1932-2017
Un'icona tutta italiana. Un volto espressivo e perennemente perso in uno sguardo volutamente vuoto, una gestualità goffa ed impacciata, un corpo ingombrante eppure minuscolo, una voce stentata.
La maschera di Paolo Villaggio, che aveva battezzato Fantozzi ma anche Giandomenico Fracchia, è e resterà sempre la perfetta rappresentazione di quell'italiano medio sfigato, ma anche codardo, vittima dei più forti, ma anche privo di vera dignità.
Una visione, la sua, che era la versione iperbolica di quella commedia all'italiana che aveva veicolato al livello successivo, verso un grottesco satirico dalla ferocia inusitata.
Prima e dopo, le polemiche.
Prima a causa di quel suo humor distruttivo, che lo portava a prendere per mano gli spettatori negli studi televisivi e a sbeffeggiarli, troppo avvenieristico per i sonnolenti figli della DC; o a scrivere per De Andrè la canzone su Carlo Martello, che fa infuriare la censura.
Dopo a causa della caduta in disgrazia. Non solo sua, ma dell'intero sistema-spettacolo italiano, a cui si adegua. Ed il suo Fantozzi da maschera corrosiva si fa sagoma che ripete meccanicamente le stesse gag di altri grandi artisti (Chaplin, Harold Lloyd, i Fratelli Marx) o ricicla sé stesso sino alla saturazione definitiva.
Ed è bene ricordarlo per ciò che era: un simbolo fulgido ed ancora tristemente attuale della miseria italiota.
Ed oltre la sua creatura più celebre, le partecipazioni a "Io... Speriamo che me la cavo" e "La Voce della Luna", prove più misurate, che testimoniano la sua inedita versatilità.
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