con: Garance Marillier, Ella Rumpf, Rabat Naif Oufella, Laurent Lucas, Joana Preiss.
Francia, Belgio, Italia 2017
----CONTIENE SPOILER---
E' facile gridare allo scandalo con un film come "Raw"; un dramma (si badi, non un horror, del quale non ha, né vuole avere forma, schematismi o atmosfere) dall'immaginario forte e schietto, diretto e (appunto) crudo fino al viscerale.
E' facile ed al contempo esagerato. Perché in fondo molto di quanto mostra è già stato mostrato con molto più ardore da "The Neon Demon" durante la passata stagione; laddove "Raw" riesce ad essere spiazzante, l'horror di Refn riusciva invece ad essere davvero disturbante. E le similitudini tra i due film sono molte: in entrambi si parla di cannibalismo, di scoperta del sé, di passioni incontrollabili che portano alla distruzione totale e totalizzante. Ma contrariamente a quanto si vorrebbe credere (e stando anche alle dichiarazioni dell'autrice, Julia Ducournau, da tenere d'occhio), "Raw" non vuole essere la metafora di nulla, quanto un semplice film dove il punto di vista ripreso non è quello delle vittime del cannibalismo, ma quello dei cannibali stessi.
Perché in fondo vederci una metafora sia pro che contro il veganismo è anche altrettanto facile che gridare allo scandalo. Con una protagonista dal corpo esile, quasi cadaverico quale quello di Garance Marillier, che scopre il sapore della carne e non può farne più a meno, si potrebbe tranquillamente vedere la sua storia come una critica a quella cultura, per certi versi insostenibilmente chiusa e coatta, che impone di rifiutare ogni contatto con la parte più animalesca dell'umano e che, nella migliore tradizione del contrappasso, portata agli estremi prelude alla creazione di un mostro cannibale. Così come la si potrebbe intendere come una critica alla cultura onnivora, con la carne come viatico per la perdizione, invero lettura molto più pedante e quacchera.
Quella di Justine è invece una più semplice scoperta del sé, dove il proprio io è quello di una ragazza nelle cui vene scorre il sangue di una famiglia di cannibali, che prova gusto nel divorare carne umana per il solo gusto di assaporarla.
Non che quello di Justine non sia un arco narrativo di formazione completo; il passaggio all'età adulta, ossia alla piena coscienza, passa per tutti quei riti, goliardici e non, che un universitario di primo pelo è chiamato a compiere: la fascinazione per la dissolutezza, l'attrazione sessuale irrefrenabile (da cui il parallelismo con l'omosessualità del compagno di camera Adrien), la mutazione corporea (i peli e la loro rasatura) e la decadenza dello stesso (la malattia). Ma alla fine ciò che conta è la realizzazione di come questa sua perversione altro non sia che una "normale" forma di manifestazione dell'essere, ereditata finanche dalla genitrice e della quale il veganismo è una pura maschera.
La Ducournau, dal canto suo, si diverte proprio a giocare con le aspettative dello spettatore e a sviarle continuamente. Aborrito il registro orrorifico, il suo è uno stile personale, quasi d'autore, che trova in Haneke una probabile fonte di ispirazione, data dall'uso dei campi lunghi. Ma a differenza del cineasta austriaco, non lascia la violenza fuori campo, mostrando l'orrore in primo piano; ed anche qui, stupisce non esagerando mai con i toni, sapendo sempre dove tagliare e dove continuare a mostrare, in modo da spiazzare senza davvero infastidire, in un equilibrio forse fin troppo perfetto, che alla fine rende il tutto un pò freddo, unico vero limite della sua visione.
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