lunedì 7 maggio 2018

L'Isola dei Cani

Isle of Dogs

di Wes Anderson.

Animazione/Commedia

Usa, Germania 2018

















Dimensioni lineari, piatte ma ricercatissime e colorate in modo sgargiante; un linguaggio unico e personalissimo quello di Wes Anderson, fatto di immagini geometriche e bidimensionali, dove l'animazione spesso si fonde con il live-action per creare qualcosa di unico. I numi tutelari sono avvertibili: il Kubrick di "Shining" e sopratutto Yasujiro Ozu.
Per la sua escursione nipponica era quindi d'obbligo aspettarsi un gusto ancora più sfrenato per il classicismo del cinema giapponese, per quelle immagini con forme speculari, dove la macchina da presa è sempre rasoterra ed inquadra i personaggi di fronte o di lato, mai a tre quarti. Ed invece Anderson stupisce tutti aggiornando il proprio stile, conferendoli un'inedita profondità.



Profondità d'immagine che va di pari passo con un racconto sfaccettato e dalla sottile metafora politica. I cani divengono gli oppressi, vittime di un sistema che li emargina in quanto diversi, sino a relegarli su di un isola-lager, letteralmente in mezzo ai rifiuti, ossia gli scarti della società. Chief, il più ruvido del branco dei protagonisti, e la sua ideale controparte Spots sono due facce di una stessa medaglia: Spots è il servitore fedele, un samurai il cui padrone, Atari, percorre mari e monti (di immondizia) pur di ritrovare; Chief, d'altro canto, è un ronin in tutti i sensi, un cane senza padrone alla deriva, perso nella sua propria ossessione per la libertà, che finisce per compiere un viaggio di formazione con il quale scoprirà l'importanza dell'appartenenza.




Se nel cinema di Anderson precedente il fulcro era sempre dato dalla figura paterna o dalla sua assenza, qui il valore diviene quello della famiglia in toto, dove la ritrovata catarsi (presente da "Moonrise Kingdom in poi) porta alla riscoperta di tale valore da parte del randagio e del malvagio.




Ed Anderson si diverte a giocare con il linguaggio. Al di là dell'inedito senso di profondità, è semplicemente geniale la trovata di lasciare in giapponese tutti i dialoghi degli umani, tradotti in simultanea nei passaggi più importanti, ponendo al centro di tutto il migliore amico dell'uomo come creatura più "umana"; lo stesso Atari, nella sua odissea, ricorda il comportamento di un amico fedele alla ricerca del proprio padrone, mentre l'evoluzione di Chief ricorda quella di un personaggio in tutto e per tutto umano.
Gioco che continua nell'animazione, dove la tridimensionalità dell'animazione passo-uno è intercalata con la bidimensionalità di quella classica, dove la profondità viene alternata sapientemente alla pura geometricità e dove lo split screen duplica i centri di interesse.




Da qui la perfetta riuscita di un'opera sorprendente e divertente, in cui l'umorismo non è mai forzato, rendendo il tutto ancora più fresco.

2 commenti:

  1. In film veramente molto bello. Una bella fiaba sul rapporto di affetto tra due mondi diversi. Ho trovato molto interessante l'idea di lasciare in lingua giapponese i personaggi umani.

    P.S. Ho trovato molto bella la riflessione sulla figura del samurai e del ronin applicata ai cani. Complimenti.

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