con: Anna Karina, Sami Frey, Claude Brasseur, Louisa Colpeyn, Chantal Darget, Ernest Menzer, Jean-Luc Godard.
Francia 1964
Il cinema di Godard, è sempre un bene sottolinearlo, è sperimentazione, riflessione attiva sul linguaggio filmico e non, distruzione delle convenzioni in cerca di una forma espressiva nuova.
In tal senso "Bande à Part" è uno degli apici della sua carriera, un film che riprende codici, stilemi e simboli del passato per farli a pezzi e ricostruirli in un modo inedito, nuovo e ancora cosciente di sé.
Il punto di riferimento anche qui è una delle ossessioni filmiche di tanta filmografia della Nouvelle Vague, ossia il noir americano, in particolare la sottocategoria del caper. Ma Godard non vuole saperne nulla di gangster, ex galeotti o teppisti di strada: i suoi protagonisti sono due perdigiorno patentati, Frantz (Sami Frey) e Arthur (Claude Brasseur), i quali incontrano la bella Odile (Anna Karina), con la quale tentano un colpo presso la di lei dimora, dove un inquilino pare nascondere un ingente somma.
La decostruzione è radicale sin da una premessa stilistica apparentemente scontata, ossia quella della voce fuori campo, ruolo che Godard si ritaglia su misura divenendo un narratore onnisciente, quanto inutile. La voce off non fa che coprire le immagini e Godard stesso la ridicolizza in una scena, dove esclama come sarebbe il caso di aprire una parentesi sulle emozioni dei personaggi, ma dato che queste traspaiono dalle immagini, è inutile farlo; in un gustoso controsenso, in una scena successiva, mentre i tre personaggi ballano, ne descrive i pensieri in dettaglio, laddove le immagini non mostrano che una danza fatta da piccoli gesti che si ripetono. E in una gustosa presa in giro del pubblico, nel finale annuncia un seguito mai fatto.
La sua è contestazione pura, che si rivolge sia al classicismo che al modernismo: rifacendosi ad Eliot, afferma come il nuovo è già di per sé classico, ne consegue la sua vetustità immediata e la necessità di un suo superamento.
Controsenso schizofrenico? Si, con la piena coscienza di sé. La sperimentazione supera sé stessa e si fa pura distruzione di ogni singolo stilema.
Basti vedere al modo in cui viene condotta la storia del menage a trois; niente gelosie, il rapporto viene cucito addosso ai tre personaggi e ai loro dialoghi fluviali e trasognati. Il perno è ovviamente la donna, la musa e moglie Anna Karina che si presta per la giovane Odile, ragazzetta un pò toccata, persa nei suoi "je ne sais pas" con cui affronta ogni quesito, attratta dal rude Arthur, ma poi salvata e sedotta dal mite Frantz.
Un rapporto, quello con il primo, violento, basato sulla sottomissione: lui è il gangster duro, lei la donna in un contesto dove la femminilità è sinonimo di debolezza. Mentre Frantz è un personaggio speculare ad Arthur, più calmo e simile al Michel Poiccard di "A' Boute de Souffle".
Ma il noir resta sempre sullo sfondo, anzi sullo sfondo dello sfondo, evocato dalla passione per i libri americani di Frantz o dalla lettura dei titoli di cronaca nera dei giornali: la sua forma è distrutta, la sua sostanza dispersa.
Persino la scena della rapina viene condotta in modo anticonvenzionale, annullando ogni tensione insita e rivestendo il tutto con una luce quasi comica.
Allo stesso modo, il rapporto tra i tre personaggi non si sviluppa con il canonico "andirivieni" godardiano, ma con una serie di confronti dialogici, annichilendo ancora di più la forma del caper..I personaggi giungono in primo piano e Godard li muove da un ambiente ad un altro cercando di metterne in mostra i difetti. Si diverte e a spiarli, a deridere le loro inconsistenze e piccolezze, a farli correre per i lunghi corridoi del Louvre senza apparente motivo, se non quello di dar loro un contesto del tutto libero da restrizioni.
Il "genere" finisce così per morire e risorgere come entità "altra", magmatica, frenetica, schizofrenica, priva di un'identità vera e al contempo dotata di una personalità fortissima. Al pari della morte di Billy the Kid mimata all'inizio, che si fa vera nel finale: sopra le righe, esagerata, falsa, volutamente folle, come tutta la messa in scena, dove l'anarchia regna sovrana.
Anarchia che ridefinisce così lo stile, più plastico, basato tutto sulla composizione in movimento: i piani sequenza e le panoramiche abbondano.
Forse non è un caso che "Bande à Part" venga dopo un lavoro grande ed estenuante quale "Il Disprezzo": la dittatura di Ponti ha generato in Godard (è il caso di dirlo) un disprezzo per ogni singola regola, fucina di un nuovo modo di intendere il cinema. Anarchia come forma creatrice, supremo e radicale sradicamento della sostanza dalla forma. E "Bande à Part" si contrappone al predecessore anche nell'aspetto: un bianco e nero luminoso al posto del Techicolor fulgido ed un'immagine in 4:3 anzicché panoramica, ossia un film più piccolo anche fisicamente.
E' però un caso il fatto che sia lo stesso Godard a giudicare come pessimo questo suo lavoro?
Forse il suo genio, qui, è talmente dirompente da accecarlo. Forse "Bande à Part" è un film sopravvalutato dai cinefili più incalliti; forse è un film per soli cinefili incalliti, da qui il "cattivo gusto" per chi il cinema lo pratica. Forse è tutto questo.
Di sicuro, è un'opera magna, intelligente ed irresistibile.
EXTRA
Tra i primissimi estimatori c'è ovviamente Quentin Tarantino, che omaggia il genio di Godard in modo diretto: la sua prima casa di produzione è stata titolata in onore al film.
Bertolucci, d'altro canto, ha ripreso la scena della corsa nel Louvre in "The Dreamers" (2002), omaggio al genio e ai geni della Nouvelle Vague; la scena è una ricostruzione dell'originale quasi inquadratura per inquadratura.
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