di Stefano Sollima.
con: Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi, Greta Scarano, Jean-Hughes Anglade, Adamo Dionisi.
Italia, Francia- 2015
Dalle ceneri del cinema "civile" e del "polizziottesco" nacque, nel 2005, un nuovo filone che rinvigorì in parte gli esiti della sciagurata cinematografia italiana. Un filone che si è imposto al cinema con "Romanzo Criminale" come mix tra noir, dramma e spaccato sociale e che in televisione ha trovato, con la serie omonima, un'identità più forte, più vicina alle fonti di ispirazione originale e decisamente più interessante.
Il filone in sé non ha non ha un nome preciso e non può essere accostato a generi e registri convenzionali; perchè se già il termine "gangster movie" mal si adattava all'originale "Romanzo Criminale", appare del tutto inutilizzabile per pellicole come "Perez." (2014) o "Anime Nere" (2014). Tanto che lo stesso può essere indicato solo con un termine misto: "dramma criminale".
Punto d'arrivo della rielaborazione della cronaca e della costruzione drammatica del "dramma criminale" è "Suburra", vero e proprio punto di non ritorno per il filone. Non è un caso che a dirigerlo sia quello Stefano Sollima, caso unico di figlio d'arte italiano di talento, che già aveva dato prova di sé proprio con la serie di "Romanzo Criminale"; e che il soggetto sia tratto da un romanzo di Giancarlo De Cataldo, sempre autore dell'omonimo romanzo sulla Banda della Magliana. Una chiusa che conferma purtroppo le doti del regista, a suo agio sul piccolo schermo, ma goffo sul grande; e che dimostra l'incapacità del "dramma criminale" di dare uno spaccato credibile e veritiero sul mondo che vorrebbe raccontare.
La Roma di "mafia capitale", degli scandali sulla collusione tra politica e crimine, delle feste oscene e dei mignottoni un tanto al chilo, viene filtrata attraverso un pugno di personaggi sulla carta spregevoli. L'onorevole Malgradi (Favino) è un politico di centrodestra ossessionato dalle prostitute minorenni e dalla droga, con le mani in pasta nel faraonico progetto di riqualificazione del lungomare di Ostia. Per coprire la morte accidentale di una delle sue "amichette", Malgradi scatena involontariamente una faida tra il giovane arrivista "Numero 8" (Alessandro Borghi) e il violento clan di origine zingara degli Anacleti, capeggiato dal volgare Manfredi (Adamo Dionisi). Nel frattempo il faccendiere Sebastiano (Elio Germano), specializzato in festini osè, si trova a sua volta inguaiato con gli Anacleti a causa dei debiti del padre, vecchio imprenditore edile. Su tutto, vige l'occhio attento di "Samurai" (Claudio Amendola), vecchio boss dai tempi della Magliana e uomo di fiducia delle mafie meridionali.
Sin dal titolo, "Suburra" vorrebbe fare il punto sull'unione necessaria tra criminalità e potere, richiamando quel luogo dell'antica Roma dove i senatori incontravano i capi dei collegia, le "batterie" della piccola criminalità. La collusione tra Stato, in particolare del Parlamento, al quale le manovre intimidatorie dei clan servono per ottenere voti, e mafia autoctona ed esterna, affamata dei miliardi da investire, rivive nelle figure dell'onorevole e del giovane arrivista, della sua matrona e dei criminali. Ma il confronto tra messa in scena e realtà delle cronache è impietoso: i personaggi creati da De Cataldo e Sollima, benchè ispirati a personaggi realmente esistenti, sono edulcorati e le loro relazioni troppo semplificate rispetto alle controparti reali.
Non è sostenibile la tesi di una politica "ostaggio" delle organizzazioni criminali, non a seguito degli scandali sui "serbatoi di voti" di Roma Mafiosa e, prima ancora, di ogni altra singola inchiesta che ha intaccato gli "onorevoli" negli ultimi trent'anni di vita della Repubblica Italiana. Laddove nel mondo reale, il rapporto mafia-politica è biunivoco, basato sullo scambio tra voto e privilegio, nel mondo di "Suburra" la politica ne esce sempre, bene o male, pulita. Se la figura dell'onorevole Malgradi è, bene o male, credibile nella sua caratterizzazione di arrivista che si crede al di sopra di tutto e di tutti, del tutto ridicola è quella del faccendiere Sebastiano, il quale non solo è all'oscuro della speculazione e della collusione tra l'impero dell'edilizia e le organizzazioni criminali, ma risulta anche taglieggiato da queste suo malgrado; laddove, invece, i casi di Mokbel e soci hanno scoperchiato un disegno ben più squallido ed orrorifico di edonisti che procacciano piaceri per i potenti di turno e arrivano a mediare con la mafia per ottenere i voti e le influenze necessarie alla politica. Ancora, la messa in scena della festa con cui viene introdotto il personaggio, in teoria decadente, si rivela come un piccolo party tra amici timorati di Dio se paragonato alle feste della "Roma bene" alle quali il PDL spesso si abbandonava, veri e propri baccanali in costume. L'apice del ridicolo viene raggiunto quando questo "idiota dal cuore d'oro" viene affiancato alla figura della prostituta, che lui stesso utilizzava per il proprio sollazzo, in una relazione fraterna lontana anni luce dallo sfruttamento della prostituzione dei transessuali ai quali gli scandali degli scorsi anni ci hanno abituati.
La descrizione della mafia, a sua volta, soffre di una schizofrenia imbarazzante. La nuova generazione di criminali violenti e tossici viene cucita addosso alla gang di Numero 8, formata unicamente da teppistelli dal grilletto facile capeggiati da un bossetto da strapazzo.
La sferzante ferocia ed il compiacimento del clan dei Casamonica, i "padroni di Roma", viene ripartita tra il clan degli Anacleti, di origine rumena come la controparte reale, ed il boss "Samurai", vera e propria maschera del defunto Massino, anch'egli ex membro della Magliana. Lo sguardo di Sollima sui primi ricorda fortemente quello sui casalesi visti nella serie di "Gomorra": folli e violenti, immersi in un kitsch imbarazzante e dagli atteggiamenti sbruffoneschi. Visione che ben si adatta allo squallore morale di cui hanno dato sfoggio nei mesi scorsi. Ma quando l'autore decide di descrivere il Samurai come un mafioso dai modi gentili e dallo sguardo umano, dotato di valori tradizionali come quello della famiglia, non si può non rimanere basiti. L'idealizzazione, anche solo per scopi narrativi, di una figura nella realtà mostruosa non solo è poco credibile, ma è anche indefettibilmente rivoltante.
Semplicemente irricevibile è poi la tesi della caduta del Terzo Governo Berlusconi come "fine dei giochi", chiusura anche solo temporanea delle speculazioni e dei privilegi dei parlamentari; sia perchè è cosa nota anche ai più sprovveduti come le speculazioni e l'imbarbarimento della capitale siano perdurati anche oltre; sia, e sopratutto, per il risvolto manicheo e imbarazzante, veicolato nell'ultima sequenza da un dialogo del Samurai, dell'estraneità del Centrosinistra al "malaffare": manicheo poichè la distinzione tra "sinistra buona" e "destra cattiva" è del tutto infondata e residuato di un epoca e di una mentalità che si credevano scomparse, imbarazzante poichè disvela una malcelata simpatia per la classe politica del PD, ossia la stessa che ha permesso ai Casamonica quel famoso funerale show di cui ogni sano di mente avrebbe fatto volentieri a meno.
Verosomiglianza e credibilità a parte, laddove "Suburra" affonda davvero è nello stile. Sollima lavora di sottrazione, non riesce ad enfatizzare a dovere battute e situazioni, come nel finale in cui Malgradi esalta la sua intoccabilità, privo di mordente ed enfasi. Alcune tracce narrative finiscono nel vuoto, come la storia del rapimento, mentre altre sono fin troppo enfatizzate, come la caduta del governo Berlusconi. Il tono apocalittico è pacchiano e fuori luogo: la crisi spirituale di Benedetto XVI, usata come cartina di tornasole di un mondo in preda ad una crisi di valori, non riesce a convincere, risultando tronfio e pretenzioso, oltre che narrativamente inconsistente. Lo stile scattante della serie di "Romanzo Criminale" e la crudezza efferata di quella di "Gomorra" sono un ricordo. Il ritmo lento appesantisce una narrazione arida e poco consistente: di fatto, "Suburra" racconta poco e lo fa in troppo in tempo, senza tensione e senza mai vera cattiveria.
E se la direzione degli attori è, come al solito, ottima, l'unica intuizione davvero vincente è quella di dare un ruolo centrale nella vicenda ad un personaggio femminile, la Viola della bellissima Greta Scarano, che infrange la tradizione di tanto cinema italiano impegnato (o presunto tale) che mostra la donna solo come Madonna o puttana.
Ridicolo, tronfio e malriuscito. Ma "Suburra" è davvero un film da stigmatizzare?
A prescindere dal risultato, operazioni come questa devono essere difese a spada tratta. Non per cercare di dare dignità al prodotto in sé, quanto per il coraggio che dimostrano. Il coraggio di parlare di verità scomode, di raccontare storie violente e truci, di distanziarsi dai soliti, triti e rivoltanti stilemi del "cinema italiano". Il coraggio di provare a fare qualcosa di diverso. Qualcosa che non ha la forza o lo stile del cinema che fu, dei generi e dei filoni a cui si ispira o ai corrispettivi esteri (i gangster movie francesi di Oliver Assayas e Jean-François Richet su tutti), ma che riesce comunque, spesso, ad essere interessante.
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