con: Franco Citti, Franca Pasut, Silvana Corsini, Paola Guidi, Adriana Asti, Luciano Conti.
Italia (1961)
Il solo nominare il nome di Pier Paolo Pasolini riporta alla mente una realtà scomoda, spesso taciuta, molte altre volte ignorata; una realtà che il grandissimo autore è riuscito a ritrarre, nei suoi quindici anni scarsi di carriera cinematografica, con un livore ed una forza unici: quella dell'Italia del Secondo Dopoguerra; una società che, allora come ora, era composta da una borghesia altezzosa e vuota e da un proletariato sofferente ed irredento.
Una visione, la sua, scevra da ogni tipo di compromesso: Pasolini ritrae il suo mondo con un occhio cinico ed accusatorio, privo di compromessi ed ipocrisie; non cerca mai davvero la provocazione gratuita ed anzi usa un linguaggio (sopratutto visivo) forte e vibrante solo per ridestare lo spettatore dal torpore intellettuale ed intellettivo che la società borghese (e non) imponeva; e a trent'otto anni dalla sua scomparsa, il constatare come la sua filmografia sia ancora così ancorata alla realtà odierna stupisce; ma sopratutto inquieta al punto che vien naturale chiedersi che cosa penserebbe, idealmente, se avesse conosciuto l'Italia degli anni '00, in cui tutte le sue paure ed ossessioni hanno, di fatto, preso vita e potere.
L'esordio al cinema di Pasolini è datato 1961, "anno d'oro" che vedeva i trionfi del cinema europeo della Nouvelle Vague come ideale prosecuzione delle intuizioni estetiche del primo Neorealismo; ed è proprio al Neorealismo che "Accattone" deve, in parte, la sua componente estetico-narrativa: al bando attori professionisti e studi di registrazione, Pasolini si immerge nelle borgate romane, sotto un sole cocente e tra i resti di un'umanità allo sbando; prende gli attori direttamente dalla strada e li lascia recitare (e doppiare) in romanesco, lasciando intatti i modi di dire e le cadenze della strada; "Accattone" diviene così l'ideale continuazione dei romanzi "di strada" scritti in precedenza dall'autore, "I Ragazzi di Vita" e "Una Vita Violenta" , nonchè il primo capito di un'ideale trilogia cinematografica sulla "sacralità degli ultimi" che comprende anche "Mamma Roma" (1962) e "La Ricotta", episodio del film corale "Ro.Go.Pa.G." (1963)
Nella periferia romana si muove Vittorio Cataldi, detto "Accattone" (Franco Citti), magnaccia da strapazzo e ladruncolo occasionale; Accattone passa le sue giornate al bar assieme ad un gruppetto di amici, anch'essi spiantati e scansafatiche, si innamora della bella ed illibata Stella (Franca Pasut) e cerca in ogni modo di sopravvivere in un mondo ostile e desolato.
Se il Neorealismo indagava la realtà quotidiana del proletariato e della piccola borghesia, Pasolini si spinge ancora oltre, varca quell'ideale confine che, tacitamente, era stato tracciato nella rappresentazione sociale dell'epoca e, contro ogni ipocrisia, erige a protagonisti assoluti della sua opera i sotto-proletari, "ultimi tra gli ultimi": personaggi privi di lavoro, "larve" che la società del boom economico tende ad ignorare; Accattone e compagni non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano: ciondolano da un piazzale ad un altro sbarcando il lunario con piccoli lavoretti da farabutti; in particolare, Accattone è un magnaccia, un pappone, ossia un soggetto che campa di rendita sfruttando il lavoro altrui; il che lo rende un vero e proprio "parassita", un essere totalmente incapace di provvedere a sé stesso con le sue sole forze.
L'incapacità del protagonista di provare anche una minima frazione di vergogna lo rende un essere a-morale, sprovvisto della benchè minima coscienza delle sue azioni; d'altronde, Pasolini non biasima i suoi comportamenti, ma nemmeno gli esalta; Accattone è un essere privo di speranze, un uomo ridotto ai minimi termini, che tenta ogni carta pur di sopravvivere (da qui il suo soprannome), tranne quella del lavoro, visto come una forma di schiavitù; la non-vita di Vittorio altro non è che un purgatorio in Terra, fatto di rinunce, umiliazioni e piccoli escamotagè (da qui la citazione che apre il film), che però non porta a nessuna redenzione, nessuna catarsi; persino l'amore per la bella Stella non redime Accattone dalla sua situazione di stallo.
Quella di Accattone è una corsa verso il basso, una sorta di "parabola negativa" che porta l'eroe a perdere, nel corso della storia, tutto: dapprima il lavoro come protettore, poi i suoi pochi averi, fino alla tragedia.
Su tutto, infatti, aleggia l'ombra della morte: una morte inevitabile, che Vittorio teme e che lo ossessiona, ma che non può evitare; e solo nella morte egli trova liberazione ("Mò sto bene!" esclama prima di morire); liberazione da una non-vita che egli stesso ha reso infernale; e proprio qui sta la differenza con i futuri lavori di Pasolini: non vi è una vera e propria condanna alla "società del benessere"; Accattone determina autonomamente la sua disfatta, decide da solo di schivare (e schifare) ogni lavoro e quindi ogni possibilità di cambiamento: egli è un "prodotto di sé stesso", delle sue scelte sbagliate, di un carattere talmente forte da impedirgli ogni forma di ragionamento logico; un'ignoranza, la sua dovuta ad un orgoglio immotivato, inutile e velleitario, contrapposto alla più mite "forza lavorativa" del fratello, e che si imprime con forza nella mente dello spettatore grazie ad un'immagine geniale: Franco Citti che si sporca da solo la faccia di sabbia, senza motivo, senza ragione, un gesto fatto solo con una rabbia inutile ed incomprensibile.
Pasolini si limita così a ritrarre la parabola di Vittorio, a non cercare ragioni o scuse alla miseria; il suo intento è quello di dare una voce ai reietti, a coloro che sono solitamente ignorati dal grande pubblico, ma che, pur nella loro miserevolezza, hanno una forma di dignità, un'umanità tutt'altro che scontata e che l'autore enfatizza con una ritualità sacrale, data più che altro dallo splendido commento musicale.
Quello di Pasolini è un esordio "totale": per la prima si trova a scrivere e a dirigere un film, senza avere la minima conoscenza del mezzo cinematografico, tanto che, a posteriori, confesserà di non aver capito, all'epoca, nemmeno la differenza tra una panoramica ed un piano-sequenza; affermazione che risulta ironica, finanche mendace se si dà uno sguardo alle immagini di questa sua prima opera: campi lunghi spettacolari che ritraggono la periferia romana come una moderna "terra di nessuno", popolata da morti viventi che prendono vita in primo piani potenti ed espressivi. E rispetto alla tradizione del Neorealismo, Pasolini adotta uno sguardo meno cinico: la miseria del suo protagonista viene ritratta, si, senza alcun compromesso, ma mediante una visione "sacrale", incarnata dalle splendide note di Bach, che conferiscono maggiore tragicità alle immagini; Pasolini crea, così, una moderna parabola, priva però di riscatto; aggiunge sequenze oniriche che rafforzano la visionarietà della narrazione e avvolge su tutto un velo di pietà, uno sguardo, il suo, che non giustifica le azioni dei personaggi, ma le compatisce, in virtù di una visione laica e, al contempo, estremamente sacrale del dolore e della miseria, e proprio per questo degna di essere definita "capolavoro".
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