con: Gian Maria Volonté Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Laura Nucci, Mario Scaccia, Luigi Pistilli, Leopoldo Trieste, Giovanni Pallavicino, Salvo Randone.
Italia 1967
---CONTIENE SPOILER---
"Mafia" è un termine dall'origine incerta. Si ritiene che sia nato come sinonimo di "miseria", ma anche di "altezzosità", due parole distinte, due immagini diverse che di certo ben si attagliano all'attività mafiosa, retta dai famosi "uomini d'onore" che radono al suolo tutto ciò che toccano per il proprio tornaconto.
Cosa Nostra, d'altro canto, non è stata neanche la prima associazione mafiosa presente sul territorio italiano, primato che spetta alla Camorra, a quanto pare. Quel che è certo è che le associazioni mafiose di origine siciliana sono assurte, nel corso dei decenni, a vero e proprio simbolo della criminalità organizzata nostrana e questo già prima delle stragi degli anni '80 e '90.
Non è chiaro quando in Italia si sia iniziato a parlare davvero di mafia. Quel che è chiaro è che per decenni c'è stata una forma di ritrosia nel riconoscere anche solo la semplice esistenza del fenomeno mafioso; e questo anche quando la Mattanza insanguinava ogni singolo angolo della Penisola.
Al cinema il termine si è affacciato poco alla volta per descrivere quella realtà che nel sud Italia esisteva già all'indomani della nascita del Regno d'Italia e che nel Secondo Dopoguerra aveva raggiunto una gravità inaudita. Se già Francesco Rosi ne La Sfida usava apertamente il termine "Camorra" per descrivere il crimine organizzato in Campania, sempre lui darà una prima e più veritiera immagine di Cosa Nostra in Salvatore Giuliano; è però con A Ciascuno il Suo che la mafia siciliana trova una delle prime esplicite rappresentazioni su schermo.
Alla base vi è il romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, pubblicato poco prima dell'entrata in produzione del film. E Sciascia aveva già trattato l'argomento mafioso nel celebre Il Giorno della Civetta, del 1961, il quale però troverà solo nel 1968 un adattamento filmico, pur essendo uno dei primi scritti in lingua italiana ad usare il termine "mafia". Termine che, almeno nella trasposizione filmica, in A Ciascuno il suo non trova spazio, senza che però ciò inifici la forza rappresentativa di storia e personaggi.
Perché alla fine quella scritta da Sciascia e portata in scena da Petri è una perfetta storia di mafia. Non quella mafia fatta da banditi che terrorizzano i deboli con la lupara e il ricatto (pur comunque presenti negli eventi), quanto quella mafia intesa come sistema di potere che trae forza dall'omertà condivisa dei luoghi nei quali ha origine. Una mafia fatta di colletti bianchi, di "rispettabili", persino di preti e vedove; quello che la caratterizza come tale è la prevaricazione, l'affermazione violenta degli interessi particolari su quelli generali, con il beneplacito di chi preferisce guardare dall'altro lato.
Lo spunto iniziale della storia è praticamente quello di un giallo: in un paesino in provincia di Palermo, il farmacista Arturo Manno (Luigi Pistilli), noto "femminaro", viene ucciso durante una battuta di caccia assieme all'amico Antonio Roscio (Franco Tranchina). Delitto subito etichettato come "d'onore". Ma il professore Paolo Laurana (Volonté), amico di entrambi, ha dei sospetti: le lettere anonime che Manno riceveva erano vergate usando pezzi de L'Osservatore Romano, lettura decisamente ostica per i sospettati, due contadini semi-analfabeti parenti della ragazzina da lui concupita. Decide così di indagare, andando a scoperchiare il classico vespaio.
La mafia è quella della provincia, quella che ancora uccide con la lupara piuttosto che con il tritolo. Un paragone fatto dallo stesso protagonista nella sua sortita palermitana, dove assiste ad un attentato a mezzo autobomba. Una mafia fatta di piccole persone con desideri ai limiti del miserabile, fatta di notabili piuttosto che di tagliagole e di omertosi piuttosto che di collaboratori veri e propri. Una mafia "dal volto umano" che si confonde con i vicini, con gli amici persino. Petri e Sciascia non celano più di tanto l'identità del mandante dell'omicidio, tantomeno la motivazione: questi altri non è che l'avvocato Rosello, interpretato con eleganza dal sempre ottimo Gabriele Ferzetti. Non un criminale di mestiere, quanto un "mammasantissima" che si unisce a Cosa Nostra per puro tornaconto personale. Il motivo del duplice omicidio? La volontà di sposare la bella cugina Luisa, andata in sposa al Roscio solo perché il loro zio monsignore era inizialmente contrario alle nozze. Il movente iniziale, quello dato dalla denuncia del Roscio dei suoi collegamenti con la mala è in realtà una pura aggravante, come specificato nel beffardo finale.
In questo contesto di piccola meschinità assortita, il Laurana è un personaggio fuori posto, strambo, quasi bizzarro, la cui umanità è sottolineata costantemente sia da Petri che da Gian Maria Volonté, il quale, pur avendo già collaborato in precedenza con i fratelli Taviani, inizia in realtà qui a divenire il volto più celebre del cinema dell'impegno civile.
Un personaggio, il suo, minuscolo: non un eroe, né un santo vista la sua attrazione morbosa per Luisa; di certo un idealista, perso com'è nella sua volontà di fare giustizia e persino deluso dal comportamento del PCI, già all'epoca colpevole di forme di tolleranza verso il male affare che solo decenni dopo daranno i loro frutti.
Laurana è quasi un alter-ego di Sciascia, del quale incarna l'indole idealista, ma non quella disillusione sottintesa che spesso porta ad una visione pessimistica delle cose; lui, per motivi di racconto, non si arrende davanti alle intimidazioni, né davanti alla presenza di mafiosi veri e propri, continuando per la sua strada imperterrito alta fino alle estreme conseguenze, martire di un sistema dove la correttezza e il senso di giustizia si pagano con la vita, in un'esecuzione mafiosa che ricorda in parte quella con la quale anni dopo verrà ucciso Peppino Impastato.
Ma dove è lo Stato in questa storia di mafiosetti e omicidi? Qui, Petri tira la stoccata ad oggi più vibrante, ritraendolo come un'entità evanescente, che esiste, compare persino, ma non ha davvero nessun peso negli eventi.
I Carabinieri compaiono in appena un paio di scene, ossia quando i due imputati vengono condotti in carcere a mezzo jeep e quando l'ispettore interroga Laurana dopo aver effettuato le riprese dei signorotti al funerale di Roscio. Il minimo indispensabile, un'attività a dir poco marginale che analizza perfettamente il ruolo dell'autorità statale all'interno del gioco mafioso.
In una sequenza decisamente da antologia, ossia quella dell'autobomba a Palermo, Laurana ha poi un dialogo rivelatore con un amico onorevole, interpretato da Leopoldo Trieste, atto a testimoniare il ruolo, anch'esso inesistente, dei parlamentari nella lotta al malaffare di quegli anni. Un parlamentare abituato alla violenza, così come lo è stesso Laurana, che scherza sul fatto che sembra di essere finiti in un film di gangster, ma che quando viene confrontato sulla sua effettiva volontà di perseguire l'aggressività mafiosa, si rivela come un imbelle incapace, arrivando persino a questionare l'effettiva gravità di tali eventi.
Petri si approccia al romanzo in modo libero. La produzione del film, in tal senso, rispecchia perfettamente il suo atteggiamento verso la fonte di ispirazione. Il grande regista si trova infatti, all'indomani del pur ottimo La Decima Vittima, ad un bivio, sul piano artistico. L'esperienza con Carlo Ponti è stata difficile, soprattutto per le sue ingerenze, che hanno portato quella pur perfetta satira di costume a subire diversi compromessi.
L'idea di adattare il libro di Sciascia arriva poco alla volta e quando decide di trasporlo, lo fa in fretta, ma non in modo sciatto. Per la sceneggiatura collabora con Ugo Pirro, che da qui in poi diverrà suo collega abituale andando a sostituire Tonino Guerra. Ma nell'opera di trasposizione, modifica molti degli elementi caratterizzanti la storia, tanto che Sciascia vi si oppone apertamente, ricredendosi solo (e solo in parte) davanti al film finito. Questo perché, almeno inizialmente, Petri non vuole fare un film apertamente politico, un pamphlet con il quale attaccare la classe dirigente, quanto giocare con la struttura da romanzo giallo che già Sciascia tradiva, cosa che lui stesso aveva fatto con il suo esordio L'Assassino.
Di fatto, le variazioni rispetto al giallo classico sono diverse, a partire da quella risoluzione che non viene mai davvero celata; ma anche il progredire dell'indagine viene costruita in modo libero e persino a-logico, con quella lettera che indirizza Laurana al palazzo di giustizia la quale non si sa davvero da chi sia stata inviata.
Il racconto diventa così in tutto e per tutto quello di, nelle parole degli stessi notabili di paese, un "cretino", un uomo che si imbarca in un'indagine della quale tutti conoscono i connotati, tranne lui. Come già sottolineato, a contare non è il chi, forse neanche il perché, quanto il dove il delitto è stato commesso e chi vi si approccia.
Petri asciuga poi il racconto dalle derive grottesche più marcate, creando una narrazione più verosimile rispetto al passato (e a quanto farà in futuro con le sue opere più celebri), ma questo non significa che rinunci ad usare un tono comunque sopra le righe. Il mondo di A Ciascuno il suo è a suo modo iperbolico nella descrizione di personaggi dalle forme grottesche, come quei gentiluomini brutti e sgraziati dai capelli perennemente imbrillantinati o quella vedova bellissima e perennemente pronta allo svenimento; o anche quel Laurana, intellettuale sessualmente represso o incapace come molti dei personaggi di Petri, ma anche goffo e insicuro.
Racconto che trova così un'espressività inedita che un registro totalmente realistico non avrebbe consentito, ma al contempo risulta vicinissimo alla realtà. Sensazione acuita dalla particolare costruzione della scena che la regia adotta, totalmente basata sugli obiettivi zoom; trovata che attirerà le ire di tanta critica con la puzza sotto al naso, che all'epoca della sua uscita stronca il film per il suo look da pellicola di genere, è in realtà anch'essa un'intuizione vincente: la macchina da presa finisce così per tampinare il suo protagonista, noi spettatori ne diventiamo complici in un gioco quasi voyeuristico, immergendoci al suo fianco in questa Sicilia più reale del reale.
Rivisto oggi, A Ciascuno il suo ha sicuramento perso quella forza dirompente che lo caratterizzava nel 1967; il fenomeno mafioso si è evoluto sino alle estreme conseguenze, la mafia è divenuta tutt'uno con lo Stato e in tempi recenti si è persino arrivati a rivalutare alcune figure impegnate nella lotta alla criminalità organizzata che pur hanno sacrificato la loro vita per il bene comune. Un film che si limita a descrivere la mafia di provincia non ha di certo più la forza di generare scandalo o aprire le coscienze verso una realtà che si vuole rimuovere oggi forse più che mai.
Paradossalmente, la sua forza è proprio ancora oggi questa, ossia quella di ricordarci come la mafia sia un atteggiamento morale e mentale prima ancora di un fenomeno materiale, configurandosi come un film sicuramente datato, ma non obsoleto.
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