di Pier Paolo Pasolini.
con: Ninetto Davoli, Franco Citti, Vincenzo Amato, Angela Luce, Giuseppe Zigania, Gabriella Frankel, Pier Paolo Pasolini, Silvana Mangano.
Italia, Francia, Germania (1971)
Conclusosi il Ciclo del Mito, Paoslini inagura nel 1971 la cosidetta "Trilogia della Vita": tre pellicole tratte da antologie di racconti medioevali che esaltano la gioia della carnalità e l'esuberanza delle passioni, giustapposte (mai contrapposte) alla forte spiritualità del contesto in cui si svolgono. Primo capitolo è "Il Decameron", adattamento di nove racconti della celebre opera di Boccaccio, che l'autore mette in scena estrapolandoli dal contesto dell'episodio-cornice ed immergendoli tra le vie e le campagne di Napoli.
La società trecentesca rivive, nelle pittoriche e spettacolari immagini, come preistoria dell'odierna società borghese; la Napoli pasoliniana altro non è che una versione arcaica dell'Italia del XX secolo, un Italia in cui la rivoluzione borghese si è appena compiuta (e di fatto non vi sono nobili tra i personaggi del film) e la cui identità non si è ancora fossilizzata a causa del perbenismo ipocrita; i personaggi sono tutti "popolari", siano essi mercanti o braccianti, e vivono la propria carnalità con la gioia di un adolescente; l'unico episodio in cui vi è una condanna del sesso è quello (tragico) di Lisabetta da Messina (il più straziante tra i racconti originali), in cui il rapporto tra la bella protagonista e il manovale Lorenzo viene punito dai di lei fratelli; ma anche qui Pasolini sottolinea l'innocenza dell'amore dei due ragazzi contrapposto all'ipocrisia dei fratelli (uno dei queli è a letto con una serva mentre scopre la relazione della sorella) e, sopratutto, tronca il racconto prima dell'epilogo orignale per dare una speranza di felicità al personaggio.
E' una carnalità viva e pulsante, quella ritratta dal grande autore; la gioia della vita concretizzata mediante l'estasi del corpo, privata di ogni deriva torbida e calata in un'atmosfera gioiosa, festiva, la celebrazione di quanto di più bello ci sia nell'eccitazione dei sensi. Una sessualità vissuta con naturalezza dai personaggi, per lo più adolescenti, mai vista come un tabù; persino quando questa viene riconosciuta come un peccato (l'ultimo episodio, "Tingoccio e Meuccio"), vi è la rivelazione, finale e liberatoria, della non-condanna da parte di Dio dell'estasi; messaggio forte, che oggi risulta datato poichè oramai assimilato dalla società, ma che all'epoca generò scandali a non finire.
E la sessualità viene ora più che mai portata in scena dall'autore in modo diretto: corpi nudi che si abbracciano e si congiungono e genitali in primo piano divengono le immagini più vive e signoficative; generando, all'epoca, scandalo presso i "benpensanti", nonchè una viva curiosità da parte di quel pubblico "popolare" che tanto reprimeva quegli impulsi che l'autore celebra; tant'è che il successo al botteghini garantì la nascita di un vero e proprio filone apocrifo: il "decamerotico", ossia la declinazione "medioevale" del "chiappa e spada".
Ma non sono solo le novelle "licenziose" ad essere portate in scena; tra le altre spunta anche "Andreauccio da Perugia" (interpretato da un ottimo Ninetto Davoli), concessione alla commedia "popolare", con la quale Pasolini elogia lo spirito d'iniziativa dei "poveri di spirito". Ne "L'allievo di Giotto" l'autore (che interpreta anche il personaggio) riflette sul rapporto autore/sogno/opera, descrivendo la fervida devozione dell'artista verso la sua creazione e l'importanza di un'ispirazione religiosa e onirica, "altra" rispetto al contesto nella quale l'opera viene concepita e creata.
E con "Ciappelletto" Pasolini ironizza sulla fallacia dell'istituzione ecclesiastica, portando in scena la falsa redenzione di un lascivo ladro, stupratore e pedofilo che, in punto di morte, finge di essere un santo per non imbarazzare i suoi ospiti, finendo per diventare davvero oggetto di culto.
La leggerezza quasi frivola del racconto viene incorniciata in immagini, al solito, spettacolari, con cui l'autore rilancia il suo gusto pittorico per le inquadrature larghe e per i primi piani espressivi. Il racconto diviene così un fluire ininterrotto di immagini sensuali e di battute "volgari", un perfetto inno alla bellezza di una vita (per l'epoca) oramai perduta, senza scivolare mai nel sensazionalistico o nell'autocompiaciuto.
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