di Rainer Werner Fassbinder
con: Dirk Bogarde, Andrèa Ferrèol, Klaus Lowitsch, Volker Spengler, Peter Kern, Gottfried John.
Drammatico
Germania, Francia (1978)
---SPOILERS INSIDE---
Con un budget superiore a quello di tutti i suoi precedenti lavori, nel 1978 Fassibinder porta sul grande schermo il romanzo "Disperazione" di Vladimir Nabokov; assistito alla sceneggiatura da Tom Stoppard e con protagonista un magnifico Dirk Bogarde, il grande autore bavarese crea così una delle sue pellicole più eleganti, ma, fatalmente, anche uno dei suoi più inermi esercizi di stile.
Berlino, 1930: sullo sfondo dell'ascesa al potere del partito nazista, l'imprenditore dolciario Herman Herman (Bogarde) vive una singolare patologia, una forma di scissione della personalità che lo conduce ad una crisi identitaria vera e propria; la faccenda si complica quando Herman incontra, per caso, Felix (Klaus Lowitsch), giovane spiantato che, a suo dire, gli somiglia come un gemello.
Il tema della perdita dell'identità viene ben strutturato da Fassbinder; Hermann, di per sé, è un personaggio senza passato e quindi privo di un "io" vero e proprio; nel corso del primo atto egli racconta più volte la storia delle sue origini, modificandone costantemente i particolari; forse immigrato russo, forse figlio di nobili tedeschi, Herman (il cui nome è volutamente confusionario) è la perfetta metafora della Germania degli anni '30: privo di radici, privo di scopo, conosce solo quello che ha e che non apprezza; la mancanza di identità della nazione è il terreno fertile per la presa di potere del nazionalsocialismo, riassunto nella brillante scena dei sassi contro le vetrine: in pieno giorno, un gruppetto di esaltati in divisa si diverte a spaccare le vetrine dei negozi sotto gli occhi dei passanti e dello stesso Herman; finito l'assalto, il padrone del negozio esce per pulire come se niente fosse, mentre notiamo, seduti ad un tavolo vicino al protagonista, due ebrei intenti a giocare una partita a scacchi, totalmente presi dal gioco al punto di non accorgersi di nulla. La catastrofe annunciata viene schivata, o per meglio dire "obliata" da un popolo che non sa più chi sia e per questo non si rende conto delle proprie azioni.
In tutto questo Herman appare l'incarnazione perfetta dell'oblio proprio a causa della sua patologia, che lo porta ad una schizofrenia totale; Herman è innamorato della grossa e vorace moglie Lydia, ma al contempo non ne sopporta la stupidità; è al corrente della sua relazione con il cugino Ardalion (che Volker Spengler modella su Van Gogh, a cui Fassbinder dedica il film), ma fa finta di nulla; allo stesso modo mal sopporta Ardalion e i suoi modi terribili, ma non fa nulla per provvedervi; Herman vive in un perenne stato di indecisione, in una spaccatura che Fassbinder rievoca mediante scenografie e movimenti di macchina: Bogarde è perennemente oscurato da vetri e muri che ne spezzano la figura; la mdp ne segue voracemente i gesti isterici e carichi con movimenti vorticosi in immagini sempre più profonde ed oblique; la forma filmica diviene quindi metafora della devianza mentale, sviscerata anche tramite la magnifica prova d'attore di Dirk Bogarde, teso e nervoso come il suo personaggio. Personaggio che altro non è, in fin dei conti, se non l'ennesima incarnazione dell'archetipo fassbinderiano: un uomo incapace di convivere con sé stesso e con gli altri e per questo destinato a soffrire.
La creazione di un nuovo "io" diviene per Herman l'occasione per fuggire, per crearsi una nuova vita lontano da chi odia; tuttavia, il cambiamento di identità, una volta avvenuto, non risolve i problemi dell'uomo; egli non riesce a lasciarsi indietro il suo passato che, come in "Professione Reoprter" (1975) di Antonioni, torna a perseguitarlo; l'identità non può essere perduta e rimpiazzata, non ci si può distaccare da sé stessi senza che qualcosa (o qualcuno) torni per reclamarci; la fuga e il cambiamento divengono così chimere impossibili da raggiungere, e per lo sventurato che ci provi vi è solo la pazzia come ricompensa.
Là dove Fassbinder sbaglia clamorosamente è nella narrazione; tolta l'estrema ed efficace eleganza formale, il grande autore non riesce ad enfatizzare a dovere la storia di Herman e il rapporto con gli altri personaggi; ogni forma di tensione o di sorpresa viene vanificata a causa di un flash-forward che svela, fin da subito, l'esito del suo piano; e quando, verso la fine, si tenta di teorizzare il "delitto perfetto" per cercare di sconfinare nel thriller, il tutto appare pretenzioso; persino la metafora sul nazismo appare, talvolta, forzata, tant'è che da metà film in poi ogni riferimento storico viene a mancare.
"Despair" si configura quindi come una parabola più bella che interessante: elegante e raffinato, ma anche freddo, questo "esercizio di stile" non riesce a coinvolgere né a stupire, salvandosi solo, appunto, per il suo stile inappuntabile, merito del grandissimo talento del suo autore.
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