di Jean-Luc Godard.
con: Eddie Constantine, Anna Karina, Akim Tamiroff, Jean-Louis Comolli, Michel Delahaye, Jean-André Fieschi.
Noir/Fantascienza/Sperimentale
Francia, Italia 1965
Quando un artista dal carattere forte e dallo stile personale si cimenta con un "genere" in teoria altamente codificato nelle forme così come nella sostanza quale è la fantascienza, il risultato non può che essere spiazzante, se non rivoluzionario.
D'altro canto, nel panorama della Nouvelle Vague già Truffaut scompaginò stilemi e topoi della sci-fi con "Fahrenheit 451"; ma Godard, giusto un anno dopo, si spinse oltre, sino a riplasmare l'intero linguaggio filmico mediante una scusa banale: dirigere una delle avventure dell'allora famoso detective cinematografico Lemmy Caution, personaggio creato dalla penna di Peter Cheyney e che a partire dalla seconda metà degli anni '50 fu protagonista in Francia di una serie di adattamenti filmici di buon successo.
"Alphaville" è in tutto e per tutto una "étrange aventure" non solo per l'investigatore a cui Eddie Constantine presta il volto, ma in primis per lo spettatore, che si ritrova catapultato in un mondo alieno, ma ancor prima alienante nelle forme, nelle geometrie, nelle scenografie disumane, geometricamente impenetrabili, insostenibilmente fredde. In un contesto fantascientifico che di fantascientifico ha tutto. Ma che in realtà di fantastico non ha nulla.
Se Truffaut immaginava il futuro come una regressione verso un passato oscuro, una distopia che si faceva quasi ucronia, Godard crea uno "scherzo" intellettualmente geniale, già sperimentato nell'episodio che diresse per il corale "Ro.Go.Pa.G" (1963): usare il presente come controfigura del futuro.
Perché la sua Alphaville, città aliena situata in una lontana galassia, altro non è se non la Parigi degli anni '60, impressa in immagini che vengono decontestualizzate da tutto per essere ricontestualizzate nel copione dell'indagine dell'agente Caution.
L'immagine si fa così vera ed al contempo incommensurabilmente falsa; se il cinema è finzione, il cinema di fantascienza è finzione nella finzione; "Alphaville" va un passo oltre e si fa affabulazione di quella stessa finzione, mediante l' estremo opposto, ossia il reale. Al bando, quindi, scenografie ciclopiche e forme fantasiose, il piglio visionario prende le mosse da una quotidianità che forse ha già in se stessa i semi di quell'alienazione di cui la storia narra.
In "Alphaville" Godard riprende alcuni elementi del romanzo distopico per antonomasia, il "1984" di Orwell; ma anzicché trasporne gli elementi più immediatamente riconoscibili (gli orrori della dittatura, la distruzione della libertà personale), adatta il tema a lui caro della comunicazione, dell'essenzialità del linguaggio per l'identificazione del reale e l'emancipazione della persona.
Nella Alphaville del titolo, l'agente segreto Lemmy Caution viene inviato per investigare le attività di un certo dottor Von Braun (Akim Tamiroff), del quale conosce subito la bellissima figlia Natacha (la musa Anna Karina); ma ciò che scopre va ben oltre quanto potesse aspettarsi: un supercomputer battezzato Alfa 60, opera di Von Braun, ha indottrinato l'intera città ad un credo di pura logica, dove non c'è spazio per le emozioni, la poesia e l'arte; il mezzo per farlo è l'eliminazione di alcune parole essenziali. Il dizionario, divenuto testo sacro, viene sfoltito delle parole ritenute inutili o deleterie. Tant'è che Natacha confessa di ricordare l'uso di parole da lei amate, ma che adesso sono proibite.
Distrutta la parola, il concetto in esso contenuto viene cancellato, eliminato dalla mente della persona che pertanto è pura pedina nelle mani di un potere cieco, quell'Alfa 60 antesignano del più noto HAL9000, computer folle che sottomette le menti ed i corpi degli umani, la cui rappresentazione di luce intermittente deve essere anch'essa stata d'ispirazione per Kubrick.
Una mente elettronica usata per gestire una società che non ha più bisogno del superfluo: ogni cosa viene elaborata, calcolata in anticipo, prevista ed eseguita. Gli umani divengono di conseguenza i veri automi, marchiati con un numero di serie, impegnati a salutarsi in modo automatico con un "io-sto-benissimo-grazie-prego", persi in un circolo vitale che è eterno presente. Sempre da Orwell, Godard declina in modo personale il tema della cancellazione del passato: laddove il prima non esiste, non può esserci un dopo, di conseguenza esiste solo un adesso preciso e determinato.
La distruzione di tale cerchio avviene mediante il risveglio della coscienza per il tramite dell'uso di quelle parole obliate. Centrale è il personaggio di Natacha, che Caution riporta a ragione tramite la lettura di quella poesia bandita. La cultura, distrutta dal regime che non tollera concetti e parole non riducibili (da qui un parallelo con la distopia che bruciava i libri per evitare le delusioni del reale portata in scena da Truffaut), diviene strumento per la liberazione vera del soggetto, opposta alle rivoluzioni pilotate dal sistema stesso per legittimare sé stesso. Non per nulla, il primo tabù ad essere infranto è quello che riguarda l'uso della parola "perché", ossia la chiave di ricerca per l'investigazione del reale, sostituita dal "poiché", ossia l'imposizione coatta di un dato (tema poi brillantemente ripreso in uno dei più bei episodi della serie "Il Prigioniero").
Se la pura logica è distruzione dell'essere umano, il sentimento la sua liberazione, Lemmy Caution è puro sentimento; non solo nel senso più ovvio della sua attrazione verso la bella Natacha, quanto nella sua caratterizzazione "tipica" da detective delle spy-story e dei noir d'epoca. Secco nei dialoghi, diretto nei concetti, ama solo le donne e l'oro ed usa la sua colt come mezzo espressivo.
Il calarlo in un contesto fantastico crea una forma di post-modernismo che anticipa quello più esplosivo di "Blade Runner", ma anche quello più sobrio di "Il Mondo sul Filo". E' qui infatti che si ha la prima e già perfetta commistione tra i due registri, con l'ingresso in scena di Caution che è puro cinema noir, mentre la rielaborazione del presente come forma del futuro rende ancora più visionario il linguaggio fantastico.
Così come più estremo si fa lo stile visivo. I primi piani sono ancora più espressivi, i piani sequenza più vorticosi. Godard calca la mano per rendere ogni immagine viva, potente, talmente forte e perfetta da accecare.
Riuscendoci in pieno: anche grazie all'uso espressivo della fotografia in bianco e nero, le immagini di "Alphaville" sono pura poesia geometrica, razionalità votata alla fredda sensazione di spiazzamento che le geometrie d'interni vogliono evocare. Così come il montaggio del "risveglio" di Natacha è pura distruzione di quella geometria, in un gioco di razionalismo e sperimentazione vivace e pulsante che si fa, ancora una volta, nuovo linguaggio, nuovo modo di declinare la semantica filmica. Nuovo tassello nel discorso de-costruttivo godardiano nonché nuovo capolavoro ascrivibile alla sua filmografia.
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