giovedì 17 ottobre 2024

Ken il Guerriero- Il Film

Hokuto no Ken

di Toyoo Ashida.

Animazione/Fantastico/Azione/Gore

Giappone 1986



















Con un nuovo adattamento anime in arrivo, il personaggio di Ken il guerriero sembra prossimo a conoscere una seconda giovinezza a livello multimediale. Qui in Italia, d'altro canto, il mito di Hokuto no Ken non è mai davvero tramontato da quel 1987 in cui l'anime originale, datato 1984, si affacciò timidamente sulle reti locali. Quarant'anni dopo la prima trasmissione originaria in Giappone, l'Italia festeggia il compleanno del maestro della sacra scuola di Hokuto andando a restaurare e ridoppiare il primo lungometraggio dedicatogli, datato 1986 e diretto da quel Toyoo Ashida già responsabile della regia principale della serie. E non c'è davvero modo migliore per godersi questo magnifico guilty pleasure.

















Perché il primo film di Hokuto no Ken può solo essere considerato un guilty pleasure, stretto com'è tra una narrazione claudicante e un'animazione a dir poco sbalorditiva, perfetto esponente di quella generazione di anime il cui budget stratosferico sopperiva sovente ad una sceneggiatura mediocre, talvolta scritta in fretta e furia per avviare la produzione animata.
La volontà di condensare circa metà della storia della prima parte del manga, che va dall'inizio della saga di Shin alla morte di Rey la Stella del Dovere di Nanto, e il conseguente primo scontro tra Ken e Raoh, è un'operazione ardita: troppi personaggi, troppi scontri, troppi eventi da condensare in meno di due ore, troppo poco tempo persino per un semplice battle shonen, tanto che la stessa porzione di storia aveva richiesto circa 49 episodi nella trasposizione televisiva. L'operazione di sintesi finisce così per funzionare sotto certi aspetti, ma ovviamente per non funzionare sotto molti altri.
Paga sicuramente il fatto di aver fuso il primo story-arc, con lo scontro con Shin, assieme a quella che sarebbe diventata solo a posteriori la storia portante del manga, ossia la crociata di conquista di Raoh e le lotte di Ken contro di lui e Jagi. La narrazione è così più compatta rispetto a quanto visto nel manga e nell'adattamento televisivo, opera di uno sceneggiatore che sapeva dove la storia sarebbe andata a parare, cosa che ovviamente Buronson non poteva sapere quando ha iniziato a scrivere le avventure di Ken nel 1983.






















Dove la sceneggiatura arranca è principalmente (ma non solo) nella progressione degli eventi, che si susseguono in modo praticamente meccanico. Non è dato sapere come Kenshiro capisca immediatamente che il fantomatico "uomo dalle sette cicatrici" che guida le orde di predoni sia in realtà Jagi, né come lui e Rey capiscano subito dove cercarlo, tantomeno come la piccola Lynn possa riconoscere Yuria senza averla mai vista; alcuni personaggi, paradossalmente, entrano in scena per poi sparire nel nulla, come Airy, la sorella di Rey il cui salvataggio ne motiva l'esistenza, o la stessa Yuria, che alla fine dell'ultimo atto svanisce nel nulla costringendo Ken a riprendere il suo vagabondaggio. A mancare del tutto all'appello è poi il personaggio di Toki, la cui presenza avrebbe dato un respiro più ampio alla storia. 





















Quanto poi alla caratterizzazione di Raoh, questa è quella che soffre di più dall'opera di sintesi effettuata. Venuto meno il suo rapporto con il fratello Toki, che ne metteva in luce il lato più umano, il Re del Pugno è così un semplice demone dall'ambizione infinita, il quale non ha più nessun briciolo di umanità; il suo scontro con Ken diventa semplicemente quello del male assoluto contro il bene assoluto, oltre che una labilissima metafora sull'annichilimento nucleare; certo, quel finale in cui la dolcezza di Lynn riesce a placarlo fa presagire come possa esserci qualcosa di più sotto il suo cipiglio ferreo, ma il fatto che non sia mai stato prodotto un vero seguito ufficiale a questa prima incarnazione cinematografica lascia tutto in sospeso e quella risoluzione appare così motivata solo dalla convenienza dovuta al trovare un modo di interrompere lo scontro fratricida. Il paradosso è che tutti questi difetti si sarebbero potuti evitare semplicemente allungando di poco la durata di tutto il lungometraggio. 
Tuttavia, se c'è un altro merito che va riconosciuto a questo adattamento, risiede nella sua capacità di trasformare il tutto in una metafora ecologista tutto sommato simpatica, dove la lotta per resuscitare una natura distrutta dall'orrore della guerra è certamente più riuscita della metafora nucleare.





















D'altro canto, sul piano stilistico-estetico il primo film di Hokuto no Ken è ancora oggi semplicemente ottimo. La parte del leone la fanno le animazioni fluide e curate, che restituiscono alla perfezione i movimenti dei personaggi e la velocità degli scontri, così come l'estrema ferocia del kenpo di Hokuto e Nanto: non più limitati dalle pastoie della censura televisiva, gli animatori si sono sbizzarriti a caricare di tutto lo splatter possibile le scene di lotta, con corpi che esplodono in geyser di sangue, budella che saltano in aria, teste che si gonfiano come palloni e persino un teschio che schizza fuori dalla faccia, tanto che a risaltare qui non è tanto l'influenza che Mad Max 2 ha avuto su Buronson e Hara, quanto quella primigenea del Violence Jack di Go Nagai; un'inventiva gore che fa il paio con una dovizia di particolari che leggenda vuole sia stata ottenuta grazie al fatto che i disegnatori abbiano usato come riferimento dei manuali di anatomia umana, quando si dice amare il proprio lavoro...





















La regia di Toyoo Ashida a tratti stupisce anch'essa per l'inventiva, soprattutto per l'uso del montaggio, nel quale usa inserti quasi subliminali per enfatizzare meglio le scene. La linearità e la piattezza viste nel precedente adattamento di Vampire Hunter D per fortuna sono lontane e qui non lesina soluzioni spettacolari per le sequenze di lotta, anche se l'aver risolto lo scontro tra Rey e Raoh come un videoclip è sicuramente una trovata che oggi mostra prepotentemente il peso degli anni (ma a quanto pare nello script originale, in parte anche animato, la progressione del combattimento fosse data da un dialogo su come Roah sapesse usare la propria aura combattiva come arma, poi semplificato forse per motivi di tempistiche produttive).
Vincente è anche la trovata di alternare le immagini del mondo pre-olocausto al setting post-apocalittico: le scene nelle quali l'orrore della guerra si manifesta sono orrorifiche e spiazzanti, degne visioni di un'animazione nipponica post- Gen di Hiroshima, che poco prima aveva usato soluzioni simili per ritrarre il vero bombardamento nucleare.
Semplicemente magnifico è poi il modo in cui il character designer Masami Suda qui riesce a restituire lo splendido tratto di Tetsuo Hara: il dettaglio dei personaggi e la loro espressività solo sbalorditivi e ancora oggi ineguagliati.


















Dinanzi a cotanta magnificenza estetica, è proprio il caso di dire che il progresso tecnologico non è riuscito a sostituire la genuina bellezza che l'animazione classica riusciva a creare quando supportata da un budget adeguato. E questo lungometraggio, pur nella sua natura puramente celebrativa del manga originale, ancora oggi lo dimostra perfettamente.

mercoledì 16 ottobre 2024

Porno Holocaust

di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Mark Shannon, Dirce Funari, Annj Goren, Lucia Ramirez, Ennio Michettoni, George Du Brien.

Pornografico

Italia 1981
















Si può davvero riconoscere un valore a Porno Holocaust? Si intende ovviamente un valore che vada al di là del semplice sollazzo derivante dal guardare un porno. Perché, sebbene spesso spacciato per il contrario, questo exploit di Joe D'Amato non è un horror splatter con inserti hardcore, bensì un semplice film hard con un paio di timidi inserti splatter.
Una forma di valore forse questo bizzarro pornofilm ce l'ha davvero, anche oltre il suo status di cult movie, che non si capisce davvero perché abbia ottenuto, forse per il solo fatto di essere l'ennesimo frutto della collaborazione tra Joe DAmato e George Eastman. E Porno Holocaust incapsula perfettamente tutta la filosofia filmica di D'Amato: è un prodotto rigorosamente alimentare, derivativo in tutto e per tutto, per certi versi sciatto oltre i limiti di sopportazione e che spesso scade nel ridicolo involontario.
Un brutto film? Assolutamente si. Un brutto film divertente stile Troll 2? Solo se si è in cerca di un film a luci rosse. Un film interessante? Questo si, ma solo se posto all''interno della filmografia di Massaccesi e Eastman.



La trama, ovviamente, è puramente pretestuosa: un gruppo di scienziati si reca su di un isola dei tropici dove anni prima ci sono stati degli esperimenti nucleari e sulla quale sembrano siano comparsi degli animali più grandi del normale. Giunti lì saranno tutti vittime, in un modo o nell'altro, di un essere animalesco, una sorta di gigante mutato dalle radiazioni e in cerca di sangue e sesso.
Una storiella simpatica nel suo essere del tutto figlia di influenze e intuizioni altrui: c'è l'esotismo di quella Emanuelle che D'Amato già saccheggiava da anni, c'è l'eco del cinema cannibale di Umberto Lenzi e Ruggero Deodato e c'è l'eco di tanta fantascienza americana di serie B anni '50, con gli animali mutati dalle radiazioni delle bombe atomiche.



















Più impellente dell'avvelenamento da radiazioni c'è la lussuria delle protagoniste, due scienziate e una contessa che non perdono occasione per lasciarsi andare in amplessi sia etero che saffici, tutti ripresi da D'Amato senza inibizioni e senza voler celare la vera natura di tutta l'operazione, tanto che la presenza di George Eastman appare sempre fuori luogo, come nella sequenza nella quale Mark Shannon e Annj Goren si danno da fare sotto il suo sguardo e lui schifato se ne va via, forse perché il vero Eastman solo in quel momento ha realizzato in cosa si era cacciato. Certo, la sceneggiatura porta il suo nome, ma a vedere come sono state montate le sequenze è facile pensare ad un raggiro subito ad opera del buon Massaccesi, che lo ha convinto a prendere parte ad un porno facendoli credere che si trattasse dell'ennesimo festival gore a buon mercato. Tanto che la violenza appare solo di rado, il vero focus di tutto è dato dalle scene hard, con esiti talvolta ilari, come quando l'immagine del pescatore fatto a pezzi viene giustapposta all'amplesso lesbo della Goren con Dirce Funari o in quel finale dove Shannon e Liza Martinez ci danno dentro su di una barca dopo essere sfuggiti a stento dalla furia del mostro.


Un mostro che da solo ha garantito la notorietà al film, sorta di cugino dominicano di Antropophagus che preferisce usare il membro per uccidere le malcapitate. E la scena dove lo usa per soffocare la Funari è davvero un esempio di cinema trash cult come se ne sono davvero visti pochi.
Questo è in fondo il vero valore di tutto il film, ossia quello di un divertissement trash che schiferà i palati buoni ma che farà la festa del movie-junker vista la sua irrefrenabile carica da film di serie Z. Oltre che a rappresentare, appunto, tutto il cinema di Joe D'Amato in neanche due ore di durata.

lunedì 14 ottobre 2024

Salem's Lot

di Gary Dauberman.

con: Lewis Pullman, Mckenzie Leigh, Pilou Asbæk, Alfre Woodard, Jordan Preston Carter, Bill Camp, William Sadler, John Benjamin Hickey, Danielle Perry.

Horror

Usa 2024














---CONTIENE SPOILER---

Questa nuova incarnazione del celebre romanzo di Stephen King rischiava davvero di finire nell'oblio dei film prodotti e mai distribuiti dalla Warner, come nei famigerati casi  di Batgirl e Coyote vs. Acme; cosa strana, tra l'altro, se si tiene conto della popolarità che il nome dell'autore di solito porta e la conseguente facile vendibilità dei prodotti a lui associati. Fatto sta che se non fosse stato per King in persona, che ha fatto fortissime pressioni affinché questo nuovo Salem's Lot arrivasse almeno su HBO Max, il pubblico non avrebbe mai potuto visionare il lungometraggio diretto da Gary Dauberman (già regista di Annabelle 3 e membro della factory di James Wan, qui tra i produttori) che tenta di racchiudere in neanche due ore una delle sue opere più dense. A fine visione, però, si capisce perfettamente il perché i produttori avessero cercato di seppellire il tutto.


Vien da chiedersi per prima cosa il perché si sia proprio voluto produrre un terzo adattamento ufficiale di Le Notti di Salem quando giusto qualche anno fa Mike Flanagan ha regalato al pubblico quel Midnight Mass che, pur non essendo un adattamento ufficiale del romanzo di King, ne era una perfetta trasposizione.  Il motivo è ovviamente economico e si è rivelato fallimentare, anche perché del romanzo di base a Gary Dauberman sembra non importare proprio nulla, tanto che questa sua trasposizione è più un omaggio cinefilo al cinema horror americano anni '70 in generale, che però non ha né la grazia, né la profondità intellettuale necessaria a rendere il tutto interessante.
Su tutto vige l'alone del vintagexploitation spicciolo, con quei colori smorti a minare la pellicola d'epoca, il setting di fine anni '70 tenuto solo per dare un look più particolare al tutto e un uso della fotografia talmente tronfio nella sua costante ricerca di una soluzione esteticamente appagante da sfociare nel pacchiano in quasi ogni scena, tanto che a tratti sembra di vedere una sorta di prequel di Renfield.



Grossolonità che ben si accoppia con il senso di ridicolo involontario che spesso fa capolino, dovuto alla totale incapacità di Dauberman di costruire personaggi credibili anche come semplici esseri umani. Non si può davvero prendere sul serio quel Mike Petrie, ragazzino di undici anni, che non solo non fa una piega quando il suo vecchio amico morto gli riappare come vampiro, ma che riesce ad ammazzare uno Straker grande e grosso praticamente con due colpi di mazza, solo per diventare subito un novello Blade grazie alla forza della passione per l'horror, intraprendendo una crociata contro i vampiri con una strafottenza che neanche i fratelli Ranocchio di Ragazzi Perduti, al punto che sembra davvero il personaggio di una commedia horror anni '80 trapiantato per sbaglio in un film che si prende invece sul serio. Allo stesso modo, non si riesce a credere allo scrittore Ben Mears che di punto in bianco inizia a piantare paletti nel cuore al vampiro di turno come se fosse la cosa più semplice del mondo. E non si riesce alla performance di Alfre Woodard nei panni del dottor Cody (qui donna perché si), la quale tratteggia questo medico di provincia che si ritrova in un racconto dell'orrore come se fosse la protagonista di una sit-com sugli stereotipi razziali americani.
Ridicolo che si affaccia anche in modo più sottile nella costruzione generale della storia.



















La trama originaria viene scompaginata, ma alcuni dei suoi elementi essenziali vengono mantenuti sul piano formale, con esiti a dir poco strambi. L'intera storia di villa Marston, essenziale per l'introduzione dell'elemento sovrannaturale, viene non solo riscritta, ma anche messa subito da parte: Marston non era che un servo di Barlow, indi per cui il vampiro ha scelto proprio Jerusalem's Lot per il suo nido, dettaglio che lega piuttosto male i due fenomeni, soprattutto quando si decide di ambientare il climax non nella villa, ma in un drive-in; per di più tutto il discorso su come quella villa abbia assorbito il male che ha ospitato, motivo per il quale il vampiro si è sentito attirato dalla cittadina, viene taciuto, per questo quando il fenomeno dei vampiri comincia a manifestarsi ai personaggi, la loro reazione estremamente seriosa risulta fuori luogo, generando nuovamente risate involontarie visto che di punto in bianco si prendono assolutamente fondati i discorsi di Burke su come alcuni dei cittadini si stiano trasformando in creature della notte. Tutta la progressione narrativa non funziona, lasciando ogni forma di sospensione dell'incredulità e di coinvolgimento fuori dalla finestra assieme ai vampiri.

















L'impressione che a Dauberman e soci del libro importasse poco e nulla risalta proprio quando si guarda al look dei succhiasangue, i quali sono praticamente gli stessi della miniserie di Hooper: Barlow torna a sfoggiare il look a là conte Orlok, così come i bambini-vampiro hanno nuovamente un sorriso blasfemo e si muovono accompagnati da coltri di nebbia. Ma, lungi dal restituire l'impressione di riproposizioni affettuose, queste riprese di un lavoro altrui finiscono per denotare più che altro una mancanza di creatività.
Cosa che si avverte, tornando allo script, quando si tratta di adattare le sottotrame del romanzo originale; certo, condensare tutte le relazioni da soap-opera in neanche due ore era impossibile, più agevole sarebbe stato sfrondarne alcune in favore di altre e riadattare tutta la trama in modo da  agevolmente in una durata da lungometraggio, cosa che in parte è stata anche fatta; spesso si ha però la sensazione che molte scene siano rimaste tagliate dal montaggio definitivo, con personaggi che entrano in scena per poi essere dimenticati (Tibbits e la sua gelosia verso Ben Mears o il bullo della scuola che perseguita Mike) e l'intera sottotrama della madre di Susan che diventa l'accolita principale di Barlow perché non sopporta la relazione della figlia con Mears, talmente forzata da rasentare, anche qui, il ridicolo involontario.





















Era davvero da tempo che non si vedeva un lavoro così sciatto eppure così estremamente convinto del proprio valore, nel cinema horror americano. Questo nuovo Salem's Lot avrebbe avuto motivo di esistere solo se fosse stata una miniserie che avrebbe trasposto in modo integrale il romanzo, andando oltre quanto fatto da Flanagan e Hooper. Così com'è, non vale le sue due ore di durata. Tanto vale rispolverare il dvd della miniserie del 1979.


venerdì 11 ottobre 2024

Brain Damage (La Maledizione di Elmer)

Brain Damage

di Frank Henenlotter.

con: Rick Herbst, Jennifer Lowry, Gordon MacDonald, Theo Barnes, Lucille Saint-Peter, Beverly Bonner.

Horror

Usa 1988


















Basket Case trasformò in poco tempo Frank Henenlotter in una vera e propria leggenda del cinema underground newyorkese, ma questo suo status non si tradusse in una automatica facilità nel recuperare i fondi necessari per le sue produzioni. Difatti, già a metà degli anni '80 iniziò un circolo vizioso nel quale ogni sua sceneggiatura veniva cassata per un motivo o per l'altro, tra le quali la più celebre resta Insect City, storia di un'invasione di scarafaggi giganti in quel di Manhattan.
Bisogna quindi aspettare la fine del decennio per ritrovare una sua opera in sala e quando questa arriva, nelle forme di Brain Damage, di certo non delude.



















Come Basket Case, anche Brain Damage è la storia del rapporto tossico tra un ragazzo e una creatura mostruosa (similitudine non casuale, visto anche il simpatico cameo di Duane verso la fine); ma a differenza dell'esordio, Henenlotter non declina questa opera seconda come un dramma, quanto un racconto fantastico virato al grottesco con finalità metaforiche; metafora facilmente intuibile dalla trama: il giovane Brian (Rick Hearst) vive un'esistenza tranquilla assieme al fratello Mike (Gordon MacDonald) e alla fidanzata Barbara (Jennifer Lowry); esistenza che viene sconvolta dall'arrivo improvviso di Elmer, parassita senziente con il quale intreccia una simbiosi particolare: lo scambio di un fluido stimolante di colore azzurro, che gli inietta direttamente nel cervello, contro la possibilità di nutrirsi di cervelli; ovverosia, la più semplice rappresentazione figurata della tossicodipendenza che ci possa essere.



















Anche sul piano visivo, Henenlotter sembra voler portare in scena quel famoso spot americano su come la droga "frigge" il cervello: innumerevoli sono i dettagli della materia cerebrale che sfrigola al contatto con il liquido blu secerno dal parassita. La sua mano è qui pesante fino ai limiti del pedante, ma non bisogna stupirsene, né lamentarsene: egli stesso ha più volte ammesso come lo script sia nato come catarsi verso la sua dipendenza da cocaina, la quale lo ha portato a riflettere sugli effetti che la tossicodipendenza vera e propria finisce per avere soprattutto sui giovani. Il periodo in cui film viene prodotto è poi essenziale, ossia quegli anni '80 dove, come mai prima, il problema della tossicodipendenza giovanile diventa di pubblico dominio.



















Come metafora, Brain Damage funziona dannatamente bene, ritraendo a dovere tutti gli stadi della tossicodipendenza e della successiva astinenza. Si parte ovviamente dall'euforia data dallo squilibrio chimico che la dose porta al cervello, con le belle visioni psichedeliche che arricchiscono un comparto visivo quanto mai curato; si arriva subito alla dipendenza, con la vita del giovane Brian che viene letteralmente mutata dall'ossessione verso il narcotico, enfatizzata dal bell'uso della luce blu per gli ambienti; si arriva alla crisi di astinenza, al body horror conseguente alla mancanza della tossina della quale i tessuti non riescono a fare a meno.
Quest'ultima fase è il cuore dell'intero film, con l'intera sequenza dell'hotel a fare da perno a tutta la metafora, dove troviamo un Brian che perde progressivamente la sanità mentale in contemporanea ad un decadimento fisico inarrestabile. E se il tutto funziona, lo si deve anche al "cattivo" del film, il parassita Elmer.



















Un mostro preistorico, in precedenza conosciuto come Aylmer, Elmer vive grazie alla voce suadente di John Zacherle (famoso conduttore televisivo di un noto contenitore horror degli anni '50 e '60), la voce di un amico carismatico che seduce la propria vittima prima che renderla schiava. Ma la cui forma finisce ovviamente per disvelarne la natura sinistra; una forma che non è tanto mostruosa, quanto grottesca, costituita da elementi dissonanti che accostati che finiscono per funzionare: in parte fallo, in parte escremento, in parte cervello e con un paio di occhi da cartone animato, Elmer è un essere ripugnante eppure simpatico, credibile come simbionte pronto a distruggere la propria preda, ma anche come essere in grado di convincere il proprio ospite a lasciargli commettere gli omicidi necessari a saziare la propria fame di cervelli (che sia stato proprio lui l'ispirazione per i fumetti Marvel?).
La perfetta riuscita dell'impianto metaforico non deve però trarre in inganno: Brain Damage è anche un excursus in un cinema di serie B il quale vuole anche divertire.

























Se in Basket Case il lato più genuinamente ludico si amalgamava piuttosto male con il tono serioso (con le scene delle uccisioni che risultavano fuori luogo), in Brain Damage l'elemento grottesco è amalgamato decisamente meglio con la narrazione, ma è anche più marcato. Il perfetto esempio di una tale ibridazione è la celebre sequenza della fellatio letale, squisito mix di orrore splatter e ironia grottesca, la quale potrebbe essere il parto della mente di un Lloyd Kaufaman se non fosse messa all'interno di una narrazione che non vuole essere intrattenimento di grana grossa puro e semplice.
La mano di Henenlotter è più sicura anche nella messa in scena in scena: complice un budget decisamente più elevato, può ricostruire parte degli interni in un set vero e proprio e trovare soluzioni visive decisamente più interessanti.
Gli effetti speciali pratici trovano l'ovvio limite di un intento fin troppo ambizioso: l'animatronico di Elmer è vistosamente finto, ma anche con un budget da blockbuster hollywoodiano sarebbe stato difficile fare di meglio, all'epoca. Di ottima caratura, invece, sono gli effetti di trucco, perfetti nel ritrarre il deperimento fisico dovuto alla crisi di astinenza.














Brain Damage funziona così sia sul piano del puro divertimento che su quello più "intellettuale" di testimonianza sulla tossicodipendenza. Un'opera seconda visionaria che conferma in pieno le doti del suo autore.

giovedì 10 ottobre 2024

Nel Nome del Padre

di Marco Bellocchio.

con: Renato Scarpa, Yves Beneyton, Lou Castel, Piero Vida, Aldo Sassi, Laura Betti, Marco Romizi, Amerigo Alberani, Gérard Boucaron, Edoardo Torricella, Tino Maestroni.

Italia 1972















Nella disanima delle istituzioni nazionali che Marco Bellocchio ha portato avanti sin da inizio carriera non poteva di certo mancare quella contro la Chiesa cattolica, la quale arriva nel 1972, dopo che a cadere sotto i colpi del suo sguardo accusatorio sono stati la famiglia e il partito politico.
Pur tuttavia, Nel Nome del Padre non è semplicemente un ritratto al vetriolo di vizi e difetti dell'istituzione ecclesiastica e dei suoi rappresentanti, quanto una riflessione catastrofica su come la mancanza di valori possa finire per annichilire la società intera e non solo quell'istituto che invece dovrebbe guidarla verso la salvezza e la prosperità. Configurandosi, di conseguenza, come un'opera tanto acida e veritiera quanto profetica.


















Anno scolastico 1958/59. In un collegio ecclesiastico, gli equilibri già precari vengono scossi dall'arrivo dell'insofferente Transeunti (Yves Beneyton), le cui idee e ideali si scontrano con la realtà della gestione da parte dei preti, in particolare con quelli del vicerettore don Corazza (Renato Scarpa).
A leggere questo spunto di trama, utile solo a dare il via ad una narrazione tipicamente descrittiva, si potrebbe pensare all'opera di Bellocchio come ad una sorta di Teorema dove il collegio prende il posto della villa borghese e con il neoarrivato che scopre il marciume dietro i rapporti idilliaci dietro una realtà consolidata; un'opera dirompente rivolta a smascherare l'ipocrisia imperante, con afflato tipicamente sessantottino, insomma; e si sarebbe terribilmente in errore.
Per evitare ogni forma di inesattezza interpretativa, va specificato come Bellocchio abbia ritratto i moti sessantottini con Il Popolo Calabrese ha rialzato la Testa e Viva il primo maggio rosso e proletario, con i quali ritraeva le proteste con occhio quasi complice. Qui, tuttavia, l'elemento di disturbo non incarna quei valori progressisti che si cercava di affermare in quegli anni, anzi, esso è in tutto e per tutto un nazista, una creatura nata dalla disillusione e l'insofferenza verso una società che ritiene incapace perché inferiore e che cerca di riformare dal basso di un senso di superiorità dettato dall'ignoranza; da cui anche la scelta come interprete del francese Yves Beneyton, i cui lineamenti sono tipicamente teutonici. 
Nella struttura drammaturgica elaborata da Bellocchio (che anche qui scrive tutto di suo solo pugno), gli alunni rappresentano la futura classe dirigente, gli inservienti e camerieri (sottoproletari salvati dalla miseria e da una società che li ha lasciati a sé stessi) rappresentano il popolo, mentre gli ecclesiasti non sono che i rappresentanti dell'istituzione, sia essa religiosa che civile.

















L'inquadratura iniziale, con la macchina da presa che si muove tra i corridoi in rovina del collegio con in sottofondo un canto di penitenza, è chiara: la società è al collasso. A prenderne le redini è un pugno di imbelli incompetenti che non è in grado di fare niente e non ha rispetto per nulla, rappresentazione di una classe dirigente (gli alunni sono tutti "figli di", quindi prossimi al loro debutto in società) che non ha interesse in nulla, che non recepisce alcun insegnamento, che disdegna la cultura e vive solo per deridere tutto e tutti. In questo caos creato dall'apatia generalizzata, è facile per i superbi ergersi a guida, figura carismatica in grado di far propri i malcontenti di chi sta sotto di loro. Transuenti rappresenta questa figura, il perfetto paradigma di quei dittatori del XX secolo che si sono imposti solo grazie alla loro supponenza, grazie all'acclamazione del popolo e al silenzio delle istituzioni. L'ideale (se così si può definire) che porta avanti è semplice, ossia la ricostruzione della società tramite l'eradicazione di ogni forma di superstizione, una sorta di tecnocrazia finto-illuminata dove esistono solo il positivismo e il materialismo. A fargli da sponda non è solo quella classe dirigente che vede in lui un faro, a torto o a ragione, e che a causa della propria mancanza di idee e spina dorsale è il perfetto humus per l'affermazione della dittatura totalitaria, ma anche quel popolino ignorante che si fa manipolare da chiunque ne abbia la possibilità.


















Su quest'ultimo piano sono due le figure cardine, ossia il Salvatore interpretato da Lou Castel e Tino, servo mentalmente instabile. Il primo rappresenta la parte più lucida del proletariato, quei lavoratori tanto oppressi quanto disillusi che trovano nella protesta l'unica forma di affermazione; il secondo rappresenta invece quella pasta che i leader assoluti sono in grado di riplasmare: laddove Transeunti incarna un razionalismo nazista, Tino incarna la totale assenza di ragione, una pazzia che fa rima con ignoranza colpevole, persa com'è nella venerazione di un delirio tutto proprio (lo troviamo spesso recitare come una preghiera le parole magiche di Ultimatum alla Terra, metafora di una fede in qualcosa di totalmente fantastico, persino rispetto alla religione vera e propria). E' su questa diade che si poggia l'apocalittico finale, nel quale il leader assieme alla sostanza che gli permette di affermarsi riesce a ricreare un mondo a loro immagine. Ed è qui che la visione di Bellocchio si fa profetica, visto che quella generazione che ritrae è la stessa che tempo dieci anni avrebbe cominciato a portare l'Italia tutta verso la rovina.
In tutto questo, il grande autore punta il dito forse soprattutto contro l'istituzione, appunto rea di essere ferma su posizioni del tutto inermi.


















La Chiesa, sia intesa come sfera di potere religioso quindi ideologico, sia come istituzione strettamente terrena, è ferma su posizioni vetuste e arroccata in un idealismo del tutto avulso da ogni realtà, intesa come necessità sia spirituale che ideologica delle persone. Il rapporto che questa intesse con i seguaci è perfettamente incapsulato nella scena in cui lo studente Franco cerca risposte da padre Matematicus; Franco è afflitto da dubbi anche materiali, Matematicus risponde con una vera e propria litania su come la morte è l'unica certezza nella vita, di come non bisogna curarsi di nulla, tanto alla fine si muore. La funzione di guida anche solo spirituale viene messa alla berlina in modo graffiante sul piano della scrittura usando un personaggio che idealizza il trapasso sino ai limiti della necrofilia, su quello della messa in scena facendolo sedere all'interno di una bara, ossia richiudendolo in uno spazio angusto e del tutto distaccato dal resto del mondo.
Franco, a sua volta, incarna la posizione di un aspirante intellettuale, agghindato con quegli occhiali a là Goebbels, un ragazzo che ricerca una forma di ideale, ma che trova un appiglio solo nella cattiveria di Transuenti, che lo usa per portare in scena uno stralunato teatrino provocatorio. La metafora è chiara, con il nazismo che ha fatto propri gli ideali spirituali della religione cattolica solo per usarli al fine di abbindolare le masse; tanto che proprio Transuenti indosserà quel costume da mastino infernale per accanirsi sul cadavere di Matematicus.



















La funzione di educatore viene data a padre Corazza, di nome e di fatto ultimo baluardo contro lo sfacelo; ma il suo sguardo è rabbioso e disilluso, al pari di quello di Bellocchio, un personaggio che vive grazie all'interpretazione misurata eppure penetrante di un impagabile Renato Scarpa in quello che forse è il suo ruolo più sottovalutato; Corazza è perfettamente cosciente del fallimento educativo e religioso della Chiesa e al contempo è perfettamente cosciente dell'impossibilità di inculcare qualcosa di positive in menti che si rifiutano di guardare il mondo con sguardo curioso, preferendo sbeffeggiare tutto e tutti. Ed è cosciente di come tutto questo sia il viatico per la distruzione.
Un personaggio che forse coincide con la visione di Bellocchio; qui la sua indole è iconoclasta come sempre, non lesina in immagini forti che vanno dagli sputi verso le statue sacre alla Madonna che si anima per abbracciare un adolescente che si masturba; ma la sensazione predominante è quella di impellente disfatta, non di sfida, tantomeno di goduria nel vedere i simboli associati alla DC venire demoliti ad uno ad uno.
Nelle sue stesse parole, Nel Nome del Padre è un atto di pietà universale, una visione non tanto di compromesso, quanto di commozione verso la fine di ideali e istituzioni; con annessa una rappresentazione lucida di un'apocalisse che di lì a poco prenderà forma e che ancora oggi produce i suoi aberranti frutti.

martedì 8 ottobre 2024

Rosso Sangue

 
di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Annie Belle, Charles Borromel, Edmund Purdom, Katya Berger, Kasimir Berger, Hanja Kochansky, Ted Russoff, Ian Danby.

Horror/Slasher/Gore

Italia 1981






















Il sodalizio artistico tra Aristide Massaccesi (in arte Joe D'Amato) e Luigi Montefiori (in arte George Eastman) è iniziato nel 1980 e ha subito prodotto il cultissimo Antrophagus; un anno dopo, l'affinità elettiva tra i due si ripete con Rosso Sangue, pellicola che nasce come reiterazione e quasi come un sequel di quel primo film, ma che non ha certo prodotto nessuno dei risultati sperati.
George Eastman, dal canto suo, non ha mai cercato di imbellettare tali esperienze: per lui entrambi i film non sono che divertissement fatti solo per dare al pubblico quella dose di splatter che piace e che lui non ritiene neanche dignitosa, se non che per il divertimento che ha provato nel scrivere le singole sequenze. E se in Antropophagus qualcosa di divertente si può anche trarre, Rosso Sangue è invece la quintessenza del film derivativo e privo di vero interesse.
Derivativo perché alla fine questo exploit slasher e gore altro non è se non un'imitazione dell'Halloween di Carpenter, dal quale riprende diversi elementi, condendoli poi con la solita carica di emoglobina che contraddistingue i film di D'Amato. Al di là di tutti i limiti che ne derivano, ne ha anche un altro decisamente più indigesto: la noia.



Una storiella, quella scritta da Eastman, con pochissime pretese. Il mostro di turno è un ex scienziato di origini greche arrivato in qualche modo in America (da cui il labilissimo collegamento con Antropophagus), la sua particolarità è insita nella capacità di rigenerare i propri tessuti, il che lo rende in pratica un novello Michael Myers; a piede libero e reso pazzo dalla morte scampata, inizia un massacro perché si e sulle sue tracce si mette un prete che a quanto pare ha preso parte agli esperimenti perché anche esperto in biologia, oltre che lo sceriffo locale. Il duo di detective viene presto messo da parte per lasciare spazio ad un pugno di giovani donne e un ragazzino in una casa isolata e il solo prete tornerà giusto in tempo nel finale, anche qui avvisato dal ragazzino in fuga, per cercare di risolvere la situazione con una rivoltella.


















Tutto nella norma, dunque: non c'è davvero nulla che differenzi Rosso Sangue dalle decine di slasher dell'epoca, se non il fatto che George Eastman bene o male si sforza anche qui di essere credibile come psicopatico assetato di sangue; a suo sfavore gioca però il fatto che il suo killer mostruoso non ha certo l'iconicità delle maschere del filone, tantomeno la carica archetipica del boogeyman di Carpenter, nonostante nella versione inglese sia proprio apostrofato come "the boogeyman" al pari di Michael Myers.
La regia di D'Amato, poi, è qui totalmente funzionale, non si sforza di trovare soluzioni originali o ardite, limitandosi a mettere la macchina da presa a favore degli attori come uno shooter qualunque. Con la conseguenza che anche le scene di morte, la maggior parte delle quali totalmente gratuite, finiscono per essere prive di inventiva, altro peccato capitale per un horror slasher e gore. L'unica nella quale sia lui che Eastman sembra abbiano cercato di fare qualcosa di più del dovuto è quella del forno, reminiscenza di quella simile portata in scena da Hitchcock ne Il Sipario Strappato, non di certo una delle sue opere migliori tra l'altro. Tanto che alla fine è solo l'immagine che chiude tutto il film ad essere riuscita, davvero troppo poco.


















Gli amanti del gore e dello slasher forse apprezzeranno qualcosa in questa declinazione di tutti i relativi stereotipi priva di qualunque ambizione, così come i superfan di Joe D'Amato e del suo cinema artigianale. Ma a conti fatti, questa sua fatica non lascia davvero nulla di concreto allo spettatore, nemmeno quella carica di violenza e cattiveria che normalmente renderebbe interessante anche un prodottino di routine come questo, la quale qui finisce per essere anch'essa blanda.

lunedì 7 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux

di Todd Phillips.

con: Joaquin Phoenix, Lady Gaga, Catherine Keener, Brendan Gleeson, Leigh Gill, Steve Coogan, Harry Lawtey, Ken Leung.

Musical/Drammatico

Usa 2024














---CONTIENE SPOILER---

Nel 2019, il Joker di Todd Phillips era riuscito a dimostrare come si potesse creare una storia interessante e profonda partendo da un medium prettamente infantile come il fumetto americano mainstream. Certo, le influenze scorsesiane rendevano il tutto facile, ma Phillips era comunque riuscito a raggiungere vette di acclamazione che neanche Nolan, Del Toro, Burton o Sam Raimi hanno mai avuto.
Cinque anni dopo, Folie à Deux viene presentato a quel Festival di Venezia che più di tutti aveva osannato l'originale, ma l'accoglienza è tiepida nella migliore delle ipotesi, feroce nelle altre.
A cosa è dovuta tale divisione tra le accoglienze? Tralasciando la forma musicale della messa in scena, un registro che ad oggi viene ancora associato strettamente alla commedia brillante e non va giù a molti spettatori, questo sequel ha il gravissimo difetto di non aggiungere davvero nulla all'originale, il quale in qualche aspetto viene persino riletto in modo più piatto.



















Gotham City, primi anni '80. Arthur Fleck (Phoenix) è rinchiuso nel manicomio di Arkham dopo i tumulti che ha suscitato e gli omicidi che ha commesso giusto qualche mese prima; qui passa le giornate in stato semi-catatonico, in attesa del processo che ne  accerti le responsabilità. Per puro caso, una mattina incontra Harleen "Lee" Quinzel (Lady Gaga), un'altra internata che lo porta presto a ritrovare il contatto con il mondo; ma anche con quel "lato oscuro" che tanto caos ha seminato.
















Una storia che non è una continuazione nel senso canonico della trama del primo film, quanto una sorta di secondo atto sviluppato come una pellicola a sé stante. Folie à Deux non continua davvero la storia di Fleck e di come la sua psicopatologia abbia contagiato Gotham, si limita invece a riflettere su quanto visto nel primo film e in parte a rielaborarlo, senza discostarsi di un centimetro dal passato.
Tornano così le tematiche dell'alienazione, del mostro nato come vittima di una società fredda e insensibile, dei media visti come rapaci che cannibalizzano il male in modo sensazionalistico e di quei veri pazzoidi che si sentono ispirati dal male imperante. Tutto già fatto, tutto già visto. L'impressione costante è che Phillips e soci non avessero idee su come continuare una storia che, di fatto, non aveva bisogno di ulteriori continuazioni, al massimo di una sorta di espansione anche tematica verso nuovi territori, ma abbiano accettato lo stesso di fare una fotocopia visto il successo strabordante che il primo film ha ottenuto.
















Le differenze e le aggiunte sono talmente esigue che si potrebbe davvero eliminarle del tutto e nulla cambierebbe.
In primis, si tenta di trasformare la psicopatologia di Arthur nel disordine da personalità dissociata, con l'ombra junghiana che compare sin nel simpatico prologo animato (trovata che causa una sorta di ironia involontaria quando tra i personaggi compare Harvey Dent); ma nel climax si decide di ritornare sui propri passi, ammettendo come Joker non sia un alter-ego, bensì una semplice deformazione psichica dovuta al trauma, ossia la tesi e la "morale" del primo film.
Viene praticamente riscritta la fine del personaggio di Zazie Beetz, che qui ricompare attestando come non sia stata uccisa nel primo film; trovata che davvero non aggiunge nulla di significativo e serve solo a ingenerare in modo artificiale il dubbio su cosa sia davvero successo e cosa non sia successo nel capitolo precedente. Cosa che comunque non funziona, visto che le altre vittime sono tutte accertate.
E poi ci sono gli odiati numeri musicali, unico aspetto originale (in senso lato) dell'operazione. Phoenix e ovviamente Lady Gaga sanno fare il loro lavoro e in generale la trovata di imbastirli in modo minimalista funziona, con la tematica dello show business a fare da raccordo e metafora della volontà di apparire; l'uso degli stessi è rivolto a enfatizzare le emozioni del protagonista, le sue ansie e insicurezze e il tutto viene strutturato come delle parentesi immaginarie, in modo da non andare a incidere nulla seriosità del tono generale; tanto che la giustapposizione tra musical e dramma giudiziario più che il New York, New York di Scorsese finisce per ricordare il Chicago di Rob Masrshall. Peccato che alla fine soffrano anch'essi della più totale mancanza di vera profondità, configurandosi come l'espressione esplicita di stati d'animo che sono in realtà chiarissimi fin (come sempre) dal primo film. La sensazione che ne consegue è che si sia voluto portarli in scena per evitare che la lunga durata di quello che alla fine è un dramma giudiziario puro faccia scadere il tutto nella noia più pura.






















Folie à Deux è così la quintessenza del sequel inutile. Non un brutto film, il mestiere c'è sempre, tantomeno un film stupido o imbarazzante, quanto un'operazione che mostra sin da subito la corda e che per questo non riesce a convincere.