lunedì 6 gennaio 2025

Labyrinth- Dove tutto è possibile

Labyrinth

di Jim Henson.

con: Jennifer Connelly, David Bowie, Toby Froud, Shelly Thompson, Christopher Malcolm, Frank Oz.

Fantastico/Animazione/Fiabesco

Regno Unito, Usa 1986













Il buon esito di Dark Crystal riuscì in un certo senso a spalancare le porte di Hollywood a Jim Henson. Il suo prossimo progetto da regista arriva infatti pochissimo tempo dopo, già nel 1986,  con Labyrinth.
Una pellicola che a differenza del suo esordio prevede la canonica interazione tra marionette e umani, oltre un numero davvero ridotto di antimatronici in favore di classici pupazzi, più simile quindi al  Muppet Show nella messa in scena. Questo però non significa che Labyrinth sia una pellicola meno ambiziosa di Dark Crystal.
Al contrario, basta vedere i nomi coinvolti per capire come Henson abbia voluto alzare il tiro: lo script è affidato all'ex Monthy Python Terry Jones, una scelta che risulta bizzarra solo in teoria; come produttore, Henson trova la collaborazione niente meno che di George Lucas e come co-protagonista addirittura David Bowie, che cura anche le canzoni (tra le quali Magic Dance è ancora oggi un bellissimo tormentone e As the World Falls Down divenne persino una hit all'epoca della sua pubblicazione); torna poi Brian Froud come artista concettuale del film, dimostrando nuovamente la sua irrefrenabile indole visionaria.
Eppure questa volta non tutto va come previsto: a fronte di un budget di circa 25 milioni di dollari, il film ne incassa poco più di 14 in tutto il mondo. Un flop a dir poco sanguinante, che pone un freno alla carriera e alle ambizioni di Henson, il quale non avrebbe diretto praticamente più nulla sino alla sua prematura scomparsa.
Il motivo del tonfo è anche intuibile, ossia la sovraesposizione dei fantasy al cinema, il cui filone si andava esaurendo proprio in quegli anni, con i fallimenti di Legend, Krull e Red Sonja.
Labyrinth finisce così per scomparire rapidamente dalle sale per poi essere riscoperto nel corso degli anni e divenire l'ennesimo "culto non colto all'uscita". E se l'insuccesso di cassa ha rappresentato un colpo mortale per la carriera del suo autore, il suo valore effettivo, al contrario, ne ha cementificato lo status di artista.



Se Dark Crystal era una fiaba fantasy dove le metafore filosofiche erano ovvie perché del tutto apparenti, Labyrinth è invece una favola praticamente edipica che si pone come una metafora della maturazione, i cui simboli sono però sottilissimi, sempre celati anche quando appaiono letteralmente in piena luce; e questo nonostante la valenza metaforica, filtrata attraverso una costruzione onirica del viaggio della protagonista, sia palese.
Essenziale per la comprensione del sottotesto è la figura del goblin. Creatura ricorrente in praticamente tutto il folklore europeo (persino in Italia, dove nel sud del paese si ritrova nella figura del "monachicchio"), il goblin rappresenta la parte più immatura del carattere umano, un essere che passa il suo tempo cantando e bevendo, oltre che facendo scherzi pericolosi ai danni del prossimo. Froud ed Henson ne riprendono il ruolo di "ladro di bambini" che nella tradizione irlandese portava alla nascita dei changeling, i mostriciattoli che venivano lasciati nella culla al posto dei veri neonati, rapiti dalle creature.
I goblin rapiscono il piccolo Toby, fratellino mal voluto dalla giovane Sarah, adolescente ancora legata alla fanciullezza e poco propensa a crescere. Jareth, il re dei goblin, vuole trasformarlo uno dei suoi sudditi, in una piena rilettura delle leggende. E' dall'interazione di queste quattro forze che il significato di Labyrinth si disvela, ma la sua effettiva profondità, fatta talvolta di sfaccettature inquietanti, resta sempre tra le righe.



Sostanzialmente, quella di Sarah è la storia di una ragazza che deve fare i conti con la fine dell'infanzia. La troviamo a inizio film persa in un gioco nel quale impersona una principessa intenta ad avventurarsi nel labirinto del titolo, cercando di recitare a memoria i versi di quella che sembra essere una pièce teatrale. E questi, a loro volta, sono i tre elementi essenziali per comprenderne il personaggio e, di conseguenza, l'effettivo significato del suo viaggio.
Sarah è praticamente una giovane adulta, ma non vuole crescere. Da questo punto di vista, Jennifer Connelly si dimostra semplicemente perfetta come protagonista, non solo per come dimostri di poter portare sulle spalle l'intero film, ma anche per la sua presenza fisica: quindicenne all'epoca delle riprese, ha un corpo da giovane donna, ma un viso che ispira una dolcezza ancora infantile, ponendosi come una figura perfettamente al centro tra l'infanzia e la maturazione.
Il rifiuto di crescere si palesa nel suo rifiuto delle responsabilità, date dal dover badare al fratellino Toby. L'infante, da questo punto di vista, rappresenta il viatico verso il ruolo materno, ossia verso l'ingresso nel mondo adulto. Rifiuto che viene reso esplicito anche nei dialoghi, con la matrigna (che nella versione italiana diventa anche zia) la quale, rimproverandola, afferma di stupirsi del fatto che alla sua età non frequenti dei ragazzi. 
Sarah, in buona sostanza, si aliena dalla realtà perché non vuole accettare i cambiamenti propri della maturazione, preferendo continuare a vivere in un mondo tutto suo, un mondo innocente e puro. Il quale viene trasformato in un incubo dall'ingresso di Jareth.



Figura volutamente ambigua, quella del re dei goblin. Jareth rappresenta un antagonista, ma anche un oggetto del desiderio. E', in parte, il desiderio sessuale, la volontà inconscia di maturazione che porta con se attrazione e paura per un mondo ignoto, tanto sfavillante quanto bizzarro, attraente e pericoloso, incarnato ovviamente dal regno dei goblin e in particolare nella bella scena del ballo, coronamento di uno dei sogni propri delle fanciulle, virato però un risvolto cupo, che a livello narrativo diventa un ostacolo nel perseguimento della quest. 
Anche qui il casting è azzeccatissimo, con David Bowie che riesce ad incarnare alla perfezione il carisma sinistro del personaggio. Va però specificato come nei concept originali di Froud, Jareth non era un adulto di bell'aspetto, ma un ragazzo poco più grande della protagonista, un ideale coetaneo pronto ad iniziarla al mondo degli adulti. Henson, viceversa, ha pensato a Bowie come interprete fin dall'inizio, dando al personaggio anche una valenza aggiuntiva.




Questo perché nella messa in scena, la regia ha celato tutta una serie di significati ulteriori ed elementi di storia che vengono narrati solo con piccoli inserti visivi. Il più palese è il ruolo di Bowie, appunto: nella stanza di Sarah è possibile vedere delle foto della madre, assente nel quadro famigliare che ci viene presentato. E' facile quindi pensare alla sua morte o quantomeno ad un suo allontanamento volontario che ha causato un trauma nella ragazza, il quale si sostanzia nel suo rifiuto della crescita; i poster di Cats e Evita fanno intendere come la genitrice fosse un'attrice teatrale, da cui la passione per la recitazione; soprattutto è possibile notare una foto che la ritrae assieme a Bowie, un suo collega o amico, o forse addirittura amante.
Jareth diventa così una sorta di figura paterna edipica surrogata, in una rilettura del complesso di Elettra, con una giovane donna che si perde nei meandri del desiderio perché affascinata da una figura paterna; l'intero film, a sua volta, diventa una metafora totalizzante sugli aspetti più oscuri maturazione e della sessualità pronta divenire forza motrice nelle passioni umani, con elementi terreni che vengono rielaborati in chiave fantastica; non per nulla, tra i libri di Sarah campeggia Il Mago di Oz e nello script di Terry Jones è ravvisabile la vicinanza a I Banditi del Tempo dell'amico Terry Gilliam, che anch'esso rielaborava il reale in modo immaginifico per dar vita al viaggio fantastico del giovane protagonista.




Il labirinto è così una sorta di "selva della ragione" causata dall'assimilazione del trauma dell'abbandono e dalla confusione ingenerata tra le pulsioni inconsce e il rifiuto delle responsabilità. Esso altro non è, appunto, che una versione iperbolica della realtà, costellata di creature inquietanti il cui comportamento appare fuori da ogni logica o, quantomeno, guidato da una logica tutta sua.
Le creature più importanti, sul piano simbolico, sono coì il nano Goggle e la gang dei Firey, il cui ruolo metaforico viene esplicitato anche nella loro canzone.
Goggle è ritratto come una persona anziana, ma non come un saggio. Un vecchio che la vita ha reso insensibile e materialista (il suo attaccamento ai gioielli), ma che l'amore casto e platonico di Sarah finisce per redimere. Un amico che, come tutti gli adulti che un adolescente incontra, può essere tanto d'aiuto quanto di intralcio, una figura tanto positiva quanto negativa, né totalmente buono, ma mai davvero cattivo, un essere umano fatto e finito, con tutti i suoi pregi, difetti e limiti.
I Firey, d'altro canto, sono l'incarnazione degli istinti più bassi in assoluto. Se il gozzovigliare dei goblin risulta anche simpatico e innocuo, quello dei Firey è invece autodistruttivo, tanto che ballano fino a farsi a pezzi. La scena a loro dedicata è in un certo senso collegata alla celebre scena del ballo in maschera: entrambe rappresentano la tentazione di una vita fatta di estremi, un'autodistruzione derivante da abusi e causata dal culto del frivolo, del soddisfacimento totalizzante degli istinti primordiali, ossia la dipendenza da endorfina (facile vedere una metafora sulla tossicodipendenza) e il culto dell'apparenza.



Al centro del labirinto, il minotauro è sostituito da una figura maschile certamente meno animalesca, ma non meno virile, pur nel suo look glam rock simile a quello della maschera Ziggy Stardust, che dona a Bowie un'estetica androgina la quale non ne sminuisce la strabordante mascolinità.
Il finale, paradossalmente, è tanto conciliante quanto spiazzante: allo scadere delle tredici ore (numero che ovviamente rappresenta l'età nella quale i primi sintomi di maturazione si verificano), Sarah scopre come Jareth di fatto non abbia poteri su di lei, salva quindi se stessa e il fratellino e si ritrova nella sua cameretta, dove i piccoli aiutanti le dicono addio; ma Henson, Froud e Jones non caratterizzano la maturazione come effettivo rifiuto dell'infanzia, quanto come una assimilazione della stessa: il ballo finale non è un semplice congedo, quanto una celebrazione di una fase della vita fase che, in piccolo, la giovane porterà per sempre con sé, poiché è stata essenziale a plasmarla come essere umano, tanto nel bene quanto nel male. 



Se il sistema simbolico ordito dagli autori è riuscito e affascinante, è persino inutile sottolineare come la forza di Labyrinth passa anche e soprattutto per l'estrema cura nell'estetica.
Il labirinto di Henson e Froud si allontana da ogni canonica rappresentazione (eccezion fatta per le geometrie escheriane del finale, immancabili) per diventare un regno fantastico irto si pericoli e personaggi strambi. La metafora di un mondo impossibile da affrontare in modo logico e coerente viene adattata tramite la sua forma mutante, con i corridoi che cambiano direzione e le aperture celate da illusioni ottiche.
Froud si diverte a caratterizzare i goblin nella maniera più assurda possibile: al bando la descrizione della tradizione, che li vede come dei semplici gnomi dalla pelle verde, qui ogni creatura sfoggia un design particolare, che a seconda dei casi può avere corna o lineamenti più o meno docili. E nel climax, con la battaglia alle porte del castello, Henson da sfogo a tutta la sua creatività in una serie di sketch slapstick demenziali irresistibili.



Cosa strana per una produzione dal grosso budget, qui gli effetti di compositing sono a tratti decisamente sciatti, appiattendo la visione. Il caso più singolare è quello della scena dei Firey, dove l'effetto del chroma key è palesemente frettoloso, arrivando persino a tagliare i contorni della fitura della Connelly, rendendo visibile la sfondo fasullo in alcune inquadrature. Così come il compositing dell'animatronico del vermino all'inizio del labirinto, dove addirittura la color correction dello sfondo è sbagliata. Cosa strana se si tiene conto che la Industrial Light and Magic di Lucas ha lavorato in parte al film, animando tra l'altro la civetta sui titoli, con un modello tridimensionale che oggi sicuramente mostra i suoi anni, ma che all'epoca era semplicemente stupefacente.



Come sempre, si tratta di difetti tecnici tutto sommato di pochissimo conto. La bellezza di Labyrinth resta in primis nella forza visionaria e in secondo luogo nella valenza metaforica, che lo rende una perfetta fiaba moderna, in grado di incantare tanto i più piccoli quanto gli adulti.

sabato 4 gennaio 2025

Nosferatu

di Robert Eggers.

con: Bill Skarsgaard, Lily Rose-Depp, Nicholas Hoult, Willem Dafoe, Aaron Taylor-Johnson, Emma Corrin, Ralph Ineson, Simon McBurney.

Horror

Usa, Regno Unito, Ungheria 2024















---CONTIENE SPOILER---

Confrontarsi con il lascito del passato non è mai cosa semplice. Confrontarsi con una delle vere e proprie opere fondative della Settima Arte quale il Nosferatu di Murnau, inutile dirlo, lo è anche di meno. In passato, l'unico che abbia osato farlo è stato Werner Herzog con il suo Nosferatu- Il Principe della Notte, memorabile remake-omaggio che riusciva con efficacia ad aggiornare il mito del conte Orlok ad una sensibilità moderna.
Centodue anni dopo l'originale e quarantacinque dopo l'exploit di Herzog tocca a Robert Eggers, un cineasta che di certo ha saputo assimilare fin nel profondo l'influenza del passato. Il suo stile, dopotutto, non è semplice postmodernismo, quanto una sorta di rievocazione delle basi più intime del cinema dell'orrore delle origini in chiave comunque moderna o, quantomeno, moderna quel tanto che basta da renderle appetibile ad un pubblico moderno.
Il confronto diretto con Murnau era quindi (quasi) d'obbligo e il buon Eggers decide di farlo a modo suo, ossia rendendo omaggio al mito tramite la sua più totale assimilazione, per ricrearlo a nuova forma e nuovo significato, pur restando fedelmente ancorato al suo spirito, sia quello filmico che quello letterario. Operazione azzardata, ma alla fin fine decisamente riuscita.



A sua detta, il motto dietro questo nuovo Nosferatu era semplicemente quello di rendere i vampiri nuovamente spaventosi. Il suo Orlok è così un nobiluomo enorme e putrescente, un essere che non ha la grazia del vampiro moderno, né la bellezza esangue e a-sessualizzata di quello post-Twlight; Orlok è un mostro fatto e finito, un rigurgito dell'Inferno la cui fisicità è spaventosa e ripugnante, per quanto altamente sessualizzata. Il che è totalmente coerente con la lettura che Eggers dà del Dracula di Stoker.
Nella sua visone, la storia di Dracula/Orlok, del suo amore per Mina Harker/Ellen Hutter e la lotta di Van Helsing/von Franz, diventano un paradigma della paura; una paura primordiale, non solo la canonica paura dell'ignoto, con una creatura mitologica che invade un mondo moderno pronto a lasciarsi alle spalle le suggestioni sovrannaturali, quanto soprattutto la paura della morte, intesa come fine ineluttabile e rivoltante di ogni bene; l'ambientazione dei primi anni del XIX secolo è così essenziale, con la scienza ancora vicina alle barbarie para-medioevali e la malattia vista come prima avvisaglia della dipartita.
Il vampiro, morto resuscitato latore di pestilenza, è così una morte inarrestabile pronta a fagocitare la vita senza motivo alcuno. Ma è anche la metafora del suo esatto opposto, ossia della pulsione sessuale, in un connubio totale di Eros e Thanatos.



Se già nella tradizione narrativa tutta il vampiro è sempre stato associato ad una sessualità vorace e incontrollabile, Eggers ne riporta la figura a quel mito che la ispirò, ossia il demone succubus/incubus, il demone della sessualità notturna, del sogno erotico, che si insinua nei letti per assorbire le energie erotiche delle vittime. 
Qui Orlok è così anche la forza sessuale, come rappresentato nel suo rapporto con Ellen. Questi altri non è che una donna la cui sessualità necessita una valvola di sfogo in un mondo che vede l'afflato sessuale ancora come qualcosa di osceno, una pulsione da reprimere perché peccaminosa e indecorosa per una donna il cui ruolo è ancora fortemente legato alla semplice e pura riproduzione; il vampiro è il desiderio sessuale che necessita appagamento, il quale si manifesta in giovane età e sparisce dopo l'unione coniugale, solo per poi tornare a manifestarsi in assenza del partner. Ha una forma mostruosa e pestilenziale proprio perché si palesa in un mondo che vede la sessualità come una passione demoniaca, come l'ingerenza di una forza diabolica del tutto contraria ai buoni costumi: per una donna del XIX secolo, il desiderio sessuale poteva solo essere fonte di vergogna e sinonimo di follia (isterismo), oltre che foriero di malattia; e la follia, il male che consuma l'uomo da dentro, come in tutti i film di Eggers (eccezion fatta praticamente per il solo The Northman) discende dal mancato appagamento sessuale e può essere distrutto solo quando tale appagamento viene totalmente raggiunto. E' anche per questo che il conte appare come una figura torreggiante, ma foriera di malattia, una infezione venerea pronta tanto a soddisfare le voglie quanto a massacrare il corpo.



Nel rapporto con Jonathan Harker/Thomas Hutter, Orlok assume invece le forme di una subordinazione materiale piuttosto che sessuale (benché la lettura sull'omosessualità non sarebbe poi tanto forzata). Orlok è il nobile, il ricco, il vertice della società capitalistica moderna perché latore di una ricchezza atavica, innata, la quale gli consente di sottomettere chiunque: obbliga Hutter a usare un titolo nobiliare per rivolgersi a lui e lo soggioga tramite un contratto, strumento tanto luciferino quanto terreno. La lotta di Hutter è quindi una battaglia per affermare la sua individualità anche solo sensuale contro il materialismo disumanizzante della modernità, la distruzione di quell'ideale del profitto ad ogni costo che lo ha portato ad allontanarsi dal talamo nuziale, a venir meno ai suoi obblighi romantici, ingenerando l'orrore.
Allo stesso modo, la vicenda assume connotati diversi se filtrata attraverso lo sguardo dell'armatore Harding e del medico Sievers: incarnano entrambi lo spirito del razionalismo post-illuminista, ma per il primo il dramma di Ellen è una semplice discesa nella pazzia poiché non è in grado di concepire una realtà ulteriore alla propria (fosse anche semplicemente quella della sessualità femminile), mentre per il secondo rappresenta la scoperta di un mondo occulto che va al di là del puro raziocinio, che si scontra con le basi della conoscenza scientifica e che lo porta a questionare i suoi metodi; i quali, agli occhi dello spettatore moderno, risultano inevitabilmente barbarici, ingenerando una sottile dose di umorismo.




Il look del conte (abilmente celato nella campagna marketing) è la dimostrazione del lavoro a metà tra tradizione e innovazione dei Eggers. Orlok sfoggia un paio di baffoni e un costume da cosacco che al cinema non si erano praticamente mai visti in produzioni serie, ma che erano parte integrante della sua persona nel romanzo di Stoker (anche se quel profilo aquilino, ripreso dal libro, appaiato all'attaccatura dei capelli sulla sola calotta posteriore finisce per ricordare il Casanova di Fellini, non si sa quanto volontariamente); ha una testa enorme e deforme come l'Orlok di Murnau ed è dolorante come quello di Herzog, ma le sue movenze non riprendono davvero nessuno dei due modelli. Tanto che neanche le inquadrature più celebri vengono rifatte: non si ha la sua famosa silhouette che si staglia sulla parete delle scale, né il suo emergere dalla poppa della nave di appestati. Anzi, se nell'impostazione dei personaggi c'è un rimando diretto che Eggers fa alla tradizione filmica di Dracula, è solo verso quello di Coppola, con quel Van Helsing pazzoide, incarnato da un Willem Dafoe magnificamente sopra le righe, che comunque viene ri-caratterizzato come un alchimista semi-ciarlatano.




A fronte di una scrittura del tutto classica, Eggers adopera uno stile di messa in scena del tutto moderno, il quale anch'esso non rinuncia ad omaggiare il passato. Omaggio che si palesa non tanto nella ovvia scelta di una palette cromatica quasi sempre smorta, ad imitare il bianco e nero della tradizione, quanto nella scelta di costruire alcune inquadrature in modo teatrale, rimando al Dracula di Todd Browning, che impostava il set come un proscenio sul quale far muovere gli attori.  A tale visione, Eggers accosta altre inquadrature decisamente dinamiche, che talvolta culminano in piccoli piani-sequenza, in una giustapposizione talmente ben eseguita da non stridere mai.
La ricostruzione scenografica vive anch'essa di giustapposizioni estreme, passando da location vere e proprie (tra cui lo stesso castello nel quale Herzog già il suo Nosferatu) e scenografie di esterni che mimano i tagli netti dell'espressionismo, dove più che quella di Murnau, è avvertibile l'influenza di Robert Weine.
Il risultato è semplicemente magnifico e restituisce un senso di eleganza certamente vecchio stile, ma sempre affascinante.



Tanto che l'unico vero rimprovero che può essere mosso al lavoro di Eggers è quello di essersi adagiato troppo sull'abuso dei jump-scare, che, pur tutto sommato ben condotti, finiscono lo stesso per appiattire in parte una visione che avrebbe retto meglio se costruita semplicemente sull'atmosfera e sulla semplice tensione.
Per il resto, questo suo Nosferatu è un'opera semplicemente magnifica.