di Steven Spielberg.
con: Harrison Ford, Kate Capeshaw, Jonathan Ke Quan, Amrish Puri, Roshan Seth, Philip Stone.
Avventura
Usa 1984
L'idea di cinema di George Lucas ha, più o meno da sempre, poggiato sul concetto di serialità. La sua opera omnia, quel "Guerre Stellari" (1977) che tanto cambiò le sorti del cinema, era stato si concepito inizialmente come un'unica, fluviale pellicola, ma si è imposta come il primo episodio di una lunga serie di exploit; i quali, fa sempre bene tenerlo a mente, non erano stati immaginati da Lucas ai tempi del college, come pur a lui piace affermare, ma erano frutto di una rielaborazione dell'idea originale a distanza di anni (decenni talvolta) dalla prima stesura della sceneggiatura del primo film, dal quale i seguiti riprendono molti elementi narrativi.
Di tutt'altro tenore è stato invece il concetto di serialità che Lucas ha applicato alla saga di Indiana Jones: fin dai primi passi del suo concepimento, la saga dell'archeologo armato di frusta era stata intesa come una trilogia di film, ognuno narrativamente slegato da quello precedente, che avrebbe sempre avuto al centro il personaggio del titolo alle prese con un McGuffin, in un mix di esotismo, esoterismo, azione ed avventura classica. Tant'è che lo stesso Spielberg dovette impegnarsi, già nel 1980, con un contratto plurifilm per assicurare una direzione unitaria al progetto.
Contratto che Spielberg si pentì di aver sottoscritto; perché pare che nel 1984 non avesse di certo voglia di rimettersi in viaggio per il globo per ridare vita alle peripezie del professor Jones, men che meno dovendolo fare sulla scorta di uno script (ad opera del Willard Huyck che due anni dopo avrebbe diretto "Howard the Duck") che pare non apprezzasse. Al punto che in molte interviste, ad anni di distanza, non nasconderà il suo scetticismo su tutto il progetto, dichiarando di non sapere perché, alla fine, abbia effettivamente diretto "Indiana Jones e il Tempio Maledetto".
Secondo capitolo che è in realtà un prequel dell'originale "I Predatori dell'Arca Perduta", non particolarmente apprezzato neanche dai fan: fino all'avvento de "Il Regno del Teschio di Cristallo" era infatti questo il film meno amato della serie, a causa dell'umorismo più marcato, dell'ambientazione indiana fatta di templi antichi, sette assassine e foreste verdeggianti lontane anni luce dai deserti del primo e del terzo film; e soprattutto a causa dell'inclusione di Short Round (Jonathan Ke Quan), il piccolo sidekick di Jones dalla battuta pronta, e di una bella di turno (la Willie Scott di Kate Capshaw, poi moglie di Spielberg) che non ha il carisma di Karen Allen e che viene utilizzata anche come controparte comica in siparietti poco riusciti.
Fatto sta che al netto delle critiche, questo secondo episodio delle avventure di Indiana Jones resta un film più riuscito di quanto si voglia ammettere e di come molte di queste critiche caschino nel vuoto se si tiene conto dell'effettiva natura del film in sé.
In parallelo con quanto fatto con la saga di "Guerre Stellari", anche qui Lucas concepisce un secondo capitolo più cupo del suo predecessore e che per impianto narrativo ed estetico vi si differenzia in modo totale; ad oggi, "Indiana Jones e il Tempio Maledetto" è il più originale dei film della serie, che aggiunge al calderone di generi anche una forte ed avvertibile spruzzata di horror, che fa capolino ora già nel secondo atto. Horror che compare sia nelle forme dello splatter già visto alla fine del precedente film, che in quelle, inedite, di un'atmosfera plumbea, a tratti opprimente e talvolta genuinamente spaventosa, tra schiavi bambini e jump-scare. Non stupisce come all'epoca questo insistere da parte di Spielberg negli aspetti più cupi nei suoi film (si pensi anche a "Poltergeist" e "Gremlins") abbia portato alla creazione del PG-13: quelle immagini erano forse davvero troppo forti per il pubblico di bambini che solitamente accorreva ai film del Re Mida di Hollywood.
Spielberg riesce davvero ad innestare questo nuovo "gusto" alla narrazione anche grazie alla divisione netta in atti del film. Laddove "I Predatori dell'Arca Perduta" era un flusso coerente di immagini ed azioni, "Il Tempio Maledetto" risulta volutamente più frammentario ed ameno. Si apre con un'ambientazione cinese, con una opening shot che si rifà al musical hollywoodiano classico, per introdurre i tre protagonisti in un intrigo che ricorda le spy-story degli anni '40. Dopo una rocambolesca fuga in aereo, Indiana Jones e soci si ritrovano nella verdeggiante India in una rievocazione del cinema d'avventura più in linea con i canoni della serie, La parte all'interno del palazzo del Maraja si rifà invece alla commedia brillante (il rapporto amore-odio tra Indy e Willie) e alla farsa (la cena a base di insetti e cervello di scimmia). L'ingresso nel tempio del titolo introduce l'elemento orrorifico, mentre il terzo atto è nuovamente un'incursione nei territori dell'avventura.
Ogni "genere" viene maneggiato con cura da Spielberg; la sua "malavoglia" mai negata non si avverte su schermo ed anzi in ogni sequenza ha sempre voglia di stupire con soluzioni divertenti. Naturalmente, è nelle scene d'azione che dà il meglio: nonostante un infortunio che ha tenuto Ford lontano dal set per due settimane, gli stunt si intrecciano alla perfezione con le sequenze ordinare e brillano sempre per le rutilanti coreografie. Da antologia è ovviamente la sequenza più famosa di tutto il film, ossia l'inseguimento nei carrelli della miniera, splendido esempio di perfetta fusione tra effetti speciali classici e stunt a rotta di collo, al punto da essere stata giustamente premiata con l'Oscar.
Ma a stupire maggiormente è la varietà delle situazioni: mai come in questo caso si ha la sensazione di essere davanti ad un'avventura-fiume, una serie ordinata (benché frammentaria e amena) di peripezie nelle quali Indiana Jones si trova coinvolto suo malgrado.
Purtroppo non tutto fila liscio; lo script di Huyck e il polso di Spielberg tentennano talvolta, mostrando due difetti che non permettono a questo secondo capitolo di raggiungere i livelli del primo: l'umorismo talvolta casca a vuoto e il ritmo è altalenante.
L'idea di usare la bella Willie come controparte comica unica, anzicché cucire lo humor addosso a tutti i personaggi e alle situazioni come avveniva nel primo film, non paga; il personaggio finisce per essere un mero pupazzo sballottato a destra e a manca, deriso da tutti, finanche dallo stesso protagonista, percéè incapace di sopravvivere da sola, una "donna dell'alta società" che è stereotipo della bionda scema, talmente basilare nel suo ruolo da risultare antipatico e fuori luogo.
Quanto al calo di ritmo, è dovuto forse proprio all'inclusione della traccia orrorifica: un ritmo più lento è d'obbligo per creare la giusta tensione e l'atmosfera adatta; ma il calo è fin troppo avvertibile a metà film, al punto da sfociare quasi nella noia. Va dato comunque il merito ai due autori di essere riusciti comunque ad inserirvi una trovata interessante, con un Indy malvagio convincente e spaventoso.
Vien da ridere, invece, se si tiene conto della critica che molti fan muovono al film: l'implausibilità di molte situazioni; con piglio perfettinista, i fanboys si sono divertiti a sottolineare come sarebbe impossibile sopravvivere ad una discesa a rotta di collo da una montagna a bordo di un canotto o come il cattivo Mola Ram ben avrebbe potuto uccidere Indiana Jones con il suo potere "strappa-cuori". La sospensione dell'incredulità non funziona così: le sequenze sono presentate sempre in modo credibile, non c'è mai vera esagerazione fumettistica o superomistica nella loro creazione, tanto che risultano poco credibili solo a voler cercare il pelo nell'uovo.
Al netto dei pochi, veri difetti, la cattiva fama de "Il Tempio Maledetto" appare esagerata: è un sequel imperfetto, lontano dall'equilibrio del suo predecessore, ma che riesce lo stesso ad intrattenere in modo più che adeguato. Un mix ancora più ardito, più ameno e altalenante, ma lo stesso incredibilmente divertente.
EXTRA
"Indiana Jones e il Tempio Maledetto" è famoso anche per un motivo alquanto particolare: in esso è presente uno dei camei più strambi e difficili da cogliere della storia del cinema, quello di Dan Aykroyd.
Non c'è da stupirsi se anche a seguito di ripetute visioni non si fosse in grado di individuarlo; l'ex Blues Brother appare infatti come una comparsa vera e propria in sole due inquadrature del film: dopo la fuga dal locale "Obi-Wan", Indy, Willie e Short Round lo incontrano, per pochissimi istanti, all'aeroporto dove prendono il volo che li catapulterà in India, dove veste i panni di un ufficiale dell'esercito.
E che gli vuoi dire, a Indy? Film trascinante e divertentissimo!
RispondiEliminaIo nulla: erano i suoi anni d'oro. Ma molti non lo hanno capito.
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