domenica 25 settembre 2016

Blair Witch

di Adam Wingard.

con: James Allen McCune, Callie Hernandez, Corbin Reid, Brandon Scott, Wes Robinson, Valorie Curry.

Horror

Usa 2016
















Fino a qualche mese fa, nessuno sospettava l'esistenza di un terzo capitolo della saga di Blair Witch. Il motivo è presto detto: Adam Wingard e i creatori dell'originale Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez ne hanno tenuto segreta l'esistenza sin dall'inizio della pre-produzione, ossia per ben cinque anni, prima ancora che Wingard e lo sceneggiatore Simon Barrett creassero sempre insieme a Sanchèz "V/H/S 2" (2013). Un segreto trattenuto persino al momento di rilasciare il primo teaser, pubblicizzato semplicemente come il nuovo horror di Wingard, nome ormai conosciuto anche presso il grande pubblico, grazie al suo coinvolgimento con il rifacimento americano di "Death Note" targato Netflix di prossima uscita. Quello che era stato inizialmente pubblicizzato come "The Woods" si è scoperto essere un sequel del cult del 1999 solamente durante l'ultimo Comic-Con, ossia a pochissimi mesi dall'uscita in sala.
Strategia di ben facile comprensione: a 17 anni dall'uscita del primo film, il "fenomeno Blair Witch" è stato ampiamente somatizzato dal grande pubblico, sino ad una rivalutazione negativa di quel piccolissimo horror che tanto spaventò le platee del 1999. Questo a causa dell'uscita di un sequel a dir poco dimenticabile (che infatti viene bellamente ignorato in questo nuovo film) e sopratutto dalla sovraesposizione del filone found-footage, che ha tirato la corda già da molti anni.
I tre autori e la Lionsgate hanno voluto saggiamente cogliere di sorpresa il pubblico per evitare eventuali feedback negativi; neanche la figura di Wingard poteva infatti garantire un effettivo interesse verso un franchise che non è mai decollato e i cui motivi di interesse potrebbero essere ad oggi nulli.
Eppure, quell'originario "The Blair Witch Project" meriterebbe davvero di essere riscoperto, o quanto meno di essere apprezzato per ciò che è: un piccolo esperimento di cinema horror che all'epoca distruggeva tutte le convenzioni del cinema mainstream riuscendo davvero a spaventare.




"The Blair Witch Project" nasce come reazione al desertico panorama del horror anni '90. Il filone splatter si era esaurito e già dall'inizio del decennio era stato confinato nel circuito dello straight-to-video, in produzioni da quattro soldi che di certo non riuscivano ad incutere timore, ne, spesso, a suscitare vero interesse. Tutte le conquiste estetiche e contenutistiche che la New Wave post-romeriana aveva imposto si erano perse nei meandri della ripetizione ad oltranza dei clichè dello slasher post "Venerdì 13"; i quali sarebbero stati sbeffeggiati a partire dal 1996 dallo "Scream" di Craven, pellicola che piuttosto che svecchiare il genere, finì paradossalmente per acuirne la mancanza di contenuti; laddove vi era bisogno di infrangere la tradizione, i cloni e gli epigoni di "Scream" si limitavano a riprendere luoghi comuni già vecchi e ad annaffiarli con dosi massicce di humor e metareferenzialità gratuita, usati giusto per dare una parvenza di intelligenza a prodotti privi di anima e mordente. Sanchez e Myrick operano invece in modo del tutto antitetico e anzicchè rifarsi al cinema contemporaneo, tornano indietro di oltre vent'anni e ripescano il leggendario "Cannibal Holocaust" (1980) di Deaodato.




Dal cult maledetto dell'autore di origine potentina ritorna l'idea del gruppo di giovani filmmakers scomparsi e il gusto per la fusione insistita tra realtà e fantasia. E' ormai inutile ribadirlo: "The Blair Witch Project" non ha creato il found-footage e tantomeno il mockumentary (la cui originare risale a "Las Hurdes" di Luis Bunel), ha solo permesso di coniarne il termine di riferimento. Praticamente ogni intuizione narrativa, estetica e di marketing è stata ripresa dal lavoro di Deodato o anche da un'altro piccolo horror indipendente, quel "The Last Broadcast" che già nel 1996 riprendeva la storia di un gruppo di cineoperatori scomparsi per creare un finto documentario, che anzicchè essere semplicemente proiettato nei cinema, veniva letteralmente trasmesso in contemporanea su più schermi sparsi per gli Usa, in un anticipazione di quanto avverrà nei 15 anni successivi con gli esperimenti teatrali della Royal Shakespeare Academy. Ma la genialità del duo di giovani registi americani risiede nell'essere riusciti ad elevare tutte queste fonti di ispirazione ad un livello più grande.




Particolare è, prima di tutto, il metodo di messa in scena utilizzato: non ci sono inserti di fiction, solo spezzoni di finte interviste che accrescono il senso di verosomiglianza. Non c'è una forma di regia diretta: i tre attori protagonisti sono davvero soli nei boschi e le immagini sono registrate effettivamente da loro per il tramite delle videocamere e macchine da presa che impugnano. Sanchez e Myrick hanno escogitato un modo originale ed inedito per dirigerli: abbandonati gli attori a loro stessi, veniva comunicato loro tramite coordinate GPS un percorso da seguire; in caso di emergenza, potevano comunicare con il campo base con dei walkie-talkie; alla fine di ogni percorso, i due registi lasciavano una cassa con i viveri (sempre più scarsi man mano che gli otto giorni di riprese trascorrevano) e delle istruzioni su come far comportare i personaggi; tutti i dialoghi sono stati improvvisati; per aumentare il senso di spossatezza e paura, ogni notte gli attori venivano disturbati dagli autori con schiamazzi e suoni improvvisi. Il risultato è un curioso ed azzeccato esempio di cinema-veritèe: pur interpretando dei personaggi in un contesto sovrannaturale, gli attori vivono sulla loro pelle le esperienze stressanti delle loto controparti, regalando reazioni ed emozioni dalla massima genuinità.




Fusione tra messa in scena e realtà che continua anche durante la fase promozionale del film. Per cercare di attirare l'attenzione del pubblico già da parecchi mesi prima dell'uscita del film (e al contempo per stuzzicare l'attenzione di possibili investitori), Sanchez ed Myrick confezionano una campagna pubblicitaria "virale" prima ancora che il termine esistesse. Riprendono l'imput di base sempre da quanto fatto da Deodato con il suo film cercando di vendere il prodotto come reale; costringono gli attori a tenere un basso profilo e ad apparire il meno possibile in modo da far credere di essere davvero spariti nel nulla. Durante il Sundance Film Festival, tappezzano le strade di Park City con finti manifesti sulla scomparsa dei tre personaggi. E sopratutto usano uno strumento allora inedito per creare interesse: Internet.





Sanchez ha curato da solo la creazione del sito omonimo del film. All'interno dello stesso era possibile visionare spezzoni delle finte interviste e pezzi del film, oltre che informarsi su tutta la storia riguardante la strega del Maryland e sui tre ragazzi partiti per girare un documentario e mai ritornati. Esperimento all'epoca senza precedenti: un sito-bufala creato per pubblicizzare un'opera di finzione. E funzionò: agli albori della massificazione della Rete, centinaia di migliaia di utenti cascarono nella trappola del marketing; si sparse presto la voce sull'effettiva esistenza dei fatti raccontanti e su come il film di prossima uscita fosse un vero e proprio documentario basato sui materiali recuperati nel bosco.
Tanto che alla presentazione del film al Sundance e alla successiva uscita in sala, il film fu un successo senza pari: a fronte di un bduget miserevole di appena 60 mila di dollari, l'incasso totale solo su suolo americano fu di oltre 140 milioni, un record senza pari ancora oggi insuperato, che rese "The Blair Witch Project" la produzione indipendente di maggior successo della storia del cinema sul fronte del rapporto tra costi e guadagno, superando persino "La Notte dei Morti Viventi" (1968), "Halloween" (1978) e "Caligola" (1979).





Già da questo resoconto è facile realizzare l'importanza del lavoro svolto dai due filmmakers: l'aver instaurato un trend di successo, una forma di marketing in grado di stuzzicare l'attenzione del grande pubblico sul fenomeno prima ancora che sul film in sé. Pratica che in molti hanno cercato di replicare; basti vedere quanto fatto da J.J. Arbams con "Cloverfield" (2008): anch'egli ha creato un film pubblicizzato per il solo tramite di un sito internet e scarsissime risorse video, creando un'aurea di mistero intorno al contenuto effettivo, rendendo i contenuti virali mediante forme di interattivittà con l'utente, il tutto per destare l'attenzione verso una pellicola found-footage. Ma laddove la creazione del "Re dei Pacchi" era, inutile negarlo, una "sola", un film brutto e genuinamente stupido, afflitto da uno script privo di logica e da una regia che usava l'escamotage della ripresa in prima persona solo per rendere il tutto più spettacolare, l'esito dell'exploit di Sanchez e Hale è invece perfettamente riuscito: "The Blair Witch Project" è un film che, al netto di difetti ovvi, fa paura, che riesce ad incutere timore con poco. E', in sostanza, un "arrosto" abbastanza sostanzioso celato dietro una coltre di fumo ormai dissipato che non ha fatto che renderlo più appetitoso.



Non stiamo parlando di certo del miglior film horror della Storia, né del film più spaventoso mai concepito, come titolavano articoli fin troppo entusiastici redatti alla fine degli anni '90; anzi: a volte lo spavento viene a mancare a causa di sequenze sin troppo dilatate, di inserti noiosi o inutili; e per tutta la durata del film, la sospensione dell'incredulità rischia sempre di infrangersi per il solito motivo che affligge tutti i found footage, ossia il quesito sul perché i personaggi non abbandonino le telecamere nei momenti clou.
Eppure, l'atmosfera desolata del bosco riesce davvero ad inquietare. Così come l'uso degli effetti audio. Tutta la tensione deriva, come nella migliore tradizione orrorifica, da ciò che non viene mostrato, ma suggerito: le urla dei bambini durante la notte, gli schiamazzi, le apparizioni notturne rimaste fuori campo. Si è spaventati, nelle sequenze di tensione, dall'impossibilità della via di fuga dovuta all'ambientazione e dall'atmosfera che vi si respira; oltre che per il tramite delle permormnce dei tre attori, che contribuiscono ad un'immersione totale nel mondo del film.
Ed è questo che fa la differenza con altri esponenti del filone, primo fra tutti il mai troppo detestato "Paranormal Activity" (2007): non ci sono jump-scare a tradimento, né falsi spaventi. La tensione è sempre, costantemente genuina, mai artefatta; non ci si sente, in sostanza, presi in giro, neanche quando, per forza di cose, questa scema e ci si accorge di come di fatto non sia accaduto nulla su schermo.


Tanto che le polemiche che nel corso degli anni sono state sollevate, appaiono gonfiate e fuori luogo, forse frutto della delusione di molti spettatori dovuta ad una campagna pubblicitaria davvero troppo sensazionalistica. Fatto sta che, alla fin fine, il successo ottenuto dalla creatura di Sanchez e Myrick è stato tutto sommato meritato: le loro intuizioni, ben condotte, si sono rivelate vincenti non solo sul piano dei numeri.
Numeri che hanno reso immortale la loro opera, fino al punto di meritarsi un sequel; ed è qui che arrivano i problemi per il duo. La Artisan Pictures, alla quale avevano venduto i diritti per la distribuzione, voleva un seguito del film che ne riproponesse le tematiche, ma i due cineasti erano più interessati ad un prequel che esplorasse il passato dei boschi di Blair e delle misteriosi morti che ne hanno costellato la storia. Diversità di vedute che ha portato alla loro esclusione dal progetto. Il quale, in un primo momento, risultava su carta anche molto interessante: la regia venne affidata a Joe Berlinger, autore dell'interessante serie di documentari "Paradise Lost", che esploravano veri casi di omicidi.
Ma alla fine qualcosa è andato storto: uscito ad appena un anno di distanza dall'originale, "Book of Shadows: Blair Witch 2" è un film che non ha nulla a che vedere con il suo predecessore; non ha la forma di un found footage né di un mockumentary, riprende in pieno tutti i cliché più stupidi del cinema horror dell'epoca fondendoli con quelli del thriller sovrannaturale che in quegli tanto furoreggiava a causa del successo di "The Sixth Sense" (1999), per creare una storia che non sta in piedi, non appassiona, non spaventa, non stupisce e che risulta afflitta da passaggi idioti e personaggi caricaturali.



"Book of Shadows- Blair Witch 2" è un caso da manuale, su questo non ci sono dubbi; ma contrariamente a quanto si possa pensare dopo la sua visione, non andrebbe catalogato sotto l'indice "seguiti brutti e inutili", ma sotto il ben più inquietante "pellicole distrutte a causa dell'ingerenza degli studios". Il vedere dietro al progetto un autore come Berlinger può far intuire come le cose si sono svolte: Berlinger ha creato un film diverso dall'originale e da ogni possibile fotocopia, ma la Artisan non ha apprezzato i suoi sforzi e ne ha ampiamente modificato i risultati.
Era stata dello stesso Berlinger l'idea di abbandonare il formato finto-documentaristico; la sua valutazione alla base era dovuta ad un biasimo verso la campagna di marketing del primo film, che aveva finito per raggirare il pubblico convincendolo della veridicità delle immagini. Berlinger, d'altro canto, aveva intenzione di creare una pellicola di fiction incentrata sul potere manipolativo dei mass media, tematica ovviamente correlata al "caso Blair Witch"; tanto che gli eventi di "Book of Shadows"  non avvenivano nel mondo dei tre studenti scomparsi, ma in quello, più vicino alla realtà, nel quale il film "The Blair Witch Project" era stato distribuito al cinema, venduto come storia reale, solo per rivelarsi come un incredibile gioco di fiction in grado di creare un fenomeno di culto. L'intento era di creare una satira sul fenomeno, che sarebbe iniziata con toni da commedia per virare, da metà in poi, verso il thriller vero e proprio. Non un horror convenzionale, quanto appunto un thrilling basato sulla paranoia e sull'incapacità di scindere il reale dall'immaginifico e sulla conseguente isteria di massa.
Per i personaggi, l'ispirazione era a dir poco aulica: rifacendosi a "Sei Personaggi in cerca d'autore" di Pirandello, Berlinger poneva al centro della vicenda un gruppo di ragazzi che personificavano le diverse reazioni che il pubblico aveva esternato a seguito del film; in un gioco di specchi, ognuno veniva ribattezzato con il nome del proprio interprete e fungeva a sua volta da specchio per il pubblico; si avevano così una patita dei culti Wiccan preoccupata per il modo in cui la stregoneria veniva dipinta nel film, una ragazza goth affascinata dalle tematiche della pellicola, due ragazzi "intellettuali" che dibattevano sull'effettiva linea di discrimine tra realtà e finzione ed un ultimo personaggio, un filmmaker, che intraprende con i suoi compagni un viaggio sui luoghi del film per motivi prettamente economici.




La vicenda avrebbe riguardato una storia semplice ma, almeno sulla carta, interessante: il gruppo si sarebbe recato nel bosco di Burkitvislle per documentare i veri luoghi del film e capire quanto di vero ci sia sulle leggende create ad hoc per venderlo. Dopo una notte di baldoria, avrebbero trovato le attrezzature per le riprese vandalizzate da ignoti; durante tutta la seconda parte del film, avrebbero cercato di ricostruire i fatti sulla scorta dei materiali video sopravvissuti.
Finite le riprese, Berlinger sottopose il suo cut allo studio, che come da copione non gradì affatto il risultato: troppo poco violento, troppo ambiguo nella narrazione, persino troppo complesso. Bocciatura che costrinse il regista a girare nuove sequenze da aggiungere al montato giusto per aumentare il tasso di violenza esplicita; oltretutto, i produttori aggiunsero ulteriori sequenze non filmate dal regista che ponevano uno dei protagonisti come un vero e proprio villain già all'inizio del film; scene caratterizzate da una bruttezza estetica unica e da una messa in scena semplicemente ridicola (perchè nella cella imbottita di un manicomio c'è una finestra in bella mostra, peraltro non protetta da sbarre?); colpo di grazia: tutte le sequenze furono rimontate in modo da alterare la progressione sia nella narrazione che nell'atmosfera. Non è abbastanza? Dopo il danno, la beffa: il titolo "Book of Shadows" fu incluso solo per motivi di marketing; per tutto il film, il famigerato "libro segreto delle streghe" non viene neanche menzionato.
Era chiaro, in sostanza, come ai produttori non interessasse creare un degno seguito per il film fenomeno che li aveva resi ricchi, ma solo avere un filmino dell'orrore da vendere per il periodo di Halloween (l'uscita in sala era prevista per il 27 ottobre 2000, giusto in tempo per il week-end di Ognissanti), attirando il pubblico con il marchio di "Blair Witch". Ed i risultati si vedono.




Scompaginati totalmente sceneggiatura e montaggio, "Blair Witch 2" è stato trasformato nella fiera del cliché condita con dosi elefantiache di idiozia e ridicolo involontario. Persa la natura metatestuale dei personaggi, questi finiscono per divenire delle figurine piatte e ridicole nei gesti e nell'apparenza. Non si può che ridere di pancia dinanzi alla visione della ragazza goth perennemente sommersa da chili di cerone e rossetto nero anche quando si aggira per boschi sperduti; così come davanti ai discorsi della wicca e ai suoi balletti al chiaro di luna che sembrano usciti da una riunione di un gruppo di hippie da due soldi. L'uso di jump-scares. falsi spaventi e finte visioni rende l'esperienza irritante ed anche stupida se si tiene conto di come l'intenzione originaria di Berlinger e, prima ancora, di Myerick e Sanchez fosse proprio quella di creare qualcosa di originale e lontano dagli stanchi canoni del cinema di paura degli anni '90. Ma poco importa: il successo globale di questo seguito garantì introiti alla Artisan. Tuttavia la pessima accoglienza da parte della critica e dagli stessi spettatori bloccarono ogni possibile continuazione per quello che nelle intenzioni degli stessi autori dell'originale poteva essere una nuova serie di pellicole horror.





Il pubblico si era stancato degli "scherzi" che circondavano il mito di Blair, era rimasto deluso da un sequel stupido e difficilmente sarebbe tornato per la terza volta nei cinema per vedere una nuova escursione tra i boschi di Burkitsville. Tanto che il filone found-footage resto il stand-by per circa otto anni, finché Abrams non avrebbe ripreso dal cult del '99 ogni singolo aspetto per creare il suo monster-movie/fregatura.
Il film di Wingard arriva così in un periodo in cui il found-footage ha persino sorpassato il momento di sovraesposizione, affossando (o per meglio dire, affossando ancora più in profondità) il genere horror. "Blair Witch", di suo, non è affatto un brutto film, anzi: Wingard riesce a creare un'ottima tensione sopratutto nell'ultimo atto, ma l'impianto falso-amatoriale finisce per stritolare molte delle sue ambizioni.





L'idea di ambientare il tutto nel 2014 e non all'indomani dei fatti del primo film, consente di utilizzare le nuove tecnologie per la messa in scena. Trovata non puramente estetica, ma anche stilistica: l'uso degli auricolari con camera incorporata porta a soluzioni grammaticali inedite, dove la differenza tra ripresa soggettiva e oggettiva talvolta scompare; sopratutto, risolve l'annoso quesito sul perchè i personaggi continuino a riprendere gli avvenimenti anche in punto di morte; l'uso dello strumento di ripresa diviene, nel finale, persino mezzo di sopravvivenza, in una delle trovate migliori del film. La creatività di certo non manca, d'altro canto Wingard e Bennet sono pur sempre due dei nomi migliori del panorama horror indie.
Ma nel momento stesso in cui partono i titoli di testa, allo spettatore viene già servito il finale della storia; lo svolgimento è poi facilmente intuibile, ricalcando per forza di cose lo schema "in crescendo" del filone. La mano di Wingard finisce per notarsi, oltre che le trovate stilistiche, solo per l'inserimento di inserti body horror e per l'ottima conduzione dell'ultimo atto, ispirata al punto di far dimenticare l'abuso di jump-scare.





"Blair Witch" si rivela quindi come un sequel riuscito, che riesce a riprendere i punti di forza del capostipite ed a gonfiarli; ma che per forza di cose non riesce ad essere sorprendente o spiazzante. Un horror nella media, un prodotto che se fosse uscito una quindicina d'anni prima avrebbe certo lasciato un segno, ma che oggi come oggi ha poco senso.







EXTRA

Un interessantissimo approfondimento riguardante il caos dietro le quinte a "Book of Shadows- Blair Witch 2" può essere visionato sul canale YouTube "GoodBad Flicks":


2 commenti: