di Roman Polanski
con: Emanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Dominique Pinon.
Thriller
Francia, Belgio, Polonia 2017
---CONTIENE SPOILER---
La paranoia che porta alla destrutturazione percettiva è uno dei temi essenziali nel cinema di Polanski; bene o male, quasi tutti i suoi personaggi si ritrovano a vivere in uno stato di paura inconscia che altera la realtà che li circonda, catapultandoli in incubi ad occhi aperti. Basti pensare a "Rosemary's Baby" ed alla paranoia del parto, alla penefobia di "Repulsion" o al mistero di "La Nona Porta".
Con "Quello che non so di lei", Polanski ritorna alla tematica della paranoia e dell'inscindibilità tra percezione e reale, declinandola in chiave para-oggettiva, perdendo in toto il fascino che ha da sempre caratterizzato il suo stile.
Delphine (Emanuelle Seigner) è una scrittrice acclamata che entra in una spirale depressiva a causa del blocco dello scrittore. Situazione che sembra aggravarsi quando conosce la bellissima e misteriosa "Lei" (Elle in originale, interpretata da Eva Green).
La specularità tra i due personaggi è presto servita: entrambi scrittrici (Lei è una ghost writer, come in un exploit decisamente più riuscito del regista) e donne indipendenti, ma Delhpine è acclamata, Lei vive nell'ombra, dapprima delle star di cui scrive le autobiografie, poi di Delphine, che cerca di far uscire dal suo stato di blocco.
La metafora è ancora più lampante: Lei è l'ispirazione che si insinua nella psiche e che porta la scrittrice ad un passo dalla morte; un' "amante" esigente e violenta, che domina il suo oggetto del desiderio e non concepisce interferenze esterne.
Il colpo di scena è prevedibile sin dalla prima apparizione della Green: Lei altro non è che un'emanazione della psiche di Delphine, che prende di volta in volta ruoli differenti; dapprima amica sincera, poi invidiosa, poi ancora doppio totale che si appropria della sua identità (richiamando alla mente il purtroppo dimenticato "Inserzione Pericolosa") ed infine matrigna diabolica (come in "Misery"); tutto già visto in altre pellicole, oltre che ovviamente prevedibile in ogni sua svolta.
Prevedibilità a parte, è lo stile di Polanski ad affossare ogni tipo di velleità; l'estetica espressionista di "Repulsion" e "L'Inquilino del Terzo Piano" è lontana mille miglia; la messa in scena, ora, non è deformazione del reale filtrato dalla mente della protagonista, ma una realtà puramente oggettiva nella quale si muovono i due personaggi, sia quello reale che quello immaginario. Viene a mancare, di conseguenza, ogni tensione, sia letterale che psicologica; non ci sono simbolismi, né vere metafore, solo una narrazione diretta e piattissima, scene che si incastrano in un collage che ritrae un quadro già visto e lo fa con colori sbiaditi.
Ogni motivo di interesse finisce per perdersi subito: la noia prende sovente il posto della tensione, come se Polanski fosse troppo vecchio e stanco per girare un vero thriller. Adagiandosi sul confronto tra due figure simili e speculari, d'altro canto, porta a casa un risultato scialbo e dimenticabile, davvero indegno del suo nome e di quello di Olivier Assayas, qui sceneggiatore, anche se non si direbbe.
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