: uomo e donna parlano due linguaggi differenti, agiscono su due lunghezze d'onda distinte, non c'è un punto di incontro, né possibile riconciliazione proprio a causa dell'assenza di quello schema portante che ne avrebbe invece consentito una più diretta comprensione, quell'ipertesto dato da uno script ferreo che ne avrebbe indirizzato la parole.
Privati di un sentiero da seguire, i due personaggi finiscono per perdersi, per girare intorno a sé stessi nell'incomprensione più totale perché mancanti di quel sostegno gnoseologico alle loro azioni, ora non più dirette da un deus ex machina se non in minima parte; personaggi che così, pur restando confinati all'interno delle tre pareti della messa in scena, finiscono per essere estremamente reali, più simili a persone, in perfetto stile "Nouvelle Vague".




Se la loro incapacità di giungere ad una comprensione porta ad un caos emotivo definitivo, che sfocia nel "disprezzo" del titolo sino ad arrivare alle conseguenze più estreme, lo sguardo di Godard, al contrario, è fermo, perfettamente ancorato ad una geometricità tra i corpi ed i luoghi che crea immagini ineccepibili nella loro bellezza.
Immagini ipnotiche, rese ancora più affascinanti dalle forme di una musa all'apice della sua bellezza e dalla colonna sonora onirica e suggestiva di Georges Delerue. Al contempo, immagini volutamente fredde, in cui i personaggi sembrano perdersi in quei luoghi a loro così familiari eppure incredibilmente alieni.







Freddezza che, tuttavia, non rende la visione mai scomoda; la suggestione data da forme e suoni riesce sempre a fare colpo, a stupire l'occhio ed ammaliare la mente, in un trionfo di quel mezzo filmico forse mai così osannato dal suo autore. Un'opera incredibilmente bella, infinitamente perfetta nel suo continuo ed ostentato rifiuto di una perfezione che non sia quella strettamente formale.
Un capolavoro genuino.

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