lunedì 21 giugno 2021

Ginger e Fred

di Federico Fellini.

con: Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Franco Fabrizi, Frederick Ledebur, Salvatore Billa, Totò Mignone, Augusto Poderosi, Sergio Ciulli.

Italia, Francia, Germania 1985

















Tra il 1979 e il 1983 si affaccia in Italia il modello della tv commerciale; dopo vari esperimenti delle tv locali, soppressi per mantenere il monopolio della RAI, con il favore della Corte Costituzionale, che nel 1976 decreta la libera trasmissione via etere, Silvio Berlusconi riesce, a poco a poco e non senza incappare in varie beghe legali, ad ottenere tre canali televisivi, ex regionali, con copertura nazionale, in grado di rivaleggiare con il modello pubblico. Nascono Canale 5, Italia 1 e Rete 4, le reti che poi verranno ribattezzate Mediaset, le quali decidono di combattere la battaglia per gli ascolti usando una programmazione agguerrita, fatta degli ultimi prodotti televisivi americani e proponendo in prima serata i classici del cinema italiano e non; con un piccolo prezzo da pagare: se ai tempi della tv nazionale le inserzioni pubblicitarie erano quasi inesistenti, limitate al solo intervallo tra primo e secondo tempo, nella tv commerciale, per ovvi motivi economici, i film vengono letteralmente cannibalizzati dagli spot, trasformando la visione in una vera e propria corsa di resistenza tra un'interruzione e l'altra.
Federico Fellini, dinanzi allo scempio perpetrato dalla tv commerciale, conia lo slogan "Non si interrompe un'emozione", che sarà poi ripreso dalla sinistra in una fallimentare campagna per la regolarizzazione delle interruzioni pubblicitarie; slogan che racchiude la sua posizione in merito a questo nuovo modo di intendere la fruizione filmica (il fenomeno del home video, pur di successo all'estero, avrebbe ancora stentato ad affermarsi nel Bel Paese).
Come si riverbera questa situazione para-culturale sulla produzione filmica del grande autore riminese?
Come già fatto con la neo emancipazione femminile in "La Città delle Donne" e la violenza metropolitana in "E la Nave Va", Fellini prende di petto l'argomento e lo sviscera in "Ginger e Fred", ideale versione moderna de "La Dolce Vita", con un enfasi divisa tra lo stato della creatività e una ricerca del tempo perduto personale.


La televisione di Fellini è un circo più ameno di quello ripreso ne "I Clowns", una sfilata di casi umani imbarazzante e insostenibile, che comprende un mafioso pluricondannato riverito come un guru, vecchie glorie sul viale del tramonto (i due artisti del titolo), sosia di personaggi famosi (oltre ai due che riflettono il compianto Lucio Dalla, è possibile scorgere anche un finto Celentano, doppio del vero apparso ne "La Dolce Vita"), un frate dei miracoli, nani, un imprenditore che ha superato il record di rapimenti, ballerine sgallettate e tanta pubblicità, dove la figura femminile viene ipersessualizzata al fine di vendere un prodotto, con il sesso che si fa tramite per la compravendita. Un'iperbole folle, che all'epoca fu persino criticata (da Umberto Eco in primis) per la scarsa verosomiglianza, ma che si rivela beffardamente profetica: la spazzatura che invade lo schermo come le strade di Roma è quella che comparirà una quindicina d'anni dopo nella vera televisione, con divette scosciate e falsi divi creati ad hoc e il trash che diventa portata principale dell'abbuffata catodica. Come il Cronenberg di "Videodrome", Fellini aborrisce la verosomiglianza in favore di una caricatura, in questo caso grottesca, perfetto specchio deformato di una realtà ad un passo dal realizzarsi, per questo ancora oggi spaventosamente attuale.


La televisione è essa stessa specchio deformato di una realtà delirante. Le strade sono invase dai rifiuti, i personaggi si muovono in periferie desolate, figlie dell'accanimento urbanistico che porta ad ammassare edifici su edifici senza un vero piano regolatore ,creando uno squallore urbano che sembra inevadibile; ed essi stessi sono dei "freaks", falsi artisti figli di una realtà impazzita, con travestiti che si sentono santi caritatevoli e sosia persi in imitazioni caricaturali di sé stessi. E nella stessa realtà, giganteggiano i cartelloni pubblicitari, che invitano a consumare con voracità, a rimpilzarsi di cibo fino ad esplodere per far girare la giostra di un consumismo che ha perso ogni coordinata di riferimento.
La televisione è così lo strumento per disintegrare la coscienza umana, riplasmare l'essere umano ad un recipiente vuoto non dissimile dai sacchi neri della spazzatura che fanno capolino per le strade, un consumatore vorace di piccole vanità, sesso un tanto al chilo, storielle strappalacrime prive di vera morale e sensazionalismi da copertina; una "nuova-umanità" che di rado Fellini mostra in modo diretto, lasciando che sia direttamente lo spettatore ad identificarsi con il modello evocato.


Dinanzi a questo nuovo "non-modello", Amelia e Pippo risaltano come due anomalie, due "fantasmi" del passato portatori di alcuni valori che, per quanto scrausi e piccolo-borghesi, sono almeno qualcosa dinanzi al mare magnum di nulla e nullità che tutto invade.
Amelia è l'ultimo baluardo di una generazione di artisti che, pur nati all'ombra delle vere star come imitazioni a buon mercato, posseggono tutt'ora un'integrità, un senso del dovere e del lavoro che nella bolgia catodica non esiste, al punto che le tanto necessarie prove del balletto vengono eseguite in un bagno in costruzione, un "non-luogo" attiguo alle quinte dello show, ma da esse del tutto distaccato. Amelia ha lasciato lo spettacolo per trovare il suo posto come piccola imprenditrice, una "borghesuccia" che pur persa nelle piccole piccole gioie e dolori della mediocrità è riuscita ad ottenere qualcosa.
Pippo, d'altro canto, è quasi un rottame, un'ombra di un uomo forse un tempo geniale, ora sicuramente svilito. Un artista che non ha più nulla da dire se non provocazioni vacue e battutacce compiaciute, ma che ritrova nel perduto amore e nel ballo quella spinta vitale che sembrava aver perso e che ora rifulge genuina in contrapposizione alla parata di false maschere televisive.



Il ritrovarsi dei due artisti diviene ponte verso il passato, strada che si snoda su sentieri mai percorsi, quelli di un amore che non si conosceva e, soprattutto, reminiscenza di una gloria oramai dimenticata. La recherche dei due personaggi è però anche l'apsetto meno riuscito del film, che ne intacca in parte la portata, adagiata com'è sui soli dialoghi di Tonino Guerra che, per quanto ispirati, non riescono a restituire appieno la dimensione dello sconforto interiore dei due.


Quello di "Ginger e Fred" resta tuttavia lo stesso uno sguardo preciso e penetrante nel reale, una ricostruzione iperrealistica di un mondo decadente fino al distopico. E chissà se, in cuor suo, il grande maestro sapesse davvero quanto vero sarebbe diventato questo suo spaccato grottesco (all'epoca) ai limiti del fantascientifico.

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