di Ridley Scott
con: Michael Douglas, Ken Takakura, Andy Garcia, Kate Capshaw, Yusaku Matsuda, Shigeru Koyama, John Spencer.
Poliziesco/Thriller/Noir
Usa (1989)
---SPOILERS INSIDE---
Una delle (tutto sommato poche) regole ferree del cinema è che l'esito di un film affidato ad un mestierante dipende necessariamente dallo script su cui si basa; e a Ridley Scott era andata malissimo con il precedente "Chi Protegge il Testimone" (1987), il suo film peggiore degli anni '80; ma due anni dopo, la sorte (o l'accortezza) porta l'ex autore britannico alla regia di una sceneggiatura scritta a quattro mani da Craig Bolotin e Warren Lewis, autori pressocchè sconosciuti che imbastiscono un poliziesco a tinte noir ambientato quasi interamente in Giappone, ma con protagonista un poliziotto newyorkese; e l'esito, questa volta, è decisamente più riuscito.
Nick Conklin (Michael Douglas) è un poliziotto di Manhattan messo sotto accusa per una storia di corruzione (che presto si rivelerà fondata); per caso assiste, assieme all'amico e collega Charlie Vincent (Andy Garcia), ad una sparatoria tra criminali della yakuza, nel quale il piccolo boss Sato (Yusaku Matsuda) uccide un rivale; arrestato Sato, saranno Conklin e Vincent ad estradarlo in Giappone. Ma una volta giunti nel paese del sol levante, i due se lo fanno sfuggire, scatenando le ire della polizia locale; con l'aiuto del solo ispettore Masahiro (Ken Takakura), i due sbirri americani ingaggiano una disperata caccia all'uomo che li porrà al centro di un furioso scontro tra clan della yakuza.
Torniamo indietro di cinque decadi; il Giappone si impone come seconda potenza economica mondiale in modo definitivo; il boom economico successivo al disastroso esito della II Guerra Mondiale dà i suoi frutti, il paese si riprende totalmente e, grazie ai forti investimenti nel campo dell'edilizia e della ricerca scientifica, cambia faccia, si modernizza in modo radicale e riesce ad imbastire un'industria tecnologica che non ha pari in tutto il globo; agli occhi degli occidentali, i paesaggi metropolitani nipponici fatti di infinite arterie di asfalto, ciclopiche torri di cemento e acciaio ed enormi insegne luminose sembrano provenire da un futuro fantascientifico, tanto da stuzzicare l'immaginazione di Andrei Tarkowsky per "Solaris" (1972) e dello stesso Scott per "Blade Runner" (1982).
Flash-Forward: venti anni dopo, anni '80; le corporazioni giapponesi, le "zaibatsu" raggiungono un potere economico immenso e decidono di investire i loro capitali in occidente, in particolare in America, cominciando a comprare parti importanti del mercato tecnico ed informatico; l'impatto culturale è immane: la società americana, fortemente arroccata nei suoi valori fondativi e ancora fortemente segnata da una xenofobia atavica, comincia a temere una nipponizzazione coatta dei costumi; paura per la "furia gialla" che gli spettatori assimilano grazie a pellicole quali "Ritorno al Futuro- Parte II" (1989), "Gung Ho" (1986), "Mr Baseball" (1992) e sopratutto "Sol Levante" (1993), adattamento del più polemico tra i romanzi di Michael Chricton, nel quale la società giapponese viene ritratta in modo gretto ed apertamente razzista. Fortunatamente, non tutte le pellicole prodotte tra la metà degli anni '80 e i primi anni '90 (periodo nel quale la forte crisi economica interna al mercato nipponico pose fine definitivamente all'espansione estera) ritraggono i "gialli" come dei barbari senza cuore; già "Gung Ho" e "Mr.Baseball" davano una lettura positiva della cultura nipponica, mediante il registro leggero della commedia; con "Black Rain", invece, il poliziesco divene ideale terreno di scontro tra le due culture, dove è clamorosamente quella americana a soccombere in virtù dell'accettazione del diverso; ed è proprio questo uno degli aspetti migliori del film di Scott.
L'intreccio poliziesco intessuto dai due sceneggiatori semi-esordienti è claudicante: l'incipit, basato sulla casualità dell'incontro tra i due detectives e la yakuza, è poco credibile, così come sono debolissimi i punti di svolta dell'indagine dati sempre da casi fortuiti e, peggio ancora, la resa dei conti finale, virata verso l'action più pura con tanto di buchi di sceneggiatura assortiti (come fa Masahiro a sapere dove si svolge il meeting?). A conti fatti, tutta la trama altro non è se non un pretesto per far scontrare due personaggi totalmente antitetici; da un lato lo sbirro americano Conklin: rude, violento, totalmente compiaciuto dei suoi difetti, corrotto ed orgoglioso di esserlo; privo di qualsivoglia forma di rigore, è l'incarnazione stessa dell'americano medio degli anni '80, volitivo ed individualista fin nel midollo (mentre lo spirito edonista viene incarnato dal collega Vincent, perennemente abbigliato in abiti griffati); non per caso Conklin ha il volto di Michael Douglas, ossia l'ex Gordon Gekko, lo yuppie per antonomasia, che come al solita dà un interpretazione solida e credibile di un personaggio inizialmente viscido e scomodo.
Dall'altro lato (del Pacifico), Masahiro, perfetta incarnazione della tradizione nipponica: ligio al dovere, fortemente legato al suo senso dell'onore, al cameratismo con i colleghi e alle regole, ha il volto inflessibile e carismatico del grande Ken Takakura, super-star nipponica nota all'epoca anche in occidente per le sue partecipazioni a capolavori del calibro di "Non è più tempo di eroi" (1969) di Aldrich e sopratutto "Yakuza" (1974) di Pollack.
E l'incontro/scontro tra le due mentalità è costruito in modo esemplare: si parte con l'incomunicabilità ed il senso di smarrimento proprio dell'americano perso in un paese che non conosce e non comprende; Conklin odia Masahiro per il suo rigore, Masahiro non riesce a concepire la disonestà e lo spirito distruttivo di Conklin; lo scontro si sposta, idealmente, su un piano culturale, con il Giappone che rimprovera all'America di non riuscire a produrre più nulla di rilevante e, viceversa, con l'America che sottolinea la mancanza di inventiva del Giappone, in una serie di dialoghi serrati ed ottimamente portati in scena dai due protagonisti.
E' con la morte di Vincent che i due personaggi cominciano ad avvicinarsi, spinti da due sentimenti complementari: da un lato, il lutto amicale di Conklin, che perde un amico e compagno d'avventura; dall'altro lo spirito di cameratismo di Masahiro, che perde un collega conosciuto da poco, ma con il quale è riuscito a legare grazie alla sua mentalità più aperta nei confronti della tradizione nipponica. Il confronto tra i due si fa così più fluido, simile a quanto avveniva con i protagonisti dello splendido "Merry Christmas, Mr.Lawrence" (1982) di Nagisa: entrambi cominciano a comprendere il punto di vista dell'altro, a conoscersi anche e sopratutto sul piano umano e a collaborare.
Ma a differenza della pellicola di Nagisa e della stragrande maggioranza dei film di genere americani, questa volta è l'occidentale a dover ripiegare le sue posizioni, a doversi ricredere e ad abbandonare l'individualismo yankee, che si traduce anche, su di un piano della costruzione della storia, nell'abbandono della figura del poliziotto violento, lasciando che nel finale Conkiln agisca nei limiti del legale per sottolineare il suo ravvedimento; anche se l'epilogo è quantomai ambiguo: lo sbirro consegna le matrici al collega in segno di vero ravvedimento o per garantirgli un guadagno sottobanco? Non è dato saperlo, a riprova della debolezza della scrittura.
Debolezza che si fa sentire anche nella costruzione dei personaggi secondari; tolto Vincent, sorta di elemento complementare di Conklin caratterizzato in modo bidimensionale forse volutamente, è il personaggio di Joyce ad avere una rilevanza totalmente ancillare nella storia: la semplice bella e fatale che sembra introdotta solo per dare un vago interesse amoroso al protagonista; tant'è che se ci si ricorda di lei è solo per le belle forme e per la fredda permormance di una Kate Capshaw mai più così in forma.
Fortunatamente, nella costruzione dei de antagonisti, lo script ritrova ispirazione: il vecchio oyabun Oahshi è l'esponente della tradizione nipponica più pura, un patriarca dei tempi andati che rammenta allo yankee come l'ondata di violenza e i non-valori del giovane Sato siano di fatto un prodotto della sotto-cultura americana importata in Giappone che ne ha distrutto il volto più puro, come la pioggia sporca del titolo, la pioggia nera dell'olocausto nucleare che ha segnato indelebilmente la sua generazione.
Dal canto suo Scott immerge tutto il film in un'amtosfera notturna dal sicuro fascino; si affida totalmente alla fotografia di Jan De Bont (futuro regista di "Speed") per creare immagini spettacolari, che richiamano alla mente, immancabilmente, gli scorci della Los Angeles futuristica di "Blade Runner", ma che ora sono girate direttamente nelle locations di Osaka; immagini che, benchè prive della ricercatezza per l'inquadratura e della profondità del periodo migliore del cinema del regista britannico, riescono a colpire per la loro bellezza, del tutto inusitata finanche nelle produzioni più recenti; e, a discapito dell'anno di produzione, Scott dirige il tutto con un montaggio serrato ed un tasso di violenza iperrealista che avvicina "Black Rain" più al cinema poliziesco crudo degli anni '70 che al machismo superomista delle produzioni hollywoodiane degli '80, a riprova di come, sotto sotto, all'epoca sapesse ancora il fatto suo.
EXTRA
Come al solito con Scott, il montaggio del film subì dei rimaneggiamenti prima della distribuzione in sala; la theatrical cut, di 120 minuti, pur approvata dal regista non è la versione integrale, più lunga di circa 40 minuti e mai pubblicata neanche per il mercato home-video; pare inoltre che Scott abbia girato anche un finale alternativo, nel quale Conklin uccide Sato anzicchè consegnarlo alla polizia, anch'esso tutt'oggi inedito.
Sempre nel 1989 uscì un'altra pellicola dal titolo internazionale "Black Rain" ed ambientata in Giappone: "Kuroi Ame", in Italia "Pioggia Nera", capolavoro del grande Shoei Imamura ritratto del Giappone post-atomico degli anni '40.
Nessun commento:
Posta un commento