con: Maria Callas, Massimo Girotti, Giuseppe Gentile, Laurent Terzieff, Margareth Clementi, Paul Jabara, Gerard Weiss.
Italia, Francia, Germania (1969)
Nel 1969, Pier Paolo Pasolini è uno dei registi italiani più apprezzati al mondo e fonte di ispirazione (pressocchè infinita ed amatassima) di autori del calibro di Rainer Werner Fassbinder e Jean-Luc Godard; la stima dei colleghi e l'apprezzamento del grande pubblico non lo mettono tuttavia al riparo dalle critiche, che si concentrano (scioccamente) su una sua presunta "omologazione" al sistema produttivo italiano; critiche che divengono feroci all'annuncio del casting della diva Maria Callas come protagonista del suo "Medea", che sarà inizialmente etichettato come una sorta di trasposizione della versione lirica della tragedia di Euripide che la grande cantante aveva più volte portato in scena all'opera; critiche che si sarebbero sciolte come neve al sole di agosto una volta uscito il film, il quale si discosta dal mito originario per divenire sua nuova declinazione, non riprende nulla dalla versione teatrale e, sopratutto, si attesta subito come l'opera più cristallina e visionaria di Pasolini (fino ad allora).
Al tempo del mito, in un mondo ai primordi ma già sull'orlo del cambiamento, il piccolo Giasone viene educato dal centauro (Laurent Terzieff) a credere alla presenza del divino nella natura; passano gli anni, Giasone (Giuseppe Gentile), ora ventenne, viene redarguito dallo stesso centauro, divenuto uomo, sull'inesistenza di ogni forma di divinità del mondo.
Lasciata la casa della giovinezza, il ragazzo si reca a Joclo, città sua diritto, per rivendicare il trono usurpato dallo zio Pelia (Paul Jabara), il quale afferma la sua volontà di ritirarsi in cambio del mitologico Vello d'Oro; con un gruppo di compagni, Giasone si reca a Ea, nella regione della Colchide, per recuperare l'arcana pelle di capra; qui incontra Medea (Maria Callas), strega-sacerdotessa che, dopo aver previsto l'arrivo degli stranieri, ruba il Vello e fugge con l'eroe; una volta tornati a Joclo, Medea ha un mancamento: in quella terra non viè spiritualità e i suoi poteri svaniscono; inoltre, Pelia non mantiene il patto e Giasone abbandona la città insieme a Medea.
Anni dopo, Giasone e Medea sono a Corinto; l'eroe sta per sposare Glauce (Margareth Clementi), figlia del re Creonte (Massimo Girotti) ed ha ripudiato Medea e i figli da lei avuti; ridotta alla miseria e temuta da Creonte in quanto barbara e mistica, Medea architetta una atroce vendetta: causa il suicidio di Glauce e del re e massacra i figli avuti da Giasone; come ultimo affronto al suo ex amato, rifiuta di consegnargli i corpi degli infanti per i riti funebri.
Con "Medea" si chide il cerchio del Ciclo del Mito inaugurato due anni prima con "Edipo Re", del quale condivide sia l'ambientazione sospesa tra la Storia e surreale, sia la narrazione metaforica fatta di simboli e dialoghi di immediata interpretazione, oltre che lo sfarzo visivo, che caratterizza la pellicola come la più squisitamente spettacolare di Pasolini fino a "Il Fiore delle Mille e una Notte" (1974).
Come gli altri tre capitoli del ciclo, anche "Medea" è una metafora della decadenza del costume moderno sotto le spoglie della parabola mitica; al centro della disanima vi è stavolta la rinuncia da parte del uomo della sua componente spirituale, abbandonata nel corso del tempo in favore della ragione bieca.
Nella rielaborazione pasoliniana, Giasone è l'uomo moderno, un eroe che non conosce più alcuna forma di misticismo, la cui educazione ha rifiutato l'esistenza di Dio e di qualsiasi forma spirituale in favore di un pragmatismo totale; durante la sua impresa, Giasone non si pone interrogativi alcuni, agisce come un automa in cerca del Vello e di fronte al tradimento di Pelia reagisce gettandolo via, come un oggetto privo di valore; la dimensione spirituale non gli appartiene: essa è confinata nella barbara regione della Colchide, la cui terra ancora conosce gli antichi riti della fecondazione, e il Vello stesso, privato della forza "magica" della sua terra d'origine, altro non è che un oggetto inutile; e i mitici Argonauti sono descritti da Pasolini come dei semplici predoni: sorta di versione anacronistica dei "ragazzi di vita", il gruppo di avventurieri passa le sue giornate al sole banchettando e cantando, agendo solo per depredare i templi ed umiliare i sacerdoti, in una ripulsa del divino ai limiti del bestiale.
Medea rappresenta l'ideale polo opposto di Giasone: donna e strega; nella Colchide era una sacerdotessa dedita ai riti della terra, che fecondava mediante il sacrificio di esseri umani in un ciclo infinito di morte e rinascita (il seme che si trasforma in frutto); spodestata dalla visione dell'arrivo degli Argonauti, ella ruba il Vello e si concede volontariamente allo straniero Giasone; ma così facendo condanna sé stessa: la vita che da qui in avanti vivrà sarà stretta tra cielo e terra, priva di qualsiasi forma di spiritualità e per questo misera; miseria simboleggiata dal suo doppio esilio, sia coniugale che civile.
Sintesi tra i due personaggi è il centauro; inizialmente descritto come nel mito, mezzo uomo e mezzo cavallo, egli rappresenta il lato primitivo e spirituale dell'uomo, la cui religiosità è purgata da ogni forma di superstitizione e foraggiata dalla conteplazione ieratica e curiosa della magnificenza del creato; ma con l'incedre degli anni, il centauro muta, perde la sua connotazione favolistica e diviene un uomo "semplice", privo di ogni forma di fede in tutto quello che non sia quantificabile secondo il metro della ragione. Dualità e sintesi degli opposti che diviene perfetta metafora del passaggio dalla società arcaica a quella moderna: la prima più attenta alle esigenze dello spirito, la seconda totalmente dedita alla soddisfazione dell'intelletto.
Pasolini non critica direttamente la perdita della parte spirituale nell'uomo, ma si limita a declinare il possibile scontro tra i due opposti; il quale, sulla falsariga della tragedia originale, sfocia in una catastrofe, un massacro truce dovuto alla vendetta per la perdità di un "quid plus" che rendeva l'essere umano e il mondo intero qualcosa di "speciale", qualcosa di più complesso e magnifico del mero ammasso di carne e vesti cui si è ridotto nel passaggio ideale da un mondo ad un altro.
E nella messa in scena, l'autore trasfigura la tragedia classica in mito universale; usa come locations i deserti della Siria, le coste della Turchia e il Campo dei Miracoli di Pisa e immerge ogni scena in lunghissimi silenzi accompagnati solo da frasi esplicative e dalla musica religiosa iraniana e sopratutto giapponese; la Grecia antica diviene così una preistoira dell'Uomo e la tragedia di due personaggi diviene paradigma della tragedia dell'Umanità Tutta; e per quanto l'occhio di Pasolini cerchi, qui, di essere distante dalla materia, si avverte il disagio verso quel mondo materiale e freddo che delinea, e di rimbalzo la forte empatia verso il mito che va estinguendosi; e di fatto, le ultime parole che l'auotre affida alla Callas, nell'epilogo dell'intero Ciclo del Mito, sono un diniego, una vendetta ed una punizione che fanno presagire la catastrofe incombente su di un mondo orfano delle sue origini.
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