di Abel Ferrara.
con: Willem Dafoe, Maria De Medeiros, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Valerio Mastandrea, Luca Lionello.
Biografico/Drammatico
Italia, Francia, Belgio 2014
Scandalizzare è un'arte; spiazzare lo spettatore, colpirlo in faccia con un pugno metaforico per bandirne il torpore intellettuale, sparargli in faccia verità o situazioni scomode è una perizia che solo un grande artista può saper padroneggiare. E Abel Ferrara ha sfoggiato tale perizia fin dal suo esordio, quel "Driller Killer" (1979) che riprendeva alcunii topoi del horror per imbastire un racconto sulla paranoia metropolitana in grado di penetrare dritto nel cervello di chi lo osserva grazie ad un registro sporco e decadente. Ferrara è un autore che non si tira mai indietro, che non giunge a compromessi neanche quando budget da terzo mondo glielo impongono. E che non ha certo paura di mostrare l'immostrabile.
E per paradosso puro, il film accolto con più polemiche durante la sua trentennale carriera è stato il suo (ad oggi) ultimo, quel "Pasolini" che tanti isterismi ha generato alla 71ma edizione del Festival di Venezia.
Era impensabile che un regista americano, pur definitosi "italiano del Bronx", potesse mettere mano ad un'istituzione italiana di cotale importanza, ossia la memoria di quel poeta, scrittore, regista, o forse semplicemente artista che tanto scandalo generò ai tempi della Prima Repubblica. Lui, Pasolini, che di provocazioni viveva, che faceva dell'anticonformismo ragionato un ideale di vita. Lui, l'autore maledetto, odiato dalla destra, deprecato dalla sinistra, colui che non si faceva costringere dall'ideale, che era sempre in grado di osservare la realtà con piglio realista e al contempo surreale, di creare incontenibili apologhi sulla corruzione morale della classe dirigente senza rinnegare le sue radici cattoliche. Pasolini, la coscienza di un Italia, abbandonata sul litorale di Ostia dopo anni di insulti, solo per essere riscoperta da una nuova generazione di finto-sinistrorsi e radical chic da accatto, pronti a scomodarne la figura per ogni tornaconto personale o di partito, sino a garantirne una forma di idealizzazione ignorante che lui di certo avrebbe detestato e che altrettanto certamente non rende giustizia né alla sua persona, né al suo pensiero.
Eppure, l'incontro di queste due personalità non deve stupire. Sia l'opera di Ferrara che quella di Pasolini sono ossessionate, in un modo o nell'altro, dal concetto di morale, dalla ricerca spasmodica di una forma di "bene" ostracizzato dalle pulsioni personali o sociali. Laddove il primo canta spesso storie di redenzione disperata, il secondo contempla l'apocalisse causata dalla dimenticanza dei valori umani. Affinità di facile spiegazione: Ferrara ribadisce sovente come la visione dei film di Pasolini lo abbia formato sin dalla giovane età, di come lui, ex cattolico ed oggi buddista, tanto debba agli insegnamenti del maestro emiliano.
"Pasolini"si pone dunque come l'omaggio di un allievo al proprio precettore. Non alla memoria di questi, alla sovrastruttura che gli imbelli intellettualoidi italiani hanno imbastito per garantirne la fama come lustrino di un Italia in totale crisi esistenziale. Un omaggio che non vuole dare un ritratto o uno spaccato del grande autore, ma solo rievocarne la figura, sia sul piano umano che artistico, senza dare giudizi o apologie ed evitando le caustiche (e talvolta gratuite) teorie complottistiche sulla sua morte. Operazione che mostra il fianco sin da subito ad ogni limite possibile ed immaginabile e, di conseguenza, alle critiche più feroci; e che, alla fin fine, risulta ben più riuscita di quanto si voglia ammettere.
La prima sequenza è esemplare: Pasolini emerge dalle tenebre, in una ricostruzione dell'ultima intervista completa da lui rilasciata, alla vigilia della distribuzione di "Salò" (1975); L'effetto è straniante: dalle ombre sembra emergere proprio lui, redivivo incarnato nei lineamenti di un Willem Dafoe ispiratissimo, che non imita, ma interpreta davvero il suo personaggio, riuscendo lo stesso a coglierne le più piccole sfumature fisiche, in una prova che se fosse stata data in un'opera meglio recepita, sarebbe stata sommersa di premi e riconoscimenti. Con uno stacco, ci si ritrova dentro il suo ultimo lavoro letterario, l'incompiuto e amaro "Petrolio"; un suo doppio, non lui ma un personaggio che per sua stessa ammissione lo ricorda, si ritrova su di un lungomare in compagnia di un gruppo di "ragazzi di vita", in una fellatio che Ferrara non cela con stacchi o artifici. Il nucleo tematico dell'opera è tutto qui: la giustapposizione tra il sacro e l'esecrabile, tra il Pasolini artista profetico e l'uomo che non ripudiava l'amore carnale più basso e sporco. Scena che anticipa e doppia quella della morte del poeta, ripetizione e rincorsa tra reale ed immaginario che si farà, nel corso del film, stratagemma narrativo: l'arte imita la vita, la vita si rispecchia nell'arte; nel mondo di Pasolini non c'è distinzione tra l'una e l'altra.
L'ombra della morte si allunga a ritroso per tutto il film. L'atmosfera è costantemente plumbea, ammantata da un'aurea di fatalità percettibile eppure impossibile da razionalizzare. Ma Ferrara non celebra la morte del poeta: quando questa arriva è secca, brutale, spogliata da ogni forma catartica.
L'attenzione dell'autore è tutta rivolta verso il personaggio e la sua poetica. Ecco dunque rievocata l'ultimissima intervista, rimasta monca, nella quale Pasolini espone il suo pensiero anti-materialista. E sopratutto, ecco per la prima volta prendere vita su schermo gli appunti e le sequenze di quel "Porno-Teo-Kolossal", il film che Pasolini non ha mai realizzato, con Ninetto Davoli a prestare il volto al compianto Eduardo e Riccardo Scamarcio a vestire i panni dello stesso Davoli.
Non ci si deve stupire, in fondo, se la visione di Ferrara si ferma qui. Al di là delle intenzioni esplicite, bisogna tenere conto di come "Pasolini" sia il frutto di quell'attività anticonvenziale che da sempre ha caratterizzato il suo cinema. Così come in "The Addiction" (1995) gli schematismi della narrazione filmica venivano abbattuti per creare nuovi significanti, così adesso la narrazione viene totalmente asservita alla pura rievocazione, alla contemplazione stoica del modello di riferimento. I limiti sono evidenti: non c'è mordente, non c'è vera complessità, lo sguardo è semplice (ma mai semplicistico), la narrazione priva di enfasi. Al contempo, si tratta di limiti impliciti, che l'autore accetta nel momento del concepimento stesso dell'opera, per questo non più di tanto rimproverabili.
Tanto che l'unico vero rimprovero che può essere mosso a Ferrara riguarda la pura messa in scena; l'uso di canzoni pop per accompagnare le escursioni notturne di Pasolini per le borgate è sin troppo straniante; la ricostruzione dell'epoca talvolta inciampa in anacronismi dovuti ad un budget basso. E il casting mostra il fianco quando si tratta di rendere credibile gli attori di contorno: Davoli interpreta il napoletanissimo De Filippo con un marcato accento romano, mentre Scamarcio non ha lo sguardo limpido e il sorriso verace di Ninetto.
Un'opera scostante, ispirata ma volutamente piatta; un'omaggio sentito, ma troppo personale. "Pasolini" non è un film facile, è si riuscito, ma mai davvero vivido; per comprenderlo ed apprezzarlo bisogna essere predisposti con un'adeguata forma mentis; un limite "invalicabile", che lo rende di conseguenza fin troppo velleitario; eppure, il fascino che trasuda è innegabile per chiunque apprezzi la figura e l'arte del compianto Pasolini.
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