lunedì 29 maggio 2017

Il Ragazzo Selvaggio

L'enfant sauvage

di François Truffaut.

con: Jean-Pierre Cargol, François Truffaut, Françoise Seigner, Jean Dasté, Annie Miller, Claude Miller, Paul Villé.

Drammatico

Francia 1969















Un ragazzo dall'indole ribelle, una società che vorrebbe omologarlo, la ribellione futile. Temi che Truffaut aveva già declinato con efficacia nel suo primo capolavoro "I 400 Colpi" e che decide di elevare all'universale. Fortemente colpito dalla storia de "l'enfant de Averyon" , un ragazzo che alla fine del XVIII secolo veniva ritrovato nei boschi e poi reinserito nella società dal dr.Itard, che ne ha documentato l'esperienza, Truffaut decide di trasformare questa storia di formazione in un atto d'accusa contro la forza omologatrice del sistema e lo fa adoperando uno stile asciutto e secco, quanto solido nei contenuti.



Ritagliatosi il ruolo di Itard, Truffaut pone al centro di ogni scena il giovane Jean-Pierre Cargol nei panni del "selvaggio", per portare avanti una tesi semplici: l'eterna opposizione e l'inconciliabilità tra la spontaneità di una vita "selvaggia" e i rigidi ed asfissianti compromessi che la società vuole imporre. L'espressività del giovane attore è sorprendente: il suo Victor vive di piccoli gesti e sguardi emotivi, così come di feroci grugniti e gesti violenti, contrapposti alla compostezza dell'Itard di Truffaut.
Ogni azione viene costruita con campi lunghi, per incorniciare i personaggi tra gli alberi e le campagne degli esterni o le mura degli interni. La regia è quasi secca e, quasi in opposizione ai dettami della Nouvelle Vague, Truffaut sembra voler rievocare quel classicismo solitamente aborrito. Le soluzioni visive sono reminiscenti di un cinema "vecchio", oramai caduto in disuso, dove l'espressività data dai primi piani e dai dettagli cede il posto alla chiarezza del campo medio. Il che, associato ad una magnifica fotografia in bianco e nero dai contrasti forti (frutto della collaborazione con il direttore della fotografia Nèstor Almendros, da qui in poi suo fido collaboratore)  rende il tutto estremamente immediato, asciutto, quasi freddo nella sua calcolatezza (stile che sarà in parte ripreso da Lynch per il capolavoro "The Elephant Man", dove però l'autore riesce ad infondere una carica umana commovente alla storia, superando la fonte di ispirazione).
Ed invero l'estrema misura è l'unico limite nella narrazione che può essere imputato a Truffaut: il suo "Ragazzo Selvaggio" è talmente ferreo nella sua posizione morale da non voler commuovere neanche nei passaggi più patetici. Ma al di là di tale limite, il racconto è estremamente riuscito.



L'inconciliabilità dei due mondi risalta in ogni singola scena. Truffaut decide di aprire il film, da questo punto di vista, con un'immagine esemplare: in un anno particolare, il 1798, ossia tra il Secolo dei Lumi e l'inizio dell'Età Moderna, il giovane "selvaggio" viene braccato dai cacciatori, ossia uomini "civilizzati", come una belva, nonostante la sua palese umanità.
Passato da una clinica per sordomuti a causa del suo presunto handicap, il ragazzo viene preso in cura in prima persona dal dottor Itard, che poi ne seguirà totalmente l'educazione e lo ribattezza "Victor". Ed è proprio l'educazione a divenire il fulcro portante di tutto il film.



Victor viene sottoposto ad ogni possibile "test" per misurarne i sensi e l'intelligenza. Dai più innocui ai più spietati, puniti con la chiusura in uno stanzino buio, gli esperimenti lo vedono come una vera e propria cavia sulla quale Itard tenta di applicare le proprie teorie sia al fine di risvegliarne l'intelletto, che per puro interesse scientifico. Ma Victor non è un ragazzo comune, non lo è mai stato fin dalla primissima infanzia. Il suo ruolo non può essere quello di un infante comune, "addomesticato" alle regole del buon vivere, chiuso tra le quattro mura di una casa-prigione, di una scuola che segrega ogni volontà di libertà in ordine ad una educazione meramente formale.




Da qui il conflitto insanabile tra una natura ribelle perché pura, non inquinata dalle pastoie educative che comprimono l'individuo all'interno di schemi comportamentali rigidi e formali e l'imposizione coatta, pur se fatta a fin di bene, di tali schematismi. Il ruolo di Itard, d'altro canto, non viene demonizzato: il suo è lo sguardo di un uomo del tempo, di un adulto pienamente convinto che il reinserimento sociale sia l'unico modo per "salvare" il giovane; il conflitto si fa così fluido, per quanto irrisolvibile a causa degli estremi.
E di fatto non trova risoluzione: Truffaut non da una chiusa effettiva alla narrazione, si limita ad interromperla nel momento in cui Victor realizza a pieno il "maltrattamento" subito, con quel sip ultimo sguardo triste e commosso, enfatizzato dall'uso del nero come nel cinema muto, pregno della consapevolezza di come il resto della sua vita sarà doloroso a causa della rinuncia forzata a quei boschi da lui tanto amati. Da qui la differenza con lo sguardo "finale" di Antoine Doinel: laddove quest'ultimo realizzava come il supremo atto di ribellione portasse con sé anche lo smarrimento per la perdita di ogni punto di riferimento, lo sguardo triste di Victor cela la coscienza di come questi punti di riferimento causino vero dolore, in un percorso quasi inverso.
E la forza morale del film sta proprio nella non insistenza, nella presa di coscienza già sottesa a quelle immagini, fredde quanto si vuole, eppure totalmente pregne di significato. In un'opera che pur non essendo definibile come "capolavoro", di certo ha una forza estetica ed etica di grande caratura.

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