di Ken Russell.
con: Glenda Jackson, Oliver Reed, Alan Bates, Jennie Linden, Eleanor Bron, Alan Webb, Vladek Sheybal, Catherine Willmer, Sarah Nicholls, Michael Gough.
Drammatico
Inghilterra 1969
Ken Russell è stato l'artefice di un cinema dal fascino innegabile, un autore in grado di dominare il box office per almeno un decennio (dal 1969, anno di "Donne in Amore" al 1980 di "Stati di Allucinazione"), fautore di un cinema tanto personale quanto visionario e provocatorio, un "enfant terible" la cui eredità filmica merita di essere riscoperta.
Formatosi alla BBC, come molti registi inglesi dell'epoca, trova l'esordio al cinema con "French Dressing", nel 1964, storia di una piccola comunità inglese che per aumentare le entrate decide di dar vita ad un film festival; trova il primo vero successo commerciale nel 1967, con "Il Cervello da un Miliardo di Dollari", avventura dell'agente segreto Henry Palmer affidatagli da Michael Caine in persona. Ma è solo nel 1969, con "Donne in Amore", che il suo nome diventa sinonimo di autore, con una pellicola di sicuro successo (Glenda Jackson vinse persino un Oscar per la sua performance) e che inaugura definitivamente il suo cinema. Un esordio che abbozza quello che diventerà il suo stile e che, partendo dal romanzo omonimo di D.H.Lawrence, traccia un quadro progressista dell'amore, risultando però in parte datato.
Nell'Inghilterra degli anni '20 del secolo scorso, le sorelle Gudrun (Glenda Jackson) e Ursula (Jennie Linden) conoscono il rude Gerdard (Oliver Reed) e il disincantato Rupert (Alan Bates). Laddove l'amore, ideale e idealistico, sboccia con naturalezza tra Rupert e Ursula, Gudrun e Gerard intrecciano una storia basata soprattutto sul rapporto fisico.
Cos'è l'amore? Esiste una forma d'amore più completa di altre? Gli interrogativi cardine di Lawrence trovano forma nelle immagini di Russell in modo talvolta smaccatamente teatrale, talaltra più libera, vicina ai sentori del Free Cinema, in un'ideale via di mezzo che finisce per ingessare la messa in scena.
E l'amore è, per prima cosa, un'esperienza totalizzante, che chiede tutto al partner e trionfa in un abbraccio letale, da cui la splendida sottotrama dei neo sposi, annegati a pochi giorni dalle nozze.
L'amore è altresì affinità, forma di comunione spirituale che si fa vicinanza umana nello spirito. Da qui l'unione "maledetta" tra Rupert e Gerard, un rapporto che tenta di sublimarsi nell'atto fisico sfociando solo in una pantomima, una scena di lotta che sopperisce al sesso e che culmina in una catarsi per entrambi, ma che non è viatico per l'unione; questa, tra i due, resterà sempre e solo ideale, mai davvero effettiva, neanche quando entrambi sono chiamati a confrontarsi con i propri sentimenti. Ed anzi, è proprio la realizzazione dell'inesistenza di un sentimento affettivo vero e proprio che pone fine alla possibile unione.
Cui consegue lo sboccio definitivo della passione tra uomo e donna, un'unione che viene vista da Rupert come afflittiva, soffocante parte del desiderio nella routine ordinaria; un amore che è possessione e che prende prima di Hermione, la volitiva matrona che cerca di concupirlo, poi della relazione con Ursula, la quale riesce tuttavia a non scadere nel meccanico; almeno fino al finale, volutamente ambiguo, che fa presagire una possibile fine alla comunione dovuta al venir meno di uno degli affetti.
Al di là dello specchio, la relazione tra Gerard e Gudrum è instabile, basata su di un'attrazione fisica che non sfocia mai, ne presuppone la comunione spirituale. I due personaggi sono, anzi, agli antipodi: lei è un'artista, aspirante scultrice e amante del bello, lui è rude, mascolino fino alla brutalità e perso nel suo ruolo di rampollo d'industria. La loro unione spesso sfocia nella sopraffazione e quando la carica sessuale si esaurisce, la crisi entra in atto, con Gudrun che trova nell'artista omosessuale Loerke un'ideale compagno e che, come Hermione prima di lei, usa l'arte per sublimare l'unione.
Il racconto è ancorato alla divisione classica in tre atti e la messa in scena trova libertà creativa solo in poche occasioni; lo stile è ancora classico, ma la voglia di provocare di Russell è già presente, tra sequenze di nudo e inserti onirici. Quel che resta è quindi un buon dramma, magnificamente interpretato, che bene o male ancora oggi regge il peso degli anni, ma che, a causa del forte schematismo, è uno dei film peggio invecchiati del grande regista inglese.
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