di Robert Rodriguez
con: Danny Trejo, Michelle Rodriguez, Amber Heard, Demian Bichir, Sofia Vergara, Charlie Sheen, Mel Gibson, Alexa Vega, Tom Savini, Marko Zaror.
Usa, Russia (2013)
Che il cinema "vintage-exploitation" sia uno dei fenomeni più genuinamente brutti visti nel cinema americano degli ultimi anni è al di là di ogni possibile dubbio; che pellicole come "Birdemic" (2010, più relativo sequel del 2013) o "Piranha 3D" (2010 anch'esso, con sequel nel 2012) siano brutte e pretenziose è palese e scontato; ciò che lo è meno è il modo in cui il fenomeno è nato; negli anni '90 esso esisteva sotto la denominazione di "Pulp" e si caratterizzava come forma di (spudorata) imitazione di un modello inarrivabile: il cinema colto e raffinato di Quentin Tarantino; ricreare lo splendido mix (postmoderno? personale? autoriale?) di cinema d'autore e reminiscenze "di genere" del grande artista americano era impossibile, ma molti presunti autori, ex videoclippari della prima ora, ci hanno comunque provato, chi con maggiore fortuna (Guy Rithcie), chi con molta meno (Stephen Kay et similia); la storia di come il Pulp si sia evoluto in quella forma estetico-stilistica sopracitata (ammesso che quello sia il suo nome... e dando per scontato che ne abbia persino uno) è arcinota: 11 anni dopo il bel "Dal Tramonto all'Alba" (1996), Tarantino e Rodriguez decidono di creare un nuovo omaggio al cinema di genere americano degli anni '70, questa volta alzando il tiro; nasce così "Grindhouse", film diviso in due episodi; "Planet Terror", di Rodriguez, è un onesto horror splatter che omaggia il cinema di Romero e Carpenter, aggiungendovi un gustoso sottotesto rivoluzionario; un episodio ingenuo, ma tutto sommato godibile, nel quale però si avverte un difetto fastidioso: la stanchezza nella regia di Rodriguez, che per la prima volta nella sua carriera usa un ritmo troppo lento per creare vera tensione, vanificando parte dell'efficacia della pellicola; tutt'altro discorso andrebbe fatto per "A Prova di Morte": sorta di monumento funebre al cinema di Tarantino, è di fatto la parodia del suo vecchio modo di intendere la Settima Arte, ove tutte le sue ossessioni tornano sotto forma di caricatura; di fatto il suo film peggiore, l'episodio rappresenta, al contempo, il viatico per la rinascita del grande autore, che da lì in poi inaugurerà una nuova fase della sua produzione artistica.
Ai botteghini "Grindhouse" fu tutto fuorchè un successo (il che spiega la divisione in due lungometraggi per la distribuzione europea), ma questo non gli ha impedito di forgiare una nuova schiera di autoruncoli gasati dall'uso di pellicole dai colori psichedelici, effetti speciali attaccati con photoshop e filtri granulosi per far sembrare le loro pellicole come uscite in un cinema di quart'ordine del 1974. Dalle ceneri del progetto nasce anche un nuovo franchise, quello di "Machete", l'eroe creato da Rodriguez per un fake trailer e promosso a protagonista assoluto di un lungometraggio nel 2011; "Machete" rappresenta la quint'essenza del "vintage-exploitation": volutamente sgrammaticato, pieno zeppo di errori da due soldi nella regia e nel montaggio, illuminato da una fotografia bruciata, girato in digitale ma riempito di filtri per imitare grana e saturazione della pellicola, ma anche ricolmo di un'ironia grottesca che lo porta a non prendersi mai davvero sul serio e graziato da un cast brillante, con un Danny Trejo per la prima volta protagonista assoluto di una pellicola creata su misura per lui; pellicola divertente, che non rinuncia ad ironizzare sulla politca americana e sull'immigrazione, per merito sopratutto di un redivivo Robert DeNiro che si diverte come un matto nel parodiare George W.Bush in quella che è, a tutti gli effetti, la sua ultima vera performance attoriale, "Machete" riusciva ad intrattenere nonostante la palese superficialità con cui Rodriguez dirigeva il tutto; superficialità che portava ad un ritmo fiacco e alla mancanza di veri momenti "cult" che permettessero al film di essere ricordato.
Con "Machete Kills" Rodriguez porta il concetto di "trailer esteso" al di là di ogni possibile immaginazione, tant'è che il film si apre con un trailer: quello del suo stesso sequel, annunciandoci fin dai primi secondi come di fatto esso "non finirà"; per l'ora e mezza successiva si assiste così ad una parata senza sosta di "scene madri", in cui l'iconico protagonista salta, combatte, mozza arti e teste ed esclama battutacce su sè stesso in terza persona; il tutto come se l'intera pellicola fosse, appunto, un trailer, ossia un concentrato di scene salienti atte a stuzzicare la curiosità del pubblico, ma gonfiato oltre misura. Il personaggio di Machete diviene così la quint'essenza dell'eroe action: bidimensionale nella caratterizzazione di "eroe buono al servizio del Presidente" (intrerpretato da Charlie Sheen, alias Carlos Estevez in omaggio alle sue origini messicane) e sopratutto immortale, Machete è il condensato di tutti i vari John Rambo, McClane et similia che si sono avvicendati sugli schermi americani nel corso degli ultimi trent'anni, il tutto bollito in salsa messicana e servito con un contorno di volti di noti che si prestano al gioco (tra le new entries Mel Gibson, oltre che lo stesso "Estevez" e Antonio Banderas) e donne fatali dal grilleto facile, tra le quali spuntano Amber Heard nei panni della parodia della "principessina bionda" e Sofia Vergara in quelli della vendicativa dominatrix armata di lingerie sputafuoco.
Eppure, in tutta la fanfara di esplosioni, inseguimenti, volti noti divertiti e curve sensuali c'è una nota stonata: manca fatalmente il divertimento; il luna park imbastito da Rodriguez e soci questa volta non emoziona, non diverte, in sostanza non intrattiene; l'ironia non riesce mai a strappare sorrisi, nemmemo quando si manifesta sotto forma di violenza grottesca e parodistica, i personaggi non suscitano simpatia nonostante la loro iconicità (su tutti il villain di Mel Gibson, sorta di cattivo alla James Bond con il potere della preveggenza) e l'azione, pur presente in forti dosi, non crea tensione né stupisce; il motivo della piattezza va cercato nello stile con cui Rodriguez si approccia alla sua "creatura": un divertimento totalmente personale, che non cerca mai la complicità del pubblico e che finisce per piegarsi su sè stesso, nell'autocompiacimento più puro e beota; in tutto questo non aiuta di certo la storia, sorta di rifacimento di "1997: Fuga da New York" (1981) in salsa chili mischiato con forti dosi di "007: Moonraker" (1979), tanto che sembra che l'autore voglia elevare il suo giustiziere di confine a nuovo James Bond messicano, dimenticando, fatalmente, la prima lezione da conoscere per creare un buon film di intrattenimento: divertire il pubblico prima ancora che i propri attori; e a poco serve infarcire il tutto con forti dosi di ironia atte a parodizzare le fonti di ispirazione: la mancanza di idee è palese, la voglia di creare una mitologia messicana con al centro il volto da duro di Trejo non è mai supportata dalla scrittura, tanto meno dalla regia, entrambi messe al servizio del puro divertimento personale del regista, che lungo l'ora e mezza di durata perde di vista ogni punto di riferimento (il cinema d'exploitation, l'action comedy, il western) e finisce solo con l'inanellare una serie infinita di scene senza senso e mai divertenti.
Inutile sottolineare come il fallimento dell'operazione sia un peccato: di fronte alla complicità di un cast iperbolico con al centro un caratterista del calibro di Danny Trejo, i numeri per una buona action-comedy c'erano davvero tutti.
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