sabato 19 gennaio 2019

Vice- L'Uomo nell'Ombra

Vice

di Adam McKay.

con: Christian Bale, Amy Adams, Sam Rockwell, Steve Carell, Eddie Marsan, Allison Pill, Tyler Perry, LisaGay Hamilton, Jesse Plemons.

Biografico

Usa 2018














C'è un interrogativo sotteso a tutto "Vice", inespresso e senza risposta, per questo doppiamente inquietante: perché Dick Chaney insegue così ostinatamente il potere assoluto? Perché questo politicante, che definire "controverso" sarebbe a dir poco eufemistico, vuole diventare, nelle parole dello stesso McKay, un "divoratore di mondi"?
E' proprio questo uno degli aspetti più sorprendenti di "Vice", ossia il voler descrivere la carriera cinquantennale del perfetto burattinaio della politica americana, senza voler mai davvero dare un giudizio netto verso di lui.
McKay, dal canto suo, usa uno stile al sempre acido e irriverente, quello di una vera e propria pernacchia verso il potere. Adopera come punto di vista quello di un uomo qualunque, chiamato senza apparente motivo (almeno inizialmente) a raccontare una storia dalla quale dista centinaia di miglia, saldamente arroccata com'è nei palazzi del potere americano, la quale, per forza di cosa, appare incredibile, lontana anni luce da ogni possibile logica.



Il Dick Chaney al centro del racconto è ritratto con impietosa rigidità: un fallito, un alcolizzato proveniente da uno degli stati più remoti del Nordamerica (il Wyoming), il cui unico ruolo apparente è quello di essere il biglietto di ingresso nella società degli uomini per l'ambiziosa moglie Lynne (Amy Adams), la cui forte ambizione la eleva al di sopra del classico ruolo di "Lady MacBeth" a vera e propria figura formativa per Chaney. Il quale si ritrova, forse senza neanche sapere il perché, come lacchè di quel Donald Rumsfeld (Steve Carell) che a sua volta diverrà suo sottoposto.
Un uomo qualunque, anzi uno "stronzo" (sempre parole di McKay) che si ritrova nei corridoi del potere di Nixon, solo per poi divenire uomo di punta dell'amministrazione Reagan in primis, di Bush padre in secondo luogo.
E come scherzosamente suggerito, il film potrebbe finire qui, potrebbe chiudersi con un Chaney che si ritira a vita privata, come CEO della compagnia petrolifera Halliburton e buon padre di famiglia, se non fosse stato per l'ingerenza di un George W.Bush (un Sam Rockwell la cui mimesi fa a gara con quella di Bale) che, per distanziarsi dal padre, decide di gareggiare per la Casa Bianca con Chaney come vice, aprendogli la possibilità di divenire davvero l'uomo più potente del mondo.



Un Dick Chaney che Christian Bale ritrae per il tramite di una metamorfosi fisica al solito sconvolgente, ma senza mai eccedere nell'overacting, restando sempre clamorosamente tra le righe, anche quando il contesto narrativo oltrepassa i limiti del grottesco.
Un grottesco che rappresenta null'altro che la realizzazione dell'anarchia del potere: non c'è un'idea guida alla base delle azioni dei personaggi, tant'è che quando un giovane Chaney chiede al mentore Rumsfeld in cosa loro credano davvero, riceve come unica risposta una fragorosa risata. Persino i valori fondamentali solitamente accostati alla destra americana di "Dio, patria e famiglia" vengono gettati fuori dal finestrino: benché Chaney sia un pio padre di famiglia al punto di accettare tranquillamente l'omosessualità della figlia maggiore, non arriva mai ad adoperare il valore familiare come portabandiera della sua stessa politica.
McKay si diverte a polverizzare costantemente la quarta parete, a chiamare in causa continuamente lo spettatore, quasi ad interrogarlo su quanto assiste; come nella scena post-credit, dove immagina la reazione di un gruppo d'ascolto che vede una possibile sovrapposizione tra il passato recente americano ed il presente di Trump, con tanto di disinteresse della "massa", distratta dalle quisquilie di turno. Bisogna quindi chiedersi sempre il perché delle azioni del protagonista, anche quando sembrano chiare e cristalline.



Poiché sarebbe facile liquidare la cattiva politica di questo supremo manipolatore come una sorta di "lunga mano" della lobby petrolifera (la quale, come il film ci ricorda alla fine, vede un incremento del 500% del valore delle proprie azioni grazie alla campagna militare in Iraq) o, ancora, come una semplice forma di colonialismo spinto dal clima di terrore post-11 Settembre. Politica che ha portato alla morte di migliaia di soldati americani, altrettanti civili e all'ascesa dell'Isis e del suo leader Al-Zarquawi, praticamente creato ad hoc dai vertici del potere americano. Ma McKay decide saggiamente di andare oltre la semplice speculazione, ritraendo la follia del potere in modo vivido e selvaggio, per questo incredibilmente grottesco, quasi ridicolo nelle proprie azioni sconsiderate (benché il tono nella seconda parte si faccia decisamente più serio). Una realtà talmente folle da poter essere descritta con efficacia solo tramite un registro altrettanto grottesco, il quale finisce inevitabilmente per raggiungere il suo scopo: gelare il sangue di chiunque sia assennato.



Si assiste così impietriti alle azioni del burattinaio dell'era Bush, si è sconvolti dalla sua sconsideratezza, dalla sua scaltra capacità di riuscire a convincere chiunque a compiere le azioni più folli e prive di senso, tutte rigorosamente documentate. Tanto che, alla fine, sembra quasi di essere dinanzi ad un vero e proprio docu-drama in cui gli attori sono mere controfigure dei personaggi reali.
McKay crea così una perfetta commedia sul potere, dove però non si ride mai, anzi si vorrebbe quasi gridare dalla paura. Un film che fa a pezzi ogni possibile struttura narrativa canonica nella scrittura, gioca costantemente con i ruoli dei personaggi e i conseguenti registri narrativi, per creare un affresco spaventoso, ma sempre, rigorosamente, verosimile.

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