di Luciano Salce.
con: Paolo Villaggio, Liù Bosisio, Gigi Reder, Anna Mazzamauro, Giuseppe Anatrelli, Umberto D'Orsi, Plinio Fernando, Paolo Paoloni, Dino Emanuelli.
Comico/Grottesco
Italia 1975
L'ultima grande maschera del cinema italiano. Una delle ultime, perfette e feroci incarnazioni della "Commedia all'Italiana". Il rito di passaggio di questa verso la sua ultima fase, di fatto mai giunta a pieno compimento, quella del satirico-grottesco, dove i toni si fanno esasperatamente iperbolici, volti a caricare con ancora maggiore enfasi quelle brutture tutte italiane per esorcizzarle con una grassa (ma non stupida) risata. Basterebbero queste poche righe per sancire l'importanza del "Fantozzi" del duo Villaggio-Salce (è bene sottolinearlo: la riuscita del film in sé deve molto alla mano di quest'ultimo).
Ma ovviamente "Fantozzi" non è solo questo. E' un vero e proprio coacervo di situazioni comiche e para-tragiche impressosi a fuoco nell'immaginario collettivo italiano, fino ad entrare nel linguaggio comune, anzi di più, nel pensiero vero e proprio, che quando volge a situazioni lavorative disumane, non può che viaggiare verso gli sketch elaborati da Villaggio.
E prima che il successo lo travolgesse, prima che la sua creatura più amata si trasformasse da caricatura dell'italiano medio a caricatura di sé stessa, perdendo mordente nei troppi seguiti sino ad esaurire ogni carica, sia acida che basilarmente comica, "Fantozzi" era un film si, oltremodo divertente, ma anche incommensurabilmente cattivo, velenoso, intriso di una visione orgogliosamente "stronza" della vita e del lavoro subordinato. Partendo ovviamente dal suo protagonista, quel ragionier Ugo Fantozzi mai come qui (e nel primo seguito) perfetta maschera della miseria italiana.
Fantozzi è la vittima di una società la cui gerarchizzazione è ferrea, in cui esiste un gap incolmabile ed abissale tra il proletariato (l'impiegato) e la borghesia (il patronato). Altro non è se non un piccolo ingranaggio di quell'enorme meccanismo che permette al potere di autosostenersi ed autotutelarsi. Lavora come uno schiavo in un azienda dal nome impronunciabile, insieme ad uno sciame di altri lavoratori-formiche arroccati nei loro piccoli mondi, forma di futile escapismo dalla grigia e monotona vita d'ufficio (la coppia di colleghi perennemente impegnati in un'infinita partita ad "affonda la flotta"). Fantozzi è la vittima del sistema, un uomo schiacciato dal peso di una società che non gli permette affermazione, né liberazione alcuna. Un mondo, il suo, dove i canonici canali di affermazione dell'individuo sono descritti in modo brutale e "brutto", come ulteriori strumenti di disumanizzazione.
Si pensi, innanzitutto, al rapporto di Fantozzi con la cultura, in parte vero tasto dolente della visione di Villaggio. Il ragioniere non è un erudita, né ricerca alcuna forma compensazione per le sue disgrazie tra le righe di antichi scritti o i fotogrammi di un film. Questo perché nel suo mondo, anche la cultura è divenuta mezzo con cui ogni forma di potere schiaccia l'individuo. Ne "Il Secondo Tragico Fantozzi", la visione forzata de "La Corazzata Potiemkin" diviene momento di umiliazione con cui un dirigente afflitto da megalomania cinefila si diverte ad infliggere punizioni a chiunque non si adegui al suo giudizio estetico. Messaggio, questo, chiaro e cristallino, che però si scontra con un limite insostenibile: il film di Eisenstein è in realtà breve, conciso e talmente moderno nella forma che persino lo spettatore meno acculturato potrebbe non annoiarsi dinanzi alle sue immagini.
La forza della visione di Villaggio risiede, semmai, nell'aver intuito come quella cultura da cineforum della domenica, perorata da personaggetti solo superficialmente preparati, sia divenuta anch'essa metodo per cingere il subordinato all'interno dell'ottica del comando: i suoi gusti e le sue inclinazioni, persino quelle più intime, devono retrocedere rispetto a quelli del patronato (nel romanzo, tuttavia, la critica era invece strettamente rivolta a quei finti acculturati, denominati "le barbe" per via del loro aspetto finto-trasandato, che salmodiavano sui vecchi film per cercare di darsi un tono dinanzi agli sprovveduti impiegati, critica ancora oggi attuale ed urgente).
Così come la religione non viene affatto vissuta come tale dall'impiegato; essa è semmai utilizzata come un complesso sistema di simboli che da un lato ne sottolineano la mostruosità delle "sfighe" (ogni qualvolta si trova in difficoltà, anche fisiche, Fantozzi ha una visione divina) o come simbolo di legittimazione del potere.
Basti vedere le immagini che chiudono il primo film, talmente visionarie e stroboscopiche nella forma che sembrano davvero aver ispirato Terry Gilliam per il suo "Brazil" (ed il merito qui va tutto all'occhio di Salce; quando in "Fantozzi contro tutti" Villaggio e Neri Parenti ricicleranno la stessa idea, questa non avrà la stessa forza a causa di una messa in scena di stampo teatrale di dubbio gusto). Fantozzi tenta di ribellarsi, ma come unica conseguenza delle sue azioni ottiene quella di "evocare" il Mega Direttore Galattico, il leggendario capo dei capi, presunta "presenza astratta" che tutto muove. L'atmosfera si fa, appunto, astratta, quasi onirica. L'allucinazione della crocefissione in sala mensa, la gag più turpe di tutte, è condotta con una serietà agghiacciante e per questo risulta ancora più divertente. E giunto nell'ufficio del Supremo, Fantozzi si trova immerso in un calderone di simboli religiosi: l'inginocchiatoio confessionale, il pane e l'acqua, il mosaico di San Francesco, oltre allo stesso direttore, che con il volto ed il corpo di Paolo Paoloni sembra davvero un pontefice in doppio petto.
La simbologia religiosa è simbologia del potere; non per nulla, sono ancora gli anni della DC, della santificazione della politica e dell'unità inscindibile tra potere politico e religioso. Il patronato diviene così religione esso stesso e la ribellione pura forma di vanità.
Non per nulla, Fantozzi si era ribellato dopo il contatto con il mitico "Compagno Folagra", la pecora rossa. E per il tramite di quella cultura di sinistra aveva scoperto l'accecante verità: lavorare è un diritto. Ma neanche questa coscienza, né la militanza nella sinistra più estrema (la stessa che all'epoca dell'uscita del film ancora insozzava con il sangue dei poveri le strade d'Italia) riesce davvero a liberarlo: la sua rivolta è puramente temporanea, basta una chiaccherata alla buona con il Mega Direttore per tornare all'ovile, anzi all'acquario, come triglia.
Unica forma di vera rivincita sembra risiedere nella competizione sportiva. Al di là dell'irresistibile, tragicomica partita di pallone tra impiegati, è la scena del biliardo a conferire un'aura di appagamento al povero ragioniere: dopo aver subito vessazioni anche fisiche a causa della "vecchia stronza" madre del Cattellani, essersi umiliato prendendo lezioni di stecca, Fantozzi incrocia lo sguardo piangente della moglie e per l'unica volta alza il capo, umiliando pubblicamente il suo superiore e facendo innamorare la vecchia. Ma si tratta pur sempre di una rivolta temporanea: tempo una manciata di fotogrammi e lo ritroviamo nuovamente nella situazione di inizio, schiacciato dal lavoro e dalla vita.
Fantozzi è dunque pura tragedia umana, simbolo universale dell'impossibilità dell'uomo medio di trovare una vera affermazione nella società post-industriale. Il genio di Villaggio stava (e sta tutt'ora) nel declinarlo in modo comico, nel trasformarlo in maschera grottesca e sopratutto nel non tratteggiarlo unicamente come vittima, ma anche come perfetto coacervo di idiozie e pochezze.
Perché è sicuramente vero il fatto che le tragedie che lo colpiscono sono per lo più dovute a quella società mostruosa in cui si muove; che le gag più divertenti mirino a sbeffeggiare usi e costumi moderni del tutto alienanti (la sveglia con la corsa verso l'autobus per arrivare in tempo sul posto di lavoro, la moda del sushi che culmina nell'umiliazione definitiva, il mito del turismo di massa con la gita a Curmayeur assieme a Calboni). Ma la carica comica del personaggio deriva sicuramente dalla sua goffagine e dal suo essere un codardo.
Fantozzi non è (e come si è visto non può essere) un ribelle, né vuole ribellarsi alle brutture del mondo. E' la vittima prediletta degli eventi e dei personaggi più forti (l'arrivista Calboni, l'inarrestabile organizzatore Filini) che si carica così di una valenza negativa totale: è un inetto in un mondo folle, un'iperbole vivente di quanto di più sbagliato ci sia nell'italiano medio, sprovvisto di ogni minimo umano pregio; che non sia, ovviamente, l'irresistibile simpatia con cui Villaggio lo ammanta.
Ogni suo gesto è enfatizzato oltre misura, ogni sua parola caricata all'inverosimile giustapponendo aggettivi e superlativi che riplasmano il linguaggio sino a creare un italiano nuovo, dove l'esagerazione è perfetta forma della parodia del reale (simile a quanto fatto qualche anno prima da Monicelli e soci con i due film su Brancaleone, nel cui secondo compariva anche Villaggio). Fantozzi è una caricatura vivente, è esso stesso visione deformata e deformante del reale che ne incarna tutte le storture.
Vittima, sicuramente, ma anche codardo: non solo verso il potere, ma anche verso quella famiglia che mal sopporta; non ha il coraggio di abbandonare la moglie Pina e la figlia "scimmia" Mariangela, né di confessare la sua attrazione verso la signorina Silvani, amore impossibile la cui bruttezza estetica è parificata solo dalla sua bruttezza interiore di arrivista senza scrupoli.
Pur in tale accezione negativa, quella di Fantozzi resta sempre la maschera di un italiano comune; anzi, l'universalità gli viene forse proprio concessa da questa sua negatività: in fondo, i suoi difetti sono quelli di qualsiasi italiano, sottomesso al potere, lecchino fino al midollo, incastrato in una vita familiare che neanche vuole e che non lo appaga, eppure del tutto incapace di alzare la testa, di prendere la sua vita per mano, quando l'omologazione, quel conformismo vigliacco che ha da sempre caratterizzato la nostra natura, porta ad una forma di pur vana tranquillità (il lavoro ed il tetto sulla testa). La tempesta di sfighe che lo affligge si colora anch'essa di un che di universale. In ciò Villaggio è riuscito nella non facile impresa di creare un personaggio al contempo unico ed universale: chi non può dire di non aver mai avuto la sensazione di avere una "nuvola da impiegato"?
Il motivo per cui questa maschera beffarda riesce tutt'oggi a divertire è, di conseguenza, forse anche più sinistro di quanto appare; forse in 42 anni la società italiana non è cambiata, è rimasta sempre quella di metà degli anni '70, dove i ricchi possono tutto e i meno abbienti sono dei "Fantozzi": figli di un dio minore, condannati al servilismo, orgogliosi della propria pochezza, incapaci di ribellarsi anche ai soprusi più banali, che schivano ogni forma di cultura e vedono la religione come superstizione e quando possono si dedicano ad una sana "slinguazzata" verso il potente per ottenerne i favori.
In questo, Villaggio ci ha davvero visto lungo.
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