di Paul Verhoeven.
con: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Cosigny, Charles Berling, Virginie Efira, Judith Magre.
Francia, Germania, Belgio 2016
Corpi che si dimenano come fossero oggetti dotati di una vita ulteriore rispetto a quella di coloro che li abitano, membra che si fanno metallo o scompaiono solo per rinascere più forti, pulsioni sessuali talmente vive da farsi violenza, arti smembrati nel giro di pochissimi fotogrammi. Paul Verhoeven è sempre stato un regista estremo. Estremo nella messa in scena, nella quale non ha mai lesinato dettagli e sequenze raccapriccianti sino al parossistico (il mutante di "RoboCop" o la violenza oltre le righe di "Atto di Forza"); estremo nelle storie e nei personaggi, dove i corpi dei protagonisti sono sempre il centro nevralgico della narrazione, pronti a trasformarsi, distruggere o distruggersi o stimolare evoluzioni forzate, sino a farsi vero e proprio strumento manipolativo. Si pensi al metallo di "RoboCop" (1987), dove la carne resuscita come arma in grado di spappolare il prossimo, al corpo sensuale ed irresistibile di Sharon Stone in "Basic Istinct" (1992), a quello virginale ma non meno caldo di Jennifer-Jason Leigh in "L'Amore e il Sangue" (1985) o a quello maturo di Carice Van Hauten in "Black Book" (2006), corpi che si fanno armi per la sopravvivenza, votati alla sopraffazione di un avversario o una vittima.
"Elle" arriva invece nel 2016, in un periodo in cui Verhoeven è ormai stato nuovamente assimilato alla cultura europea. Il sistema hollywoodiano che lo aveva fagocitato con gioia e poi risputato via in appena dieci anni, è ormai lontano. Ma la sua voglia di scandalizzare e sradicare piccole grandi ipocrisie, a 79 anni è più viva che mai.
Scandalo che poggia tutto sul volto e sul corpo di Michéle, la quale non può essere altri se non Isabelle Huppert; lei, che già ne "La Pianista" (2001) aveva usato quel volto e quel corpo, più giovani ed altrettanto attraenti, per dar vita al masochismo innato in un personaggio schiacciato dalla repressione sessuale. Michéle, d'altro canto, vive le proprie pulsioni schiacciate dal quella mediocrità borghese che molta società europea conosce.
Una mediocrità che si aggira per i quartieri residenziali di lusso, cena in ristoranti raffinati, guadagna bene in software house dove la violenza e la sessualità vengono processate mediante i pixel, diventando puro divertissement.
Violenza sessuale pronta ad esplodere sempre. Verhoeven decide di aprire il film proprio con questa violenza, ma senza insisterci: come un Haneke meno rigoroso, apre le danze quando questa si è già consumata fuori scena, permettendo allo spettatore di assistervi solo per il tramite dei rapidi flashback successivi.
Lo "scandalo" non esplode: la violenza viene somatizzata, rielaborata solo in sogno. La confessione di quanto subito è solo sussurrata e subito rimossa dalla coscienza collettiva.
Questo perché tra le piaghe dei finti sorrisi e dei rapporti amicali, nessuno dei personaggi chiamati in causa è davvero innocente, tutti sono coinvolti nel gioco del tradimento. Michéle continua a frequentare l'ex marito, il quale ha un'amante ventenne; il loro figlio convive con una giovane ragazza dalla quale ha un figlio di fatto non suo, ma che si ostina a considerare tale perché alla disperata ricerca di una forma di stabilità. La sua migliore amica è la moglie del suo attuale amante e a sua volta oggetto di desiderio saffico. Non c'è, in questo girotondo di amori e tradimenti, nessuna innocenza. Ognuno perora le proprie pulsioni in modo quasi animalesco, lasciando che sia solo la patina della serietà a differenziarli da quel "pervertito" che sembra terrorizzare il quartiere. Ed è proprio nel rapporto con l'assalitore che Verhoeven lancia il suo affondo più feroce, in un colpo a dir poco magistrale.
Perché dal confronto con il resto del cast, è proprio lui ad essere la figura più genuina, che nella violenza esplicita dà a Michéle ciò che lei desidera. Il desiderio, erotico e violento, non viene più confinato nello spazio virtuale del videogame, né in quello ipocrita del tradimento, trovando pura e piena realizzazione. Lo spirito masochista della middle class viene perfettamente soddisfatto, sopratutto quando l'identità del fautore viene allo scoperto.
E Verhoeven, ancora più magistralmente, non calca la mano, non esaspera i toni in cerca di uno scandalo esasperante, ma lascia che siano le sole immagini, secche e crude, a parlare, a scardinare quel velo di apatia che ammanta le vite dei suoi protagonisti.
Sino a cadere del tutto: le vestigia della normalità, abbellite con il ricorso ad una fede religiosa di sola facciata, si sgretolano pian piano, laddove possibile. Messi dinanzi a loro stessi, i personaggi si accettano per quello che sono e possono tornare a compiacersi in un lussureggiante girotondo che pare non avere fine. Con la differenza fondamentale di aver capito la loro mediocre, fragile ed egoistica natura.
Film notevole. Verhoeven è da sempre sottovalutato, la sua poetica è evidente anche nei film più mainstream. Mai omologato, sempre durissimo. Grande!
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