Die Sehnuscht der Veronika Voss
di Rainer Werner Fassbinder.
con: Rosel Zech, Hilmar Thate, Armin Mueller-Stahl, Annemarie Duringer, Doris Schade, Gunther Kaufmann, Volker Spengler, Erik Schumann.
Drammatico
Germania (1982)
Ultimo capitolo della tetralogia sulla donna e la Germania e punultimo film di Fassbinder (l'ultimo però ad essere stato distribuito prima della sua prematura scomparsa), "Veronika Voss" rappresenta un'eccezione nella carriera del autore post "Berlin Alexanderplatz" (1980): un ritorno al bianco e nero ed un omaggio sentito al cinema americano classico, in particolare al capolavoro di Billy Wilder "Viale del Tramonto" (1955).
Monaco, 1955 (ossia lo stesso anno in cui si svolgono le vicende del film di Wilder); durante una notte di piaggia il giornalista sportivo Robert (Hilmar Thate) si imbatte per caso in Veronika Voss (Rosel Zech), ex diva del cinema del III Reich ormai caduta in disgrazia; nonostante la palese follia della donna, Robert prova fin da subito una fortissima attrazione: sarà l'incipit di una torbida storia densa di misteri ed ambigue rivelazioni.
Modellata sulla storia della diva tedesca degli anni '40 Sybille Schmit, quella di Veronika Voss è una parabola discentente nella quale il fondo viene raggiunto già nei primissimi fotogrammi; come la Gloria Swanson di "Sunset Blvd.", Veronika vive i suoi giorni confinata in una magione spettrale, persa nei ricordi del suo sfolgorante passato (enfatizzato dai fortissimi flares nei flashback) e alla ricerca di un ritorno alla ribalta impossibile; e sempre come nel film di Wilder, motore dell'azione è un uomo che irrompe per caso nella sua vita, svelandone i misteri, le luci e le ombre i cui contorni non vengono chiariti se non negli ultimissimi minuti; ma a differenza di Wilder, Fassbinder ama il suo personaggio: Veronika non è una vecchia arpia assetata di gloria, quanto una magnifica perdente in cerca di un ultimo sussulto per la sua grandezza, una prova che il suo talento sia ancora vivo e pulsante.
La pazzia e la tossicodipendenza vengono così spogliate da ogni forma di romanticismo e giustificazione ed usate come il perfetto emblema di una vita ormai consumatasi nel nulla e vicina alla distruzione definitiva; una parabola ormai prossima al compimento che Fassbinder eleva a metafora della Germania dell'Ovest degli anni '50: schiava del vizio, ostaggio di un gruppo di parassiti (gli americani, impersonati dal soldato Gunther Kaufmann oltre che dai medici), schiacciata dal peso degli orrori compiuti nel decennio precedente e persa nel rammarico per una grandezza ormai lontana; grandezza che, sempre a differenza di Wilder, Fassbinder non idealizza, mostrando come di fatto i semi dell'autodistruzione fossero già presenti durante i giorni felici, impostando un determinismo drammatico in parte inedito nella sua poetica.
Questa volta non vi è sopravvivenza possibile per la donna, la quale non può più far ricorso al suo ingegno e alla mestizia, ma solo crogiolarsi nel dolore e lenire i suoi mali con la morfina; e se la sconfitta per lei è prossima, non meno perdenti ed irredenti sono le due figure maschili cardine del film: il giornalista Robert e l'ex marito e scenggiatore Max (Armin Mueller-Stahl); il primo è un investigatore che scava tra le ombre e le contraddizioni di un amore impossibile da coronare, il secondo una sua versione più vecchia e disillusa, ormai stanco di lottare per la redenzione dell'oggetto del suo desiderio e il cui dolore viene totalmente introiettato e trattenuto persino alle soglie della fine; e Hilmar Thate e Armin Mueller-Stahl ben riescono a convogliare, con la loro fulgida espressività, il senso di smarrimento e sconsolatezza di colui che ormai sa di aver perso tutto.
Le luci e le ombre della protagonista vengono personificate dalla splendida fotografia in bianco e nero, che si rifà apertamente all'epoca d'oro del cinema hollywoodiano, in particolare ai classici della MGM e della RKO; i bianchi e i neri si scontrano sublimemente in ogni singola inquadratura, ad eccezzione delle scene ambientate nella clinica, nel quale il bianco pieno e bruciato di vestiti ed arredamenti diviene l'ideale maschera della lordura interiore dei personaggi, contrapposta agli abiti neri di Robert, angelo sporco ma dall'animo puro.
La linearità del racconto viene spezzata da flashback e (nell'ultimo atto) flashforwrd che allontanano "Veronika Voss" dai formalismi del classicismo anni '50 e lo avvicinano alle sperimentazioni narrative del cinema francese degli anni '60; più che a Wilder, qui Fassbinder sembra rifarsi a Melville, in una rielaborazione del modello di base in chiave moderna che, unita alle scelte estetiche, porta ai limiti del post-modernismo, pur senza mai abbracciarlo.
Lo stile di Fassbinder si fa qui più rigoroso e al contempo più estremo: ridotti all'osso i carrelli, come la tradizione classicista impone, le inquadrature si fanno ancora più barrocche e pittoriche, in una ricerca della profondità ancora più feroce che in "Lili Marleen" (1981); ogni soggeto viene coperto da scenografie o oggetti di scena in una ricerca del punto di fuga spasmodica e sublime, che porta, alla fine, ad una perfezione formale definitiva, come nella scena del ristorante o nella sequenza del delirio notturno.
Dulcis in fundo, Fassbinder crea il cameo più genuinamente geniale della storia del Cinema: nella prima scena impersona uno spettatore in un cinema che guarda con interesse un vecchio film della diva, ossia il cineasta che osserva la sua opera dall'interno della stessa.
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