The Fisher King
di Terry Gilliam
con: Jeff Bridges, Robin Williams, Mercedes Ruhel, Amanda Plummer, Michael Jeter, Christian Clemenson, Tom Waits.
Drammatico/Commedia/Grottesco
Usa (1991)
Ripresosi dalla faticosa lavorazione del mitico "Le Avvenure del Barone di Munchausen" (1988), Gilliam decide per la prima volta di portare in scena uno script non suo: "The Fisher King", scritto da Richard LaGravanese, all'epoca sceneggiatore alle prime armi, ma che qualche anno dopo avrebbe esordito dietro la macchina da presa con lo splendido "Living out Loud" (1998).
All'apparenza i due autori sembrano inconciliabili: le fantasmagorie dell'immaginario di Gilliam sono tutt'un altro universo rispetto alle storie semplici ed ordinarie di LaGravanese, solitamente interpretate da un pugno di personaggi i cui destini si incrociano, si sfiorano e cozzano sconvolgendosi definitivamente a vicenda. All'apparenza: perchè di fatto "The Fisher King" non solo rappresenta l'ennesima prova riuscita di Gilliam, ma anche il suo film più intimista e commovente. E per la prima volta, il grande autore trova persino una produzione che gli si mette totalmente al servizio, nella persona di Debra Hill, già produttrice dei alcune delle migliori pellicole di Carpenter e dello splendido "La Zona Morta" (1983) di Cronenberg, che qui, come al solito, si mette totalmente a disposizione del regista, regalando a Gilliam quella che è a sua detta la migliore esperienza lavorativa della sua vita.
New York, anni '80; Jack Lucas (Bridges) è un disc jockey dai modi volitivi e cinici, che si diverte a tirare fuori il marcio da ogni interlocutore; yuppie convinto, ricco e famoso, Jack subisce un crollo quando un folle compie una strage in un famoso locale per gente bene ispirato dalle sue parole.
Tre anni dopo, Jack è un uomo alla deriva: attaccato come un parassita alla bella Anne (Mercedes Ruehl), proprietaria di un video shop che le offre una casa e il suo affetto, perso in una spirale depressiva ed autodistruttiva, durante una notte di delirio, viene attaccato da due giovani teppisti che, scambiandolo per un barbone, tentano di linciarlo; a salvarlo interviene Parry (Robin Williams), strambo senzatetto convinto di essere un cavaliere errante alla ricerca del Santo Graal; le cose si complicano quando Jack scopre che, prima di diventare un barbone, Parry era uno stimato professore universitario la cui vita è stata distrutta dalla strage causata tre anni prima.
Jack e Parry, due esistenze agli antipodi; prima del dramma, Jack era un qualunquista, uno yuppie come mille altri che millantava una sua presunta e pretestuosa superiorità intellettuale per galvanizzare un pubblico semplice e, sotto sotto, stupido. Parry era un uomo di lettere, un intellettuale vero che faceva della conoscenza la sua forza. Entrambi sono stati disintegrati dalla violenza: il primo dalla propria violenza verbale, inutile, sciocca, compiaciuta che è sfociata nella violenza fisica, che Gilliam ritrae senza filtri ricorrendo per la prima ad effetti splatter più forti di quelli visti in "Brazil" (1985); Parry è stato distrutto proprio da questa violenza fisica, che si è riverberata nella perdita totale del lume della ragione, nella distruzione della sua identità e successiva traslazione in un mondo immaginifico, "folle" ma reale quanto quello oggettivo in cui si muove Jack. Il loro incontro è fortuito: destino o caso, punizione divina o meno, LaGravanese non fa distinzione; è l'incontro in sé e non la sua causa a contare; un incontro che permetterà a Jack di redimersi e a Parry non di ritornare ad uno status quo borghese, bensì di realizzare un suo sogno d'amore.
Jack era uno yuppie, una persona dei quartieri alti solo nominativamente lontano dagli eccessi della gente "da bere" degli '80; un uomo in grado di pensare solo a sé stesso, di ignorare qualsiasi altra forma di vita che non fosse la sua, di liquidare un barbone bisognoso affermando che il suo gesto non gli avrebbe di certo cambiato la vita. Jack, in pratica, è un moderno Pinocchio, un uomo che fa della menzogna e dell'autoindulgenza la sua bandiera; ed è proprio il pupazzo di Pinocchio a divenire il suo feticcio a partire dal secondo atto, ritornando più volte nel corso del film come suo ideale doppio di legno e plastica, un oggetto di pura forma che rappresenta l'anima stessa del personaggio. E al contempo, Jack è il Re Pescatore, uomo accecato dalla gloria che resta ferito, morto nell'anima e disperatamente alla ricerca di un significato nella vita, con la mano destra perennemente fasciata come bruciata dal fuoco della leggenda.
Dopo il dramma, la sua identità si ricompone un pò alla volta per trasformarsi dall'edonismo onanista al suo esatto opposto: il cinismo autodistruttivo, una forma identitaria uguale ed opposta alla prima perché anch'essa votata al nulla e alla vacuità più pura; l'unica vera differenza nella vita di Jack è data dallo scenario, non più abiti griffati e freddi grattacieli, ma i quartieri bassi, popolati da hobos puzzolenti e casalinghe starnazzanti al posto di artistoidi deviati. In entrambi i "livelli", Gilliam tira fuori il peggio delle classi sociali, ripresentando la sua eterna condanna verso quella che è la vera vergogna dell'uomo moderno: la mancanza di immaginazione e, con essa, la totale mancanza di empatia. E nella costruzione di un personaggio perso e distrutto dal rammarico, Gilliam dà carta bianca a Jeff Bridges, il quale carica la sua performance di un pathos unico, arrivando genuinamente a commuovere nella splendida scena della "confessione" al pupazzo di Pinocchio.
La quest immaginaria di Parry diviene per Jack, il "cavaliere eletto" nelle fantasie del clochard, una missione di redenzione, la via per scontare quel male che ha perpetrato e che gli permetta di ritrovare la pace. Proprio Parry, personaggio creato da LaGravanese anzicchè dallo stesso Gilliam, è il personaggio che questa volta incarna la forza salvifica dell'immaginazione; una sorta di moderno Munchausen che vive in un mondo di sua creazione, nel quale la fantasia, questa volta, non è una forza salvifica in sé, quanto un modo di evadere da una realtà turpe, similmente a quanto accadeva al Sam di "Brazil"; fantasia che si fonde con la follia, intesa come incapacità di scindere i due piani esistenziali; nel caratterizzare questo strambo "eroe delle immondizie", Williams crea quella che è molto probabilmente la sua interpretazione migliore, passando da un istrionismo totale ad attimi di sincera e toccante emozione durante i quali mette da parte ogni follia per avvicinarsi al cuore ferito del suo personaggio.
Se il mondo di fantasia di Parry viene costantemente filtrato dallo sguardo di Jack, facendolo somigliare ad un moderno Don Chisciotte bardato con scarti ed immondizie a mò di armatura, nei momenti di crisi Gilliam disvela direttamente il punto di vista di Parry per dare vita alle sue paure; il Cavaliere Rosso, incarnazione delle stesse, lo insegue ogni volta in cui tenta di realizzare i suoi fini: raggiungere il Graal, conquistare l'amore; un cavaliere mostruoso, fatto di fuoco e fiamme che bruciano dall'interno così come il terrore divora l'anima di Parry; mostro di fuoco e fiamme perfetto erede del samurai di "Brazil": la paura etero e auto distruttiva trova una nuova incarnazione, ancora più mostruosa che in passato ed erede della tradizione fantastica occidentale, che si unisce, qui, alla violenza cinica delle "persone comuni" che alla fine del secondo atto distrugge Parry e lo fa ripiombare nello stato catatonico.
E Gilliam, come al solito, riesce a creare immagini dalla straripante potenza visiva grazie all'uso dei grandangoli stroboscopici e a dare alla narrazione delle singole scene una dinamicità inedita grazie all'uso del crane, che lungi dal divenire un vezzo virtuosistico, permette all'autore di dare corpo alla distanza tra i personaggi con movimenti di macchina fluidi e sapientemente controllati.
Le immagini si fanno più ricche e visionarie, paradossalmente, proprio quando l'autore si attiene maggiormente alla scrittura di LaGravanese, in particolare nell'ironica scena della cena "solitaria" di Anne e dello splendido "non-incontro" tra Parry e Lydia alla Central Station, trasformata in un giantesco e sognante walzer d'amore.
Sinergia perfetta, quella tra i due autori, che si ritrova nella splendida caratterizzazione dei personaggi secondari, le donne, che nella migliore tradizione dello sceneggiatore appaiono solo superficialmente come impacciate o sciatte, per poi disvelare tutto i loro universo mediante i sapienti dialoghi; e se Mercedes Ruhel ha giustamente ottenuto un Oscar per la sua donna sensuale ed emancipata, Amanda Plummer si rivela come perfetta maschera slapstick dalle movenze goffe, una sorta di versione femminile di Charlot che interagisce perfettamente con il vulcanico Williams; e Gilliam valorizza al massimo la chimica tra i quattro attori nella bellissima scena del ristorante, un piano sequenza statico sforbiciato in fase di montaggio nel quale l'autore lascia libero sfogo a Williams e alla Plummer, catturando perfettamente l'essenza cialtrona e romantica dei due personaggi.
Ma anche al di là dell'ottima direzione attoriale e delle canoniche fantasmagorie d'autore, Gilliam sorprende per il modo meno cinico con cui ritrae non solo la vicenda principale, ma anche il mondo nel quale i personaggi si muovono; oltre la critica, questa si, al vetriolo verso lo yuppismo anni '80, Gilliam crea una visione poetica, ma disincantata del mondo dei barboni; lontano da ogni idealizzazione manichea e dall'esaltazione del loro presunto "spirito libero" (che anzi viene sbeffeggiato in una delle ultime scene), l'autore dà un ritratto impassibile degli ultimi e del loro "mondo", una società nella società nel quale vige la sola regola della follia, nel quale le persone vivono esistenze allo sbando, prive di significato o speranza; e negli anni in cui Rudolph Giuliani tentava di ricreare l'immagine di Manhattan, Gilliam mostra una città sporca, nel quale convivono sullo stesso livello sia i poveri che i ricchi, separati da un muro invisibile, fatto solo di cinismo e nel quale il confine è labile, come dimostrato dal personaggio di Jack e sottolineato dallo splendido cameo di Tom Waits: un reduce di guerra convinto che chiunque, in fondo, sia portato alla follia in un mondo nel quale ogni singolo atteggiamento viene cronometrato e criticato; mondo che grazie alla splendida direzione artistica di Mel Bourne prende vita come un manicomio a cielo aperto o come una serie di lazzaretti nel quale gli ultimi sono ammassati come spazzatura vivente; mondo "altro" la cui intrinseca follia viene sottolineata da Gilliam con inquadrature ancora più sghembe e stroboscopiche.
La ricerca del Graal, della salvezza e redenzione in un mondo allo sfacelo diviene così dovere morale, impresa intrinsecamente folle, la quale però, caricata della forza della fede nella stessa, riesce davvero ad assurgere a forza salvifica vera e propria; salvezza per Jack, che si riscatta dalle sue menzogne e dalla presunzione ancora incalzante; salvezza per Parry, che nella realizzazione della sua fantasia trova la forza per riprendersi e coronare il suo sogno d'amore con Lydia; salvezza per Anne, la quale ritrova l'amore di un Jack ora maturo; e salvezza persino per Langdon Carmichael, il miliardario proprietario della presunta coppa del Graal (in realtà un giocattolo d'infanzia), la quale vita viene salvata proprio dall'incursione notturna di Jack, nell'ennesimo, fatale incrocio di destini.
Salvezza che però Gilliam non idealizza: non porta ad una vittoria totale, al riscatto dai bassifondi o ad una improbabile forma di "giustizia sociale", bensì all'accettazione totale ed incondizionata dell'altro, del lato folle, sporco, sognante, genuino, naif che c'è nel mondo; un mondo ancora cinico e violento, ma che grazie alla forza dell'amore e dell'amicizia, ossia dell'empatia, ora non fa più paura. Perchè almeno ora, forse per un istante o forse per sempre, "Love Conquers All" per davvero.
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