con: Alejandro Jodorowsky, Michel Seydoux, H.R. Giger, Chris Foss, Brontis Jodorowsky, Nicolas Winding Refn, Richard Stanley.
Documentario
Usa, Francia (2013)
"The Greatest Movie Never Made!". Basterebbe questo semplicissimo slogan per descrivere compiutamente la storia del "Dune" di Alejandro Jodorowsy; progetto faraonico, destinato fin dalla sua intima concezione a rivoluzionare il cinema fin nelle sua fondamenta, l'opera del grande regista apolide non ha mai, malauguratamente, raggiunto la fase di produzione vera e propria; quarant'anni dopo il naufragio del progetto originale, Frank Pavich porta su schermo i frammenti e le memorie di coloro che vi presero parte, riuscendo a far vivere l'entusiasmo di un gruppo di grandissimi artisti e a rendere giustizia alla magnificenza di un opera non soltanto "bigger than cinema", ma finanche "bigger than the universe".
Per comprendere appieno la sfrenata ambizione di Jodorowsky bisogna conoscere anzitutto il romanzo di partenza; "Dune" di Frank Herbert, pubblicato nel 1965, costituisce assieme ai cinque successivi romanzi dell'omonimo ciclo, quella che può tranquillamente essere definita come "La Bibbia" della fantascienza moderna; in esso il grande autore americano fa convivere visioni futuribili veritiere e plausibili nonostante il remoto futuro nel quale le vicende prendano piede (il primo libro è ambientato nel 10.191), fascinazioni etniche e religiose (in particolare verso le culture islamiche e paleocristiane), profezie laiche, affondi verso la degenerazione dell'istituzione religiosa, esaltazione delle sostanze psicotrope come via per aumentare le capacità umane, avventura classica ed intrighi di corte; "Dune" è un gigantesco affresco non semplicemente fantascientifico, poichè volto a dare una descrizione completa e credibile di un universo prossimo che affonda saldamente le radici nei problemi e nelle vicissitudini universali dell'essere umano; il tutto calato in un contesto visionario e affascinante, dove il percorso mentale, onirico e spirituale di ciascun personaggio diviene non solo mezzo introspettivo, ma narrazione vera e propria.
Del romanzo di base, che Jodorowsky decide di portare in scena ancora prima di averlo letto, il regista riprese solo l'ambientazione e i personaggi, ricreando sia l'universo nel quale esso è ambientato, sia la storia; nelle mani del visionario autore, "Dune" diviene la storia di un vero profeta, il protagonista Paul che nel romanzo era solo chiamato a fare le veci di un messia futuribile, ma che qui diviene una sorta di "Secondo Avvento" che, in un finale catartico e messianico, trasforma un intero mondo di Arrakis in un'entità senziente pronta a far risvegliare le coscienze dell'intera umanità. Rilettura intrigante, immersa in una narrazione ancora più cupa, violenta e visionaria dell'originale, come si evince dagli splendidi sotryboard che per la prima volta vengono mostrati al pubblico.
Quando Jodorowsky cominciò la preproduzione, nel 1974 (quindi prima del "Superman" di Salkind e Spengler e del "Guerre Stellari" di Lucas), non ha dubbi: il suo "Dune" deve essere il più grande film mai realizzato, un'opera in grado di cambiare la percezione stessa del pubblico, un'esperienza in grado di segnare ogni singola persona che lo avrebbe visto; il suo obiettivo è semplice: ricreare su schermo gli effetti dell'uso dell' LSD; ma chiunque abbia visto "La Montagna Sacra" (1971) sa quanto egli aborrisca l'uso della droga per fini onanistici o, peggio, per surrogare la trance religiosa; la sua opera si doveva configurare, in sostanza, non come un testo sacro da seguire alla lettera, quanto come una spinta verso l'accettazione di una realtà più ampia dello spettro del visibile (concetto anch'esso espresso ne "La Montagna Sacra"); e per perseguire questa sua opera profetica, Jodorowsky non badò a spese e a compromessi; coadiuvato dal fido produttore Michel Seydoux, riunì un cast artistico e tecnico da brividi.
Per visualizzare il mondo di Arrakis, il pianeta principale sul quale si svolgono le vicende, il grande artista chiama come suo "guerriero" Jean "Moebius" Giraud, all'epoca reduce dai successi di "Metàl Hurlant" e "Marshall Blueberry", i cui disegni colpirono particolarmente Jodorowsky per la loro forte impostazione cinematografica; per il desgin dei veicoli si affida all'inglese Chris Foss, mentre per la realizzazione tecnica degli effetti visivi a Dan O'Bannon, ingaggiato a scatola chiusa a seguito della visione di "Dark Star" (1974), esordio al cinema di John Carpenter; per il design del mondo degli Harkonnen chiama il compianto H.R. Giger, il cui stile necro-tecno-organico dona alle visoni di Herbert un tono ancora più minaccioso. Tutti gli artisti coinvolti hanno una missione: dare il massimo, comportarsi come veri e propri "santi missionari" imprimendo nelle proprie creazioni una forte dose di spiritualità; componente ritenuta essenziale ai fini della riuscita dell'operazione e che portò Jodorowsky a rinunciare alla collaborazione di artisti del calibro di Douglas Trumbull e dei Pink Floyd, ritenuti troppo materialisti per poter davvero riuscire a scuotere le coscienze del pubblico; e nel riportare tali strambi, bizzarri e surreali aneddoti, va lodata l'estrema serietà di Pavich nel non far mai scadere il documentario nè in una barzelletta, nè in una critica alla superbia del regista.
E se la troupe di sacri guerrieri era qualcosa di stupefacente, non da meno era il cast artistico radunato da Jodorowsky: David Carradine nei panni del Duca Leto, Mick Jagger in quelli del viscido e ambiguo Feyd Rautha (che nel "Dune" di Lynch sarà invece interpretato da un'altra rock star, Sting), Orson Welles come l'imponente Barone Harkonnen e niente meno che Salvador Dalì ad impersonare l'Imperatore dell'Universo, ruolo per quale gli offrirono bel 100.000 dollari al minuto (ma il suo screen-time non ne avrebbe superati cinque); per il ruolo del profeta Paul Muad'Dib Atreides, Jodorowsky decise di usare suo figlio Brontis, all'epoca quindicenne, che il regista sottopose ad un intenso allenamento psico-fisico per fargli raggiungere uno status ai limiti del superomostico, in modo da annullare qualsiasi differenza tra attore e personaggio; non si fa menzione, invece, della proposta fatta a Gloria Swanson per impersonare la Reverenda Madre, nè del turbolento casting di Duncan Idaho, forse fin troppo "leggendari" per poter essere considerati veritieri; così come non viene menzionata quella che può essere considerata la leggenda per eccellenza nata attorno allo sfortunato progetto: il sogno fatto da Jodorowsky nel '72 durante il quale Frank Herbert (all'epoca ancora vivo e vegeto) lo esortava a dirigere il film, senza che il regista avesse mai sentito parlare nè di "Dune", né di Herbert.
E' nell'ultima parte del documentario che i toni si fanno, giustamente, più tristi; finita la preproduzione, Jodorowsky e Seydoux iniziarono a girare tutta Hollywood in cerca di uno studio interessato a produrre la pellicola; nonostante i grossi nomi coinvolti, lo status di cult che il romanzo avesse già assunto e un budget di certo non esorbitante (neanche 20 milioni di dollari, all'epoca una somma considerevole ma non astronomica), il progetto si arenò; e qui a Pavich va dato il plauso di abbandonare il tono neutro ed innestare, per il mezzo dei personaggi intervistati, una critica sentita e veritiera al sistema degli studios, interessati solo al denaro e sopratutto spaventati dalla persona di Jodorowsky, che sapevano impossibile da controllare. A Jodorowsky e soci non restò che ritirarsi, farsi da parte abbandonando ogni velleità artistica; salvo poi vedere il loro progetto fatto a pezzi e fagocitato da ogni singolo kolossal prodotto nei decenni a venire; si parte con "Alien" (1979) nel quale vengono coinvolti O'Bannon, Giger e Foss (anche se la genesi del progetto è più complessa di quanto effettivamente spiegato) e "Guerre Stellari" (nel quale Lucas riprende pari pari parte degli storyboard di Jodorowsky e Moebius, oltre all'ambientazione desertica che apre il film), lo sciagurato "Contact" (dove Zemeckis riprende la opening shot ideata da Jodorowsky senza alcun ritegno) fino ad arrivare a "Prometheus" (2012); passando, ovviamente, per il "Dune" di Dino De Laurentiis e David Lynch (1984), che Jodorowsky detesta, ma del quale riconosce la discolpa di Lynch e la cattiva influenza dei compromessi che ha dovuto subire per completare il film.
Ma il film non si chiude con una nota triste o polemica; pur esternando il rimpianto di grandi autori (Nicolas Windig Refn e Richard Stanely in primis) per la piega che l'influenza del "Dune" jodorowskyano avrebbe potuto far prendere al cinema di fantascienza mainstream americano (e che invece si è adagiato al modello di Lucas, con le infauste conseguenze che tutti conosciamo), Pavich chiude il film con una splendida esortazione dello stesso Jodorowsky: pensate in grande, non abbiate paura delle vostre ambizioni, poichè anche qualora queste non si realizzeranno, voi avrete imparato a superare i vostri limiti.
EXTRA
Mai meme fu più veritiero:
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