giovedì 31 ottobre 2024

Antropophagus

di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Tisa Farrow, Serena Grandi, Saverio Vallone, Margaret Mazzantini, Mark Bodin, Bob Larson, Rubina Rei, Zora Kerova.

Slasher/Gore

Italia 1980















Nel corpo della filmografia di Aristide Massaccesi, in arte Joe D'Amato, le pellicole che hanno finito per imporsi come cult effettivi sono davvero poche e non coincidono per forza con i suoi migliori exploit. Il titolo di cult, ad esempio, non può di certo essere dato al pur buon La Morte ha sorriso all'Assassino, mentre di certo può essere dato a Buio Omega, forse il miglior esito del suo cinema di genere, così come al pessimo Porno Holocaust.
Poi c'è Antropophahus, sua prima incursione nello slasher effettuata assieme a George Eastman, al secolo Luigi Montefiori, datata 1980, la quale di certo non ha l'originalità di Buio Omega o l'indole folle e ricercata di La Morte ha sorriso all'Assassino, ma che risulta alla fine un prodotto estremamente dignitoso, al contrario di quel Rosso Sangue concepito inizialmente come suo seguito.



















Uno slasher che, come da tradizione per il cinema di D'Amato, non vuole di certo riscrivere le regole del filone, con una trama che presenta, come al solito, tutti i topoi del caso: un gruppo di amici in vacanza in Grecia, al quale si unisce anche la giovane Julie (Tisa Farrow), si ritrova suo malgrado bloccato su di un'isoletta apparentemente disabitata, sulla quale vengono braccati da un mostruoso cannibale sfregiato (George Eastman).


















L'ambientazione esotica è praticamente l'unico elemento originale e si deve più che altro all'intuizione di Eastman. Pare che tutto il progetto sia nato da un appunto di Massaccesi al quale gli abbia chiesto di mettere su le mani e che si limitava a descrivere un naufragio con una famigliola a bordo di un gommone. Eastman trasforma questa immagine nella storia di un uomo che per sopravvivere ha dovuto divorare il figlioletto e che il conseguente trauma ha reso folle; decide di ambientare la storia vera e propria in Grecia praticamente per avere una scusa per trascorrere del tempo sulle sue assolate spiagge; sfortuna poi ha voluto che poi tutte le sue pose siano state girate nei dintorni di Roma, sabotandone i piani di relax. Poco male, perché il risultato finito è uno slasher tutto sommato riuscito e a tratti davvero interessante.



















La fama del film e il suo conseguente status di cult movie sono dovuti ovviamente alla sua carica gore, che all'epoca sembrava guardare con aria di sfida gli exploit di Fulci e che oggi ha praticamente come unico rivale il Terrifier di Damien Leone, per lo meno nel cinema non relegato ai circuiti squisitamente underground. Cosa in realtà alquanta strana quando si guarda il film, visto che tutto il sangue e le eviscerazioni vengono limitate all'ultima mezz'ora e le "portate principali" agli ultimi quindici minuti, se non meno.
Da questo punto di vista, il duo Massaccesi/Montefiori non delude certo le aspettative. Le due sequenze più famose ben hanno guadagnato la loro fama: la scena nella quale Eastman strappa dal ventre di Serena Grandi un feto e lo divora a favore di macchina è davvero agghiacciante, così come quel finale nel quale divora le sue stesse viscere. Due immagini davvero peculiari, figlie della volontà di stupire e far rivoltare lo stomaco, portate in scena senza alcun ritegno o buon gusto, per questo magnificamente capaci di colpire; anche grazie ad effetti di buona caratura, cosa che certo non si può dire per quanto mostrato in altre scene, come la decapitazione del mozzo, ottenuta con la solita testa di manichino platealmente finta.
A rivederle oggi, quelle due scene di puro sadismo trasformato in pop-corn per gli appassionati del gore colpiscono anche per un motivo alquanto peculiare, ossia la loro breve durata. D'Amato, stranamente, non insiste sui particolari splatter come faceva in Buio Omega, né come avrebbe fatto il suo punto di riferimento Lucio Fulci. Non c'è volontà scopofila nel far perdurare l'atto violento oltre il voluto, non si vuole mettere a disagio per davvero lo spettatore, solo scioccarlo in modo estemporaneo. Proprio per questo, quelle due immagini finiscono per funzionare.























Di converso, il vero limite di Antopophagus è forse proprio quello di limitare gli eccessi, cosa strana per un film di D'Amato. Per tutta la prima parte si assiste ad una serie di scenette ovvie nelle quali i malcapitati tentano di capire la situazione, in pratica nulla più di quanto le decine se non centinaia di slasher dell'epoca mostravano. Parte che se finisce per funzionare, lo deve soprattutto grazie al cast, con la compianta Tisa Farrow che si dimostra un'ottima final girl e persino Serena Grandi (che si firma con uno pseudonimo) che riesce ad essere credibile, oltre che ad una giovane Margaret Mazzantini. Tutti gli attori interpretano dei personaggi certamente non memorabili, ma la cui caratterizzazione permette di affezionarvisi, garantendo quel coinvolgimento necessario affinché le loro uccisioni risultino davvero emozionanti.


















Peccato però che alla lunga finisca per fare capolino anche la noia, con una narrazione che per funzionare davvero avrebbe dovuto essere più stringata o presentare scene di vera tensione. Questo perché D'Amato si limita ad inserire giusto un omicidio nella prima parte, la cui esecuzione manda anche in parte in frantumi la sospensione dell'incredulità, con il gruppo di personaggi che non si accorge di passare acconto ad un omaccione dal volto marcescente che trascina un cadavere decapitato. Per il resto, ricerca la tensione con jump-scare anche falsi o con la sola atmosfera desolata, senza però riuscire a trovarla sempre.


















Antropophagus funziona così come horror gore nel senso proprio e genuino del termine e come slasher finisce per funzionare unicamente per il buon lavoro del cast, assistito dalla scrittura di Eastman. La sua fama è certamente meritata, così come l'amore che i fan vi riversano, rappresentato un ottimo esempio di splatter nostrano.
Quanto al lascito di Massaccesi al cinema horror e in generale di genere, va detto come il suo nome sia diventato conosciutissimo dai cultori e c'è persino che afferma come il suo cinema vada riscoperto.
Forse è un'esagerazione, visto che, anche ad essere buoni prima ancora che onesti, c'è davvero poco da riscoprire, non per altro per il fatto che le sue opere migliori sono già state oggetto di riscoperta da almeno venticinque anni a questa parte.
Semmai bisognerebbe celebrarle maggiormente, visto anche il forte riscontro che hanno conosciuto nel corso degli anni. Antropophagus, per esempio, ha avuto ben tre sequel "ufficiosi", ossia Antropophagus II del 2022, Antropophagus Legacy di quest'anno, entrambi ad opera di Dario Germani, oltre che Antropophagus 2000 del mitico Andreas Schnaas. Prova di come l'opera di D'Amato valga più di quanto si possa pensare.

Bad Biology

di Frank Henenlotter.

con: Charlee Danielson, Anthony Sneed, Remedy, R.A. The Rugged Man, Eleonore Hendricks, Tina Krause, Vickie Wiese, James Glickenhaus, Beverly Bonner

Commedia/Demenziale/Horror

Usa 2008














A partire dal 1990, la carriera di Frank Henenlotter subisce una svolta totale o quasi. Se i suoi primi due film Basket Case e Brain Damage erano sostanzialmente degli horror allegorici che utilizzavano l'estetica trash e sleazesploitation per raccontare storie fin troppo umane, l'incontro con James Glickenhaus lo porta a trasformare il suo stile in un puro gioco grottesco votato al semplice intrattenimento. Così che Frankenhooker altro non è se non una semplice commedia demenziale, mentre i due sequel di Basket Case abbandonano ogni volontà drammaturgica per abbracciare il camp spicciolo.
Cambiamento dovuto sicuramente al fattore economico. Dopotutto, i suoi film sono sempre stati apprezzati solo per la loro carica grottesca e dissacrante. Ma, forse, c'è anche altro: la pessima esperienza avuto con Basket Case 3 ha certamente rivelato la sua mancanza di ispirazione. Quando infatti Glickehaus gli ha chiesto di trovare un soggetto per un secondo sequel, ha accettato per soli motivi economici, rivelando solo in seguito come non avesse la minima idea di cosa stesse portando in scena.
Forse è per questo che fino al 2008 non ha diretto altro, ritirandosi praticamente a vita privata. 
L'occasione per un nuovo film arriva grazie all'incontro con un altro produttore, ossia R.A. The Rugged Man, anch'egli un personaggio sui generis. Rapper bianco attivo fin dai primi anni '90, entrato persino nella factory di Notorious B.I.G. e centro di un intero gruppo di altri artisti rap, si avvicina ad Henenlotter con l'idea di fargli dirigere un nuovo film e partecipa anche alla stesura dello script. Per il regista è l'occasione di tornare a dirigere, ma il risultato, ossia Bad Biology, non è certo il ritorno alla forma che in tanti speravano.


















Jennifer (Charlee Danielson) è una giovane donna afflitta da una terribile mutazione: è nata con ben sette clitoridi che la tengono in un perenne stato di sovraeccitazione. Invece Batz (Anthony Sneed) è un giovane uomo dotato di un abnorme pene mutante e senziente.
La trama è tutta qui, ossia ci sono solo due personaggi dotati di organi riproduttivi che sembrano usciti da un trip in acido di David Cronenberg. Non c'è storia, non c'è evoluzione dei personaggi, tutte le scene sono mere descrizioni della loro bizzarra situazione, le quali però non portano mai davvero a nulla.
Il paragone con il cinema di Cronenberg è d'obbligo, visto che anche Henenlotter ha sempre parlato di corpi impazziti che finiscono per fagocitare mente e spirito. E i corpi di Jennifer e Batz non sono certo da meno, ma vengono usati al solo fine di portare in scena situazioni demenziali.





















Più che al primo cinema di Henenlotter (o anche a quello post Frankenhooker), Bad Biology è vicino alla commedia horror trash che furoreggiava nella seconda metà degli anni '00. Non siamo dalle parti di un clone de La Casa 2, quanto di un prodotto nato per essere simile ad un Killer Condom o ad un One Eyed Monster; e proprio il delirante film in cui il pene di Ron Jeremy prende vita e fa stragi sembra null'altro che un'imitazione del film di Henenlotter e The Rugger Man, visto che tutta l'ultima parte è dedicata al pene di Batz che si stacca per possedere un'intera villa piena di procaci studentesse.
Il livello, dunque, è quello del goliardico spinto, reso ancora più smorto da una messa in scena da low budget di quel periodo, che fa sembrare tutta la produzione ai limiti dell'amatoriale.


















Per carità, non si può certo rimproverare a Bad Biology di non essere ciò che si vorrebbe. Il problema è semmai la mancanza di vero mordente, di una vera anima anarchica che renda tutto davvero folle, davvero irresistibile. Se già Frankenhooker soffriva di un tale difetto, qui il tutto viene acuito. Non che Henenlotter e soci non ci provino, anzi: tutto il film è costellato di sketch spinti e dialoghi scurrili e provocatori, come i monologhi con cui Jennifer rompe la quarta parete durante tutta la prima prima o il discorso su come il suo corpo mutante le sia stato donato da Dio per mettere al mondo un nuovo salvatore. Ma anche quando si cerca di sbattere in faccia allo spettatore un po' di blasfemia spicciola, tutto sembra forzato, come se regia e sceneggiatura si dovessero sforzare di essere irritanti e taglienti senza riuscirci mai davvero.


















Alla fine della fiera, bisogna essere onesti: se si rientra nel pubblico di riferimento, ossia il cultori del trash senza pretese, Bad Biology finirà certamente per piacere. Se invece si è in cerca di una commedia demenziale e grottesca davvero provocatoria, divertente e anarchica, tanto vale rivolgersi alla buona vecchia Troma.
Quanto ad Henenlotter, ad oggi questo è il suo ultimo film di fiction, tutti i suoi lavori successivi sono stati dei documentari con i quali ha portato in scena la storia della censura e del cinema exploitation americano. Opere come That's Sexploitation!, Herschell Gordon Lewis: The Godfather of Gore, Chasing Bansky e Boiled Angels sono certamente delle visioni interessanti anche oltre il loro valore di testimonianza sul passato (anche recente), ma si spera che prima o poi possa tornare a dirigere un film che riporti in auge i fasti dei suoi inizi.

mercoledì 30 ottobre 2024

La Casa Stregata di Elvira

Elvira's haunted hills

di Sam Irvin.

con: Cassandra Peterson, Richard O'Brien, Mary Scheer, Scott Atkinson, Heather Hopper, Mary Jo Smith, Jerry Jackson, Gabri Andronache, Theodor Danetti.

Commedia

Usa 2001












La fine degli anni '80 ha anche decretato la fine dello status di icona di Elvira. Poco male per Cassandra Peterson, che nel frattempo è riuscita ad ottenere il massimo dalla sua creatura. Certo, la riscoperta del suo esordio al cinema le ha garantito un'ulteriore prolungamento di fama anche nei primissimi anni '90, ma già a metà del decennio il suo personaggio era finito nel dimenticatoio.
Questo spiega perché per avere un secondo film con protagonista la prosperosa Signora delle Tenebre si è dovuto attendere addirittura il 2001, addentrandosi ulteriormente in quel periodo si stasi nel quale il personaggio non aveva ancora conosciuto il ritorno di fiamma dato dalla successiva riscoperta.
La produzione di Elvira's Haunted Hills (il titolo originale ovviamente si riferisce al seno della protagonista ed è indice del tipo di umorismo qui utilizzato) non è stata però delle più semplici: nessuno voleva finanziare il film proprio a causa dell'ormai scarsa riconoscibilità del personaggio, così che la Peterson e il suo marito e agente Mark Pierson hanno dovuto finanziare l'intero progetto di tasca propria e lo scarsissimo budget a disposizione, addirittura inferiore al milione di dollari, ha reso poi difficile la promozione del film, che ha cominciato ad essere proiettato per gli Stati Uniti solo a partire dal 2003.
Il riscontro è certamente stato meno positivo rispetto a Mistress of the Dark, persino da parte dei fan; e a film finito si capisce anche il perché: nonostante non manchino le idee e la passione, questo Haunted Hills è certamente un exploit di molto meno riuscito rispetto all'originale.



Originale nei cui confronti non si pone come un seguito, ma come una sorta di nuova storia nella quale la procace strega e showgirl si trova coinvolta. Storia questa volta ambientata tra i Carpazi di metà XIX secolo, dove Elvira e la sua serva Zuzu (Mary Jo Smith) si ritrovano catapultati nella casa stregata del nobile Vlademre Hellsubus (Richard O'Brien), vedovo che piange la dipartita della bellissima moglie, della quale ovviamente Elvira è la perfetta sosia.



Una storia il cui intento è parodizzare con affetto l'horror gotico, tanto da essere dedicata al mai troppo adorato Vincent Price, il cui look classico è anche ripreso per il personaggio del ciarlatano dottor Bradley Bradley. La mente non può che correre così al classico Frankenstein Junior, che effettuava un'operazione simile, ma il paragone risulta deleterio verso il film della Peterson, che tra l'altro lei stessa ha co-sceneggiato e che finisce per funzionare poco o niente.
Cattiva riuscita che parte dal modo in cui il personaggio viene riletto: se in Mistress of the Dark Elvira era una donna dall'indole forte e dal carattere sarcastico la quale non si faceva mettere sotto da nessuno e celava intelligenza e carattere sotto la maschera di bambola svampita, la Elvira di Haunted Hills è semplicemente una povera idiota dalla battuta pronta, il cui umore e il cui vorace appetito sessuale non sono indice di forza, emancipazione o intelligenza, solo di pura e genuina stupidità.




















L'umorismo si appiattisce così su di una serie di gag per lo più di stampo slapstick, spesso accompagnate da effetti sonori da cartoon. La presa in giro dei cliché del cinema horror gotico è priva di mordente, appiattendosi sulla semplice riproposizione in chiave caricaturale delle figure e delle situazioni più celebri. Alcune trovate sono anche simpatiche, come il personaggio dello stalliere stallone che si rivela inutile o l'ascia-pendolo che finisce per liberare Elvira anziché affettarla, ma in generale tutto il film soffre di mancanza di ispirazione riguardo agli sketch e soprattutto alle battute, che si appiattiscono da subito sull'insulto gratuito alla protagonista di facili costumi, cosa strana vista la partecipazione della Peterson alla scrittura.
A salvare la visione così ci pensa in primis il bel cast. A 49 anni circa, la Peterson è ancora bellissima e affiatatissima (dopotutto lo è anche tutt'oggi, a circa 73 anni) e riesce a reggere benissimo la scena pur se non assistita da un copione alla sua altezza. Rivedere Richard O'Brien è sempre un piacere, anche in ruoli minori come quello che qui ricopre. Mentre il compianto Scott Atkinson porta in scena una sorta di parodia di un personaggio alla Price simpatico nonostante non riesca a riprodurne la tipica parlata.
Il resto lo fa una scenografia che pur con pochi mezzi riesce davvero a restituire l'atmsofera degli horror gotici degli anni '50 e '60, nonostante gli effetti speciali da accatto.



Non si può poi che lodare l'impegno con cui tutto viene portato in scena. Sebbene tutto il film risulti sottotono, nessuno dei nomi coinvolti vi partecipa controvoglia, anzi tutti sembrano sempre credere tantissimo in quel che fanno, anche se purtroppo quel che fanno non è mai abbastanza.
Haunted Hills è così una commedia spenta che suscita simpatia e nulla più. Se si vuole scoprire il personaggio di Elvira tanto vale recuperare il solo Mistress of the Dark e relegare questo secondo exploit a pura curiosità.
Quanto alla Peterson e alla sua creatura, negli ultimi anni, complice il culto degli anni '80, sono tornati di moda, donandoli nuovo lustro. Per molti, invece, sono sempre rimasti due icone pop prima ancora che horror.

lunedì 28 ottobre 2024

Pathenope

di Paolo Sorrentino.

con: Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Gary Oldman, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Dario Alta, Peppe Lanzetta, Stefania Sandrelli.

Italia, Francia 2024

















E' davvero un caso curioso il fatto che Parthenope e Megalopolis sia usciti a ridosso uno dell'altro, sia nella distribuzione in sala che alla presentazione a Cannes 2024. Entrambi rappresentano un'opera personalissima di autori amatissimi ed entrambi sono stati accusati di essere tronfi e vuoti. Ma se il film di Coppola, alla prova dei fatti, non è davvero vuoto come si vuole lasciare intendere, quello di Sorrentino paga davvero lo scotto di tanto suo cinema o, quantomeno, di come tanto suo cinema viene percepito, ossia quello di essere qualcosa di curatissimo sul piano formale, ma del tutto inconsistente.



















Parthenope è un film sulla giovinezza e le sue maledizioni, sulla labilità della bellezza, ma è anche e soprattutto un film su Napoli, il secondo per Sorrentino dopo E' stata la mano di Dio. Parthenope, la protagonista, è Napoli, o per essere più precisi una sorta di spirito della napoletanità, il quale ritorna poi anche in molti altri dei personaggi con i quali si avvicenda.
Parthenope è una ragazza dalla bellezza quasi ultraterrena, magnificamente incarnata dalla bellissima esordiente Celeste Dalla Porta, la quale risulta a tratti perfetta, a tratti fatalmente acerba, non riuscendo a comunicare le emozioni del personaggio. 
Chi è Parthenope? Una sirena, quella sirena che secondo la leggenda ha fondato Napoli dopo essersi suicidata: nasce nelle acque di Castel Dell'Ovo, si muove per le strade della città partenopea e ne incarna vizi e virtù. Ancora più, in quanto sirena, è una ragazza il cui splendore ammalia chiunque al punto da trasmettere una sensazione di mistero; una bellezza arcana, che sembra celare più di quello che può apparire.
Ma è davvero così? Solo nel finale Sorrentino svela il mistero: l'ossessione della ragazza riguarda i misteri dell'amore, ma per tutto il film è come se quella sua mente costantemente assente non celasse in realtà nulla, come se il suo fosse un gioco di specchi utilizzato solo per elevarsi al di sopra di tutto e di tutti.














Forse Parthenope è davvero tanto bella quanto vuota. Forse quel suo celarsi dietro letture importanti in lingua non è che un modo per sbattere in faccia al prossimo il suo egoismo, forse quella ricercatezza nelle frasi ad effetto altro non è che un meccanismo di difesa utilizzato per non affrontare quei difetti che le vengono riconosciuti. Forse Parthenope è solo una bella ragazza, poi bella donna, che oltre la bellezza estetica non cela davvero nulla, se non una semplice e basilare curiosità intellettiva. E forse questa è la visione di Napoli che ha Sorrentino.
Il forse è d'obbligo, poiché l'autore intreccia con l'oggetto del racconto un rapporto fin troppo ambiguo, fin troppo ambivalente nella sua sospensione perenne tra genuina fascinazione e aperta condanna. Sorrentino forse detesta Napoli, i Napoletani e il loro stile di vita, forse depreca quella loro supponenza e quella ricercatezza sfacciata e che celano null'altro che un vuoto interiore pronto a cannibalizzare tutto e tutti, come la diva Greta Cool (sorta di parodia di una Sophia Loren finita nel fango) vomita in faccia a quella borghesia da strapazzo che la acclama con falsi rituali e falso affetto.





















Lo sguardo di Sorrentino è sempre e fin troppo sospeso. Perché, come detto, Parthenope è Napoli e come Napoli, Parthenope flirta e finisce a letto con la Camorra e con la Chiesa, tenta di imporsi come diva ma comprende la vacuità dell'ostentazione della bellezza, finendo per preferire la carriera universitaria. Ma Sorrentino non vuole giudicarla anche quando ritrae tali rituali con occhio sinistro. Basti vedere la lunga sequenza del sabba con cui le due famiglie mafiose si uniscono, ideale via di mezzo tra Salò e Eyes Wide Shut, o anche tutta la storia d'amore incestuosa.
Il suo, in sostanza, è lo sguardo di un amante fin troppo ammaliato dall'oggetto del desiderio, dal quale non riesce a trovare il giusto distacco critico. Se da anni si discute su quali differenze effettive ci siano tra lui e il suo nume tutelare Fellini, forse ora è davvero chiaro: il buon Federico sapeva guardare con occhio critico tutto e tutti, persino i personaggi di quell'Amarcord tanto amato. Sorrentino, d'altro canto, non ha raggiunto e forse neanche vuole raggiungere questa maturità artistico-umana. E la prova viene data anche dall'incredibile parata di cliché che riesce qui ad inanellare.






















A questo giro, Sorrentino non si risparmia davvero in visioni eccentriche e kitsch.
A livello narrativo, imbastisce un incesto tra la protagonista e il fratello per dare corpo alla fragilità umana e agli umori della giovinezza, ma il tutto risulta superficiale oltre che non necessario, scadendo in un cattivo gusto gratuito. Inserisce una sottotrama sul mondo dello spettacolo che sembra una scusa per portare in scena qualche situazione stramba per farsi due risate. Non si risparmia nell'ultimo atto quando porta in scena una iconoclastia del Miracolo di San Gennaro più interessata a creare scenette strambe che a comunicare l'effettiva insussistenza della cerimonia. Chiude tutto con l'immancabile omaggio alla squadra del Napoli, con una doppia sfilata attraversata dalla protagonista e con l'ultimissima immagine data da un carro in festa... senza ultras e teppisti, cosa davvero strana.
Come se tutto questo non fosse abbastanza, per tutto il film, crea una sarabanda di figure grottesche a tratti genuinamente imbarazzanti. 






















La prima a saltare all'occhio (e a far saltare i nervi) è certamente quell'apparizione di un John Cheever che è davvero il cliché semovente di uno scrittore beatnik, messo in mezzo ad una storia del genere solo per aumentarne la caratura intellettuale, ma che finisce ovviamente per farla risultare pretenziosa al pari della sua protagonista.
Si passa attraverso Greta Cool e Flora Malva, le due dive sfiorite che come da copione vivono fuori dal tempo e dallo spazio e sono anche sfregiate, oltre che amanti del sesso anale perché si.
Ci si perde nei vicoli dei bassifondi partenopei popolati da volti che sembrano usciti dalle tavole di Junji Ito e da visioni di vita famigliare che riportano alla mente tanto e troppo cinema italiano degli anni d'oro.
Si fa la conoscenza di un industriale edonista supponente e di un giovane camorrista che impenna la moto, dotato di un grugno tanto bello quanto selvatico.
Persino Parthenope appare spesso caricaturale, perennemente agghindata in abiti ricercati, addobbata con quell'immancabile sigaretta che dovrebbe sottolinearne il fascino e sempre dotata di un libro d'autore d'ordinanza che ne sancisce la superiorità intellettuale.
Si arriva alla fine a quel climax con la visione del figlio del personaggio di Silvio Orlando, via di mezzo tra il Belial di Basket Case e lo sgorbio di Bill Paxton ne La Donna Esplosiva. Cosa dovrebbe rappresentare? Un bimbo enorme "fatto di acqua e sale", forse il figlio mai nato di Parthenope, forse la sostanza stessa della vita, forse l'incarnazione di quella bruttezza che, opponendosi alla caducità della bellezza risulta per converso veritiera e genuina, forse la salvezza sua e altrui che lei ha rifiutato tramite l'aborto, non è dato sapere. A Sorrentino forse il significato non interessa davvero, solo il significante.
























Non sarebbe quindi sbagliato vedere Parthenope al pari della sua protagonista, ossia un'opera dall'eleganza sfavillante che fa credere di celare un che di profondo, quando alla fine non cela nulla.
Al pari di Celeste Dalla Porta anche il film è bello o, per essere precisi, alla costante ricerca di soluzioni estetico-visive appaganti, tanto da sfociare sovente nel patinato e nel tronfio, come nelle prime scene, tra l'altro castrate da un montaggio inspiegabilmente alacre che non lascia il tempo alle singole inquadrature di respirare a dovere, tanto che a tratti sembra di assistere ad una serie di spot pubblicitari d'autore. Non per nulla, produce Yves Saint Laurent e non ci sarebbe da stupirsi se tra qualche anno gli spot della griffe riprendessero quelle immagini inziali, con attori bellissimi in costumi d'epoca talmente sgargianti che sembrano appena usciti dalla fabbrica e che si muovono al ralenty in una città pulitissima e sempre assolata.




















Parthenope alla fine è questo, ossia una pura visione di bellezza pura e semplice che vuole far credere di essere più di quello che effettivamente è. Sorrentino, da questo punto di vista, ha creato un'opera straordinariamente compatta e che sarebbe onesta se non tirasse in ballo la tematica della natura prettamente temporanea del bello. Ma anche ineluttabilmente pretenziosa quando rifiuta ogni forma di effettivo significato e decide di perdersi in una aurea indecisione compiaciuta. Tanto che, come omaggio alla città partenopea, forse funzionava maggiormente la prosa intimista di E' stata la mano di Dio.

venerdì 25 ottobre 2024

Buio Omega

di Joe D'Amato.

con: Kieran Carter, Cinzia Monreale, Franca Stoppi, Sam Modesto, Anna Cardini, Lucio D'Elia, Mario Pezzin.

Italia 1979


















Quando si parla di Joe D'Amato, la mente non può che correre alle decine di exploit hard che ha diretto e prodotto nel corso di tre decenni. Ma se ci si riferisce a lui come autore di film di genere, in particolare di pellicole horror, la mente non può che giungere immediatamente ad un titolo diventato famoso anche presso chi di horror magari ne mastica poco o niente, ossia Buio Omega.
Un film che in realtà si discosta platealmente dalla tradizione orrorifica dell'epoca, sia quella nostrana fatta ancora di "giallo movies" a là Dario Argento, che quella più fantastica di stampo baviano: non ci sono serial killer dai guanti neri, né streghe vendicative, tantomeno zombi affamati di carne umana, benché non manchi il cannibalismo. La storia di Buio Omega è in realtà più ricercata, caso strano nell'ambito della filmografia di Massaccesi, che ha sempre fatto della derivatività il suo cavallo di battaglia; non che le influenze anche importanti manchino, tutt'altro, potendosi benissimo ascoltare l'eco di Hitchcock e dei suoi Rebecca- La Prima Moglie e l'immortale La Donna che visse due volte, ma anche quel L'Orribile Segreto del dottor Hichcock di Riccardo Freda che per primo si rifece ai classici per portare in scena una morbosa storia d'amore coniugale.
Quello che il buon Massaccesi fa qui è semplicemente quello che ogni vero filmmaker fa, ossia rielaborare le influenze altrui per creare qualcosa dotato di una propria personalità; cosa che, per una volta, gli riesce davvero.




In un paesino dell'Alto Adige, il giovane Frank (Kieran Carter), appassionato di tassidermia, ha da poco sepolto la giovane e bellissima moglie Anna (Cinzia Monreale). Incapace di dire addio all'amata, decide di trafugarne il cadavere e imbalsamarlo, così da tenerlo ancora nel talamo nuziale. Situazione precaria complicata dalla presenza di Iris (Franca Stoppi), sinistra governante perdutamente innamorata del giovane vedovo.


















La trama è quella di un dramma d'amore virato all'orrore puro, quello più terreno, dato dalla devianza rivoltante di una mente a pezzi, la quale porta alla necrofilia e all'omicidio. Un soggetto che Massaccesi riprende sia da Freda che da quel Il Terzo Occhio, dimenticato thriller con venature necrofile interpretato da Franco Nero nel 1966. Non per nulla, anche Buio Omega porta la firma di Mino Guerrini, che aveva già diretto quel deviato horror gotico.
Massaccesi ovviamente carica lo stesso soggetto con tutto il sesso e la violenza possibile e Buio Omega diventa automaticamente una sorta di storia d'amore fatta di budella eviscerate, un racconto della gelosia incasellato in mezzo a corpi fatti a pezzi a suon di mannaia, il ritratto di una mente folle immerso in una pozza di carne putrescente; in poche parole, un'ideale via di mezzo tra l'exploitation più viscerale e una rielaborazione in abiti moderni delle storie del terrore di stampo vittoriano.














All''interno di un classico intreccio che potrebbe figurare benissimo in una produzione Hammer del decennio precedente, Massacesi aggiunge poi un paio di ossessioni tipiche del cinema nostrano anni '70 e del suo stesso cinema.
La prima è data dalla tematica dell'incesto, che si affaccia in modo esplicito solo in una scena per poi restare tra le righe per tutto il film. L'amore sempiterno di Frank per Anna altro non è se non la sublimazione di quello mai consumato per la madre, della quale la donna è una perfetta sosia. Il personaggio di Iris diventa così doppio oscuro non solo della angelica moglie, ma anche della madre, data la differenza di età tra i due. Il legame anch'esso morboso che li unisce è anche qui quello tra un figlio e una madre virato alla devianza più genuina, come esplicitato nella scena in cui lei lo allatta al seno per sedurlo e calmarlo.
La seconda è data dal cannibalismo, che D'Amato inserisce come riferimento a quel filone che aveva ampiamente saccheggiato in quegli anni e che prende le forme dei morsi che sovente Frank infligge alle sue vittime, a sottolinearne lo stato di devianza irrecuperabile, non tanto quella di un amante folle, quanto quello di un vero e proprio psicopatico ossessionato.


















A decretare la riuscita del racconto è in primo luogo l'azzeccatissimo cast. Kieran Carter funziona certamente per la sua bellezza glaciale, ma soprattutto per la sua inespressività, che lo rende una maschera fredda e immobile persa nella contemplazione di un amore perduto. Franca Stoppi, con i suoi lineamenti da tipica signora meridionale, è perfetta nei panni della volitiva matrona. Mentre la bellissima Cinzia Monreale, dai lineamenti candidi e fragili, incarna alla perfezione l'ideale di un amore etereo.
Ciò che rende Buio Omega del tutto indimenticabile è poi la cosa più ovvia, ossia il gusto di Joe D'Amato per l'eccesso senza freni.


















Come sempre nel suo cinema, la regia non lascia nulla all'immaginazione: l'eviscerazione del corpo di Anna avviene a pieno favore di macchina, con le budella sfilate via dal ventre e gli occhi sostituiti da protesi. Anche la macellazione del corpo dell'autostoppista americana diventa un trionfo di carni spappolate dinanzi all'obiettivo curioso della regia. La sensazione di disgusto che ne deriva è semplicemente sublime, ma la mano di Massaccesi si ritrova anche in modo più sottile (per modo di dire) quando rende del tutto insostenibile una scena sulla carta normale, ossia il pranzo a base di spezzatino, il quale viene ritratto in modo decisamente più rivoltante di maciullazioni ed eviscerazioni.




















La costruzione delle scene è qui più ricercata che in molti altri exploit di D'Amato. L'occhio per l'inquadratura a effetto non manca mai, con la macchina da presa che sa davvero come muoversi nei meandri della grande villa, ricercando soluzioni sempre belle sul piano estetico. E per una volta, Massaccesi non deve limitarsi a copiare la sonorità dei Goblin, potendosi permettere quelli veri; peccato però che le note della loro partitura, pur orecchiabile e affascinante come sempre, finisca per stridere con la cupezza di storia e personaggi.


















Buio Omega è così un racconto morboso e voyeuristico perfettamente riuscito e persino godibile e affascinante. Si da per scontato, ovviamente, che lo spettatore non si lasci impressionare facilmente dalla sua carica gore, la quale rappresenta sicuramente un punto di interesse, ma per una volta non l'unico all'interno di un film di Joe D'Amato.

giovedì 24 ottobre 2024

Frankenhooker

di Frank Henenlotter.

con: James Lorinz, Patty Mullen,  Joseph Gonzalez, Charlotte Helmkamp, Joanna Ritchie, J.J.Clark, Carissa Channing, Louise Lasser, Shirley Stoler, Beverly Bonner, Helmar Augustus Cooper.

Commedia/Demenziale/Splatter

Usa 1990















"Se dovete guardare un film quest'anno, fate che sia Frankenhooker". Parole di Bill Murray, che in quel 1990 sembra sia davvero stato colpito dalla genuina follia dell'allora ultima fatica di Frank Henenlotter.
Una fatica in parte lontana da quella che fino ad allora era stata la sua filmografia, ma che ne era la perfetta continuazione: con Basket Case aveva intessuto un racconto drammatico e umano immergendolo in un'atmosfera fetida, mentre con Brain Damage aveva fuso la metafora sulla tossicodipendenza con un gusto spiccato per il grottesco. Frankenhooker, invece, abbandona ogni velleità per abbracciare totalmente il lato più camp del suo cinema, finendo per essere una semplice commedia splatter demenziale.


















Un progetto che nasce dall'incontro tra Henenlotter e James Glickenhous, ossia lo specialista in sleazesploitation regista del cult del filone revenge movie Executioner e produttore del Maniac Cop di William Lustig.
Il progetto iniziale di Henenlotter è però quello di ottenere i fondi per il purtroppo mai concretizzatosi Insect City, cosa che per l'appunto non avverrà mai; in compenso Glickenhous è interessato a creare un seguito di Basket Case, il quale entra in produzione sempre nel 1990, assieme proprio a Frankenhooker; l'idea per la stralunata commedia pare che girasse per la testa a Henenlotter già da qualche anno, ma la sviluppa per davvero, a quanto pare, solo durante il pitch meeting con Glickenhous, tanto che ottenuto il via libera ha dovuto scrivere in fretta e furia una bozza di sceneggiatura.
Questo forse spiega la struttura sbilenca del film, con la maggior parte del minutaggio spesa dietro al giovane protagonista Jeffrey Franken, nomen omen in quanto "neuroelettricista", che piange la morte della bella fidanzata Elizabeth; il piano per riportarla in vita rianimando la testa con un fulmine e ottenendo un corpo usando parti di prostitute morte copre praticamente tutto il film, con la vera carne della storia, ossia le gag con protagonista la "frankenbattona" del titolo, che finisce per occuparne solo una timida porzione.




Volendo aguzzare lo sguardo, in Frankenhooker si potrebbe anche scorgere il gusto per la sleazesploitation presente nei precedenti film, con alcune delle scene ambientate a Times Square girate in stile guerriglia che finiscono per portare su schermo le vere prostituite newyorkesi di fine anni '80. E volendo aguzzare davvero molto lo sguardo, si potrebbe vedere in tutto il film una critica all'industria del sesso e persino all'ossessione maschile di possedere il corpo della donna, di farlo suo smontandolo e ricostruendolo a piacimento, con tanto di beffarda giustizia karmica stile Tales from the Crypt nel finale. Ma sarebbe davvero una lettura generosa: Frankenhooker essenzialmente è e vuole essere una commedia demenziale. Il suo valore alla fin fine è tutto qui.


Come commedia horror demenziale tutto sommato funziona anche, visto che inanella almeno un paio di scene simpatiche. La prima, che oggi sarebbe impossible anche solo da pensare, è quella nella quale il gruppo di prostitute strafatte di "supercrack" inizia ad esplodere di punto in bianco, sorta di omaggio di Henenlotter al collega Jim Muro e ai suoi barboni che si squagliano di Street Trash. La seconda è ovviamente la lunga sequenza di "passeggio" che vede protagonista la rinata Elizabeth, la quale lascia dietro di sé una scia di morti arrapati.



















Frankehooker non è niente più di questo, ossia una commedia horror che risulta bizzarra persino per gli standard dell'epoca, con un tono sempre sopra le righe e sempre virato verso l'assurdo spinto e il volgare, quasi come se fosse un prodotto della mitica Troma.
La sensazione di trovarsi davanti ad un film di Lloyd Kaufman prodotto con qualche milione anziché con qualche centinaia di dollari è purtroppo acuita anche dagli effetti speciali, talvolta palesemente finti. Qualche tocco di classe c'è sicuramente nel ricreare gli arti smembrati nel finale, ma quella testa mozzata ottenuta con un semplice manichino fa davvero cadere la sospensione dell'incredulità, aumentando di converso il tasso di bizzarria della visione.



















Il valore effettivo di Frankenhooker, bisogna sempre sottolinearlo, risiede proprio nel tono eccessivo usato in ogni suo singolo aspetto. Non per niente, esce nei cinema nel 1990, ossia alla fine del decennio in cui la commedia splatter di impianto orrorifico ha trovato vera fortuna. Il lavoro di Henenlotter racchiude in sé tutti i topoi del filone: c'è il gusto per la citazione colta, ossia l'immortale Frankenstein di James Whale; c'è la carica splatter priva di freni; c'è la tematica dell'erotismo spinto; ci sono scene di nudo e di efferatezze in abbondanza, il tutto elevato all'ennesima potenza. 
Un perfetto compendio del genere? Assolutamente si. Certo, non siamo dinanzi ad un lavoro di fino come La Casa 2 e L'Armata delle Tenebre, ma chi è in cerca di sano e semplice divertimento di certo lo troverà qui. Chi invece vuole qualcosa di più, può sempre guardare Povere Creature!, che, pur tratto dal romanzo omonimo, sembra quasi un remake artsy di questo exploit privo di pretese.