di Paul Greengrass.
con: Matt Damon, Tommy Lee Jones, Alicia Wikander, Vincent Cassell, Julia Stiles, Riz Ahmed, Ato Essandoh.
Azione/Thriller
Usa, Inghilterra, Cina 2016
L'originaria trilogia su Jason Bourne ha rappresentato il paradigma del cinema d'azione degli anni 2000, ed è tutt'oggi un piccolo/grande esempio di sapiente utilizzo della grammatica filmica applicata allo spettacolo.
Cominciata nel 2002 con "The Bourne Identity", per la regia di Doug Liman, la serie, già in questa sua prima e più imperfetta incarnazione, mostrava dei tratti distintivi inusuali per l'epoca: al bando l'umorismo inutile, le esagerazioni fisiche finto-spettacolari ereditate dalla bastardizzazione del cinema hongkoghese, "Identity" si imponeva come una pellicola d'azione quasi stoica, che preferiva una forma di azione decisamente più fisica, fatta di stunt ed inseguimenti piuttosto che di computer graphic e wire work gratuito, il tutto innestato su di una storia che, a parte qualche eccesso fuori luogo, veniva condotta con un tono serio, senza derive ironiche o umoristiche, con una trama di base (ripresa dal palinsesto del romanzo omonimo di Robert Ludlum) che riportava alla mente le spy-story della Guerra Fredda.
Il vero vertice è stato raggiunto raggiunto con i primi due seguiti, "The Bourne Supremacy" (2004) e "The Bourne Ultimatum" (2007); il cambio di regia in questo caso è stato essenziale: Paul Greengrass è decisamente un cineasta dal polso più fermo rispetto al pur dignitoso Liman, ed è riuscito a far compiere alle gesta dell'ex superspia il salto di qualità necessario per renderle memorabili.
Lo stile di Greengrass si rifà apertamente a tutte quelle influenze che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato l'action hollywoodiano a partire dalla metà degli anni '90, in particolare l'uso del montaggio spezzato e serrato per la costruzione delle sequenze. Ma piuttosto che quello di Michael Bay e simili, il suo lavoro ricorda quello di Michael Mann: il ritmo è alto, ma ogni inquadratura è studiata, rendendo la visione fluida e adrenalinica, mai confusionaria. Stile che, proprio come Mann avrebbe fatto con lo splendido "Miami Vice" (2006), applica anche alle sequenze dialogiche e di raccordo: l'intero racconto diviene così pura azione, un flusso ininterrotto di immagini e azioni dove intrattenimento e narrazione si fondono in unicum indissolubile.
Ma è inutile negarlo: l'apice qualitativo lo si era raggiunto già con "Ultimatum"; l'esigenza di far proseguire la storia con il successivo "The Bourne Legacy" (2012) era prettamente economica: in assenza di Greengrass, lo sceneggiatore Tony Gilroy si è dovuto improvvisare regista, co-sceneggiatore e persino montatore per dare vita ad una side-story dove il personaggio di Matt Damon veniva sostituito da Jeremy Renner, in una pellicola che riprendeva tutti i topoi della serie, ma li riarrangiava in modo blando, poco ispirato e poco coinvolgente.
Il ritorno di Greengrass e Damon per questo quinto capitolo faceva presagire un ritorno ai fasti del passato; ma questo "Jason Bourne" altro non è se non un collage di situazioni già viste, attaccate tra loro da una storia raffanzonata e condotta con il pilota automatico.
Gli anni passano e l'ex superagente che ha fatto tremare i vertici della C.I.A. spreca la sua vita in combattimenti di bare-knuckels, finchè un giorno la sua ex alleata Nicky Parsons (Julia Stiles) finisce per coinvolgerlo in una nuova caccia all'uomo, con al centro, nuovamente, un progetto segreto e sperimentale.
Nulla di nuovo sotto il sole: Bourne è di nuovo chiamato ad investigare sul suo passato, che essendo stato scandagliato totalmente nel terzo capitolo della trilogia originaria, per forza di cose finisce per intrecciarsi con quello di suo padre. Mentre il solito super-capoccia, che ora ha il volto di Tommy Lee Jones, cerca di fermarlo prima che intralci i suoi piani, che in ossequio ai tempi che corrono concernono l'utilizzo delle informazioni captate via social network per fini di sicurezza nazionale.
Ad aggravare ulteriormente la mancanza di originalità ci pensa lo script, che ripesca a piene mani situazioni topiche da "The Bourne Supremacy": dall'uccisione improvvisa di un personaggio all'inseguimento per le strade di Londra, passando per la defezione improvvisata e forzata dell'analista di Alicia Wikander, sembra di assistere all'ennesimo remake di un vecchio successo piuttosto che ad un sequel, come moda impone; mentre l'uso di un antagonista che segue Bourne sin dall'inizio, il killer di Vicnent Cassell, anch'esso ripreso dal secondo capitolo della serie, viene mascherato in fretta e furia con la scusa della "vendetta", giusto per celare la mancanza di idee.
Ma la sceneggiatura imbastita dallo stesso Greengrass e da Christopher Rouse risulta irritante anche per altri, essenziali, motivi.
Il primo è la caratterizzazione del personaggio dell'hacker, vero motore degli eventi. Come in "Mr.Robot", il rivoluzionario pirata informatico viene descritto come un folle, un viscido pazzo innamoratosi di una rivoluzione impossibile e priva di ogni fondamento teorico che non sia la pura anarchia. Personaggio che in teoria potrebbe anche funzionare, se non fosse trattato come uno stereotipo da due soldi che finisce, per forza di cose, per perorare una visione superficiale e di cattivo gusto dei fenomeni Anonymus e simili; visione che scoperchia la tendenza della narrativa a stelle e strisce ad etichettare come folli tutti quei rivoluzionari che non portano avanti gli ideali americani (Dio, patria e famiglia), che si rifanno ad idee, ideologie o filosofie estranee all'America Way of Life e che per questo vengono sempre, costantemente ed irrinunciabilmente etichettati come anarchici alienati.
Il secondo motivo risiede nell'occasione persa rappresentata dalla sottotrama, collaterale e che si amalgama a stento con la storia di Bourne e soci, che vede la C.I.A. ricattare il creatore di un social network, sorta di versione etnica di Zuckenberg, per ottenere l'accesso ai dati. Il tema della perdita della privacy su Internet, sul rigetto del concetto stesso da parte degli utenti e sopratutto dell'uso necessario di strumenti che violino tale diritto per la sicurezza nazionale è di per sé complesso ed affascinante, ma lo script si limita ad usarlo come una sorta di McGuffin, l'ennesimo superpiano che Bourne deve suo malgrado distruggere, questa volta finendo per ricoprire le improbabili vesti di eroe.
Difetti di scrittura sui quali si potrebbe glissare se la regia fosse ispirata. Cosa che purtroppo non è: Greengrass mette in scena inseguimenti, sparatorie e rivolte di piazza con il pilota automatico, senza guizzi e senza tensione. Le sue inquadrature si fanno persino più scarne che in passato, meno profonde, quasi prive di centro di interesse; il che rende il montaggio a tratti confusionario e non privo di errori disturbanti. Persino l'inseguimento finale, grande e roboante, finisce purtroppo per divenire solo un festival di scintille e macchine che si rivoltano.
Tanto che, numeri a parte, si rimpiange la riesumazione del povero Bourne: tanto valeva lasciarlo in Grecia a combattere nei tornei clandestini; questa sua nuova avventura risulta solo dignitosa: un film certamente non brutto, ma davvero indegno di far parte di una serie giustamente celebrata.
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