di Kathryn Bigelow.
con: John Boyega, Will Poulter, Anthony Mackie, Algee Smith, Jack Reynor, Kaitlyn Dever, Hannah Murray, Austin Hèbert.
Drammatico/Storico
Usa 2017
Il 23 Luglio 1967, la polizia di Detroit irrompe nel Blind Pig, locale del West Side frequentato per lo più da afroamericani, e con la scusa della mancanza di licenza da parte del gestore cominciano una serie di arresti ingiustificati ai danni degli avventori. Irruzione che presto degenera in un violento scontro con la popolazione locale; violenza genera violenza e quella che era partita come una piccola rivolta contro una retata si trasforma, nel giro di poche ore, nella più sanguinosa sommossa avutasi su suolo statunitense nel XX secolo: 5 giorni di scontri tra la polizia e gli abitanti del quartiere, 48 morti, quasi 1.200 feriti e circa 2.000 edifici dati alle fiamme; situazione sedata solo grazie all'intervento dell'esercito, mobilitato direttamente dalla Casa Bianca, laddove persino l'azione della Guardia Nazionale si era rivelata inefficace.
Cinquant'anni dopo, l'America di Trump è uguale e diversa da quella di Lyndon Johnson: la politica di chiusura, culminata in vere e proprie leggi razziali, si contrappone ad una visione popolare costantemente impaurita da minacce di accuse di razzismo o sessismo, che fa dell'inclusivismo spicciolo e del politicamente corretto un tanto al chilo la propria bandiera, per pura paranoia piuttosto che per vero principio solidale.
La riscoperta di un passato così lontano e al contempo così vicino sembra quasi d'obbligo, vuoi per sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della segregazione razziale, vuoi per far spalancare gli occhi ai finto-progressisti su cosa essa fosse davvero. Compito affidato a Kathryn Bigelow ed al suo sceneggiatore di fiducia, il marito Mark Boal. Coppia che aveva già portato su schermo gli orrori del disordine da stress post traumatico con "The Hurt Locker" e ricostruito la cattura del diavolo antiamericano Bin Laden in "Zero Dark Thirty"; e che ora, per la prima volta, si confronta con il lascito della storia ed il problema dei diritti civili.
Nel contesto odierno fatto di sorrisi ipocriti e falsi moralismi, ben si potrebbe etichettare "Detroit" come un film ruffiano, che ritrae l'uomo bianco come un assassino in un periodo in cui tale figura è il nuovo spauracchio d'America, mentre il nero viene ritratto sempre come vittima impotente di un sistema ingiusto. Il che forse è in parte vero: di certo agli americani odierni fa piacere percuotersi il petto per espiare il peccato della segregazione razziale; e percuoterselo in pubblico, dinanzi agli occhi di tutti, isolando chiunque resti immobile, gesto fine a sè stesso; basti pensare che a margine della produzione del film le polemiche non sono mancate, prima fra tutte quella del casting di John Boyega, inglese che, nelle parole di niente meno che Samuel L.Jackson, è venuto in America per rubare il lavoro agli onesti attori afroamericani, neanche fosse un comizio della Lega.
Ma non si può per questo sminuire il laovro della Biegelow, che anzi serve a ricordare quanto la democrazia sia fragile, quanto sia semplice sottomettere il prossimo o subire passivamente le violenze in un sistema che lo consente impunemente. Senza contare come la forza delle sole immagini di "Detroit" già da sola basterebbe come perfetto monito.
Diviso in tre atti distinti, ossia le rivolte, il massacro al motel Algiers e le conseguenze di questo, più un prologo animato che setta i toni: gli afroamericani non sono solo figli della schiavitù, ma anche immigrati giunti nel Nuovo Mondo come i primi coloni, per i quali tuttavia c'è solo l'isolamento e la miseria, anche quando i diritti civili sono sulla carta garantiti a tutti.
Il primo atto è anche il più graffiante: le proteste sono ricreate in modo certosino, non sembra di assistere ad un film di fiction, ma ad un documentario o ad un servizio in una zona di guerra a 24 fotogrammi al secondo. Rispetto al passato, la Bigelow usa ancora più insistentemente la camera a mano, sempre ad altezza d'uomo, prospettive multiple in contemporanea e, di conseguenza, montaggio spezzato, fino alla frammentazione della scena; l'intento è la ricerca di una forma di autenticità, che viene trovata in pieno finchè ad essere protagonista è la folla, la calca di individui senza nome che come un unico individuo si scontra con le forze dell'ordine e mette a ferro e fuoco il quartiere.
Nell'approcciarsi ad i singoli personaggi, nel secondo atto, con la ricostruzione della vergognosa tragedia del Algiers, per forza di cose il film perde mordente; i personaggi, ricalcati sulle loro controparti reali, sono tagliati con l'accetta, non hanno sfumature, benchè la presenza dell'ufficiale Roberts, unico bianco dotato di empatia, riesca ad evitare di far scadere tutto nella farsa.
Il piglio registico trasforma la cronaca in un'iperbole: il racconto diviene simile a quello di un film horror, quasi un home invasion con i poliziotti nei panni degli assassini sbandati di turno. La violenza, quando entra in scena, è brutale, cruda, per questo sempre disturbante. Ancora, le singole immagini, sghembe e sgranate, riescono a colpire nel profondo.
Mentre il terzo atto è anche il più convenzionale, con tutte le conseguenze immaginabili per i protagonisti, ma si tratta pur sempre di avvenimenti realmente accaduti, di certo non colpa di Mark Boal.
"Detroit" si impone così come una cronaca ai limiti dell'espressionismo, dove il realismo della messa in scena si trasmuta in specchio deformato della realtà, che ne accentua i contenuti rivoltanti. Un film forte, duro, che non concede pietà, ma che riesce al contempo a non essere ricattatorio, in un equilibrio tra impegno, verosomiglianza e spietatezza.
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