sabato 22 luglio 2017

La Cinese

La Chinoise

di Jean-Luc Godard.

con: Jean-Pierre Léud, Anne Wiazemsky, Juliet Berto, Michel Semeniako, Lex De Brujin, Omar Diop.

Francia 1967


















Nel 1967 la Rivoluzione d'Ottobre festeggia 50 anni; anniversario che se posto in una prospettiva storica, tende a coincidere con la vigilia delle rivolte sessantottine, con lo scontro violento che infiammerà tutto l'Occidente tra i giovani studenti che credono nelle teorie marxiste, talvolta futilmente affascinati dall'esperienza cinese oltre che sovietica, pronti a tutto pur di sradicare il "vecchio regime".
Jean-Luc Godard, classe 1930, all'epoca dei fatti è già giunto ad una plurima forma di maturità; quella artistica, sicuramente, grazie ai capolavori che sin dal suo esordio ne hanno costellato la carriera. Ma anche quella intellettuale, data in parte e sopratutto dal disincanto verso quelle comuni di giovani scavezzacollo, studentelli esaltati, poveri disperati e chi più ne ha più ne metta, accomunati da una violenta passione rivoluzionaria, che affonda le sue radici, appunto, nel marxismo.
Maturità passata attraverso la crisi affettiva, ora superata grazie alla conoscenza di Anne Wiazemsky, giovane attrice figlia di un nobile russo fuggito dalla patria proprio a causa della Rivoluzione Bolscevica, che in quegli anni, giovanissima, sarebbe stata musa anche per Pasolini in "Teorema" e poi "Porcile", per Bresson nel capolavoro "Au Hasard Balthazar" (1966) e per Ferreri ne "Il Seme dell'Uomo" (1969). Senza contare la crisi intellettiva che lo aveva portato a concepire un'opera di rottura totale come "Due o Tre cose che so di lei..." e che ora si riassesta proprio grazie alla passione politica.
Lui, che marxista lo è stato davvero e che per questo si sente di poter superare molte delle posizioni più radicali che i suoi stessi connazionali, spesso amici, prendevano in quel periodo e che testimonierà in modo diretto gli esiti di quella stagione, più tardi, con "Lotte in Italia" (1971), già nel '67 riflette sulla futilità della rivoluzione finto-proletaria e, sopratutto, sulle figure, dubbie, di giovani rivoluzionari, creando uno spaccato disincantato sino all'acidità di una comune marxista in "La Cinese", ennesimo capolavoro per stile e (questa volta sopratutto) contenuti.



Il pensiero maoista è l'unica vera filosofia rivoluzionaria; i personaggi della comune "Aden Arabie" (ispirata ad una vera comune parigina dell'epoca) adoperano il libretto rosso come una Bibbia ed ognuno di loro la declina, interpreta e recepisce in modo diverso.
Guillaume (Léud), attore teatrale mancato, ne decanta i passaggi in modo vigoroso; ancora più di lui, Veronique (la Wiazemsky), studentessa di filosofia, è convinta che la violenza sia l'unico modo per affermare l'ideale del marxismo-leninismo; il taciturno Kirilov (De Brujin) progetta un attentato al ministro della cultura, mentre il mite Henri (Semeniako), più vicino alla teoria, viene subito allontanato; sullo sfondo, Yvonne (la Berto) aderisce passivamente a qualsiasi discorso e posizione risulti maggioritaria.




Godard è chiaro: il marxismo-leninismo è ora alla portata di tutti; la Rivoluzione è pronta a scoppiare; ma i protagonisti di questa stagione non sono davvero pronti, perché arroccati all'interno delle proprie posizioni, così come fisicamente all'interno degli angusti spazi dell'appartamento ove convivono.
Le parole di Mao divengono un dogma, i dettami della filosofia rivoluzionaria un mantra che viene ripetuto come una preghiera; ogni suo aspetto viene accettato, assimilato e ripetuto meccanicamente, come quando nel gruppo ci si domanda cosa voglia dire "analizzare" e si arriva semplicemente a ripetere le parole lette nei saggi.
Ancora peggio, i giovani rivoluzionari sono persi in ragionamenti astrusi, del tutto distaccati dal reale, che sulla base di mere argomentazioni logiche arrivano a conclusioni del tutto improbabili, ma che loro accettano passivamente proprio perché corrispondono a quel meccanismo mentale nel quale sono persi. L'esempio che Godard porta è illuminante: durante un dibattito, Guillaume "dimostra" come Lumiére fosse un pittore, non un filmmaker, mentre quelli di Meliés erano cinegiornali veri e propri; Lumiére che riprendeva il reale viene etichettato come visionario, Meliés che, creò il cinema fantastico e girava sempre in interni con scenografie create ad hoc, un cronista; assurdità totale che però viene "bevuta" proprio perché basata sui medesimi assiomi argomentativi del marxismo-leninismo.
La mancanza di critica ed il pre-concetto distaccano il rivoluzionario dal reale.




Situazione che Godard porta alle estreme conseguenze facendo confrontare il personaggio di Veronique con il giornalista e filosofo Francis Jeanson, di sinistra e che appoggiò apertamente i rivoluzionari algerini; l'argomento è a lei vicino: le carenze del sistema universitario, che ritiene classista ed inutile e che, nella sua opinione, andrebbe abolito anche solo stagionalmente per favorire il lavoro nei campi, come accade nella tanto ammirata Cina maoista. Veronique non sa fare altro che ripetere statuizioni politico-filosofiche a memoria e quando Jeanson le chiede come farà a far chiudere le università, lei risponde semplicemente "con le bombe": al di là delle elucubrazioni mentali, la violenza è l'unico strumento che conosce; e qui Godard effettua una stoccata che anticipa i tempi, le violenze vere che le vere Veronique porteranno in strada da lì a pochissimo: Jeanson le fa capire come questi suoi ideali non sono condivisi da nessuno; nel momento in cui effettui un atto di violenza, questo sarà mero terrorismo, non una rivoluzione; la differenza con l'Algeria, la Russia zarista e la Cina è tutta qui: i rivoluzionari francesi non hanno l'appoggio del popolo; e non può esistere una rivoluzione fatta "per procura"; tant'è che la stessa Veronique cade nuovamente in fallo quando Jeanson le chiede quali siano i suoi piani per il dopo-rivoluzione: non ci sono, non riesce a pensare oltre l'atto di rottura. Il vivere costantemente persi tra la pura filosofia ne ha castrato la mente, anzicché renderla più affine ad un vero atto rivoluzionario e a ripensare la tanto disprezzata società capitalista.




Il marxismo-leninismo professato dai giovani, l'avversione all'imperialismo americano e agli orrori del Vietnam, la contrapposizione contro la società De Gaullista sono gabbie mentali che costoro non vogliono superare; il libro rosso di Mao e la sua filosofia divengono così dogmi e coloro che ne decantano la necessità altro non sono che ottusi esaltati privi di discernimento; tanto che Godard decide di chiudere il film proprio con la presa di coscienza di Veronique su come la militanza nella comune non sia stato un punto d'arrivo, né un vero punto di rottura, quanto il primo passo verso una vera maturazione politica, che prima credeva di avere ma che di fatto non aveva.
Così come Guillaume tenterà di fondere il teatro con la propaganda politica, divenendo un istrione. O Kirilov si suiciderà senza apparente motivo, come gesto fine a sé stesso al pari di unarivoluzione fatta da nessuno per nessuno.
Il sogno rivoluzionario non può attecchire sul popolo; non quando a fare da portavoce sono quei piccoli borghesi affascinanti solo dal suo contenuto più radicale; non per nulla, Godard mette in bocca il proprio giudizio al personaggio di Henri, quello più cosciente dei limiti delle azioni del gruppo; e lo fa con una metafora sul linguaggio: nell'antico Egitto, si riteneva che la lingua egiziana fosse quella degli déi e che quindi fosse naturale per l'uomo parlarla, così come la rivoluzione proletaria viene vista nel marxismo come necessità e tappa naturale per l'evoluzione dell'Uomo; per dimostrarlo, un gruppo di neonati viene abbandonato in una casa fuori dalla città; 15 anni dopo si scopre come questi abbiano imparato il linguaggio delle capre che venivano allevate lì vicino; allo stesso modo, i giovani (pre)sessantottini altro non sono che dei conformisti piccolo-borghesi, in grado di assorbire a-criticamente ogni concetto a loro piaccia, rielaborarlo in modo ancora più astruso per i propri fini, ma del tutto incapaci di collegarsi al prossimo, di agire in modo concreto e pragmatico verso quelle storture sociali che si vorrebbero semplicemente far deflagrare. Loro non parlano un linguaggio comprensibile a chi dovrebbero "proteggere", a quel popolo nel nome del quale sono pronti a far scorrere sangue. Parlano un linguaggio che hanno ereditato dagli scritti e che ripetono senza coglierne a pieno il significato.




La distruzione del sogno rivoluzionario è totale e non fa sconti; allo stesso modo, il linguaggio filmico viene (al solito) frammentato e ricostruito; costante è l'uso dello sfondamento della quarta parete, con i personaggi che parlano fuori campo ad un intervistatore "fantasma"; la narrazione si fa para-documentaristica, in modo da confondere i personaggi con le loro eventuali controparti reali. Il montaggio, sopratutto, diviene ancora più spezzato che in passato: giustapponendo immagini slegate da ogni contesto (da antologia l'uso delle icone dei fumetti come emblemi dell'imperialismo), Godard crea un vero e proprio collage in movimento, come accadeva nel precedente "Due o Tre cose che so su di lei".
Visione critica decostruttiva totale che si fa pura profezia: il '68 porterà a galla tutte le contraddizioni delle comuni e del marxismo-leninismo; e quando lo farà, Godard sarà a Londra, a riflettere sulla Babilonia di ideologie, idee ed istanze estetico-filosofiche che si scontrano per le strade e su come l'Arte sia l'unica certezza in un mondo in preda al caos; e chiamerà questa sua riflessione "One plus One", ideale "seconda parte" de "La Cinese.

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