con: Mark Frechette, Gian Maria Volontè, Alain Cuny, Giampiero Albertini, Pier Paolo Capponi, Franco Graziosi, Mario Feliciani, Alberto Mastino, Brunetto Del Vita, Nino Vingelli, Daria Nicolodi.
Guerra
Italia, Jugoslavia 1970
L'esperienza non proprio idilliaca avuta con C'Era una Volta fece nascere in Rosi la necessità di riconnettersi con la realtà, andando al di là delle pretese fantastiche per ritrovare un territorio narrativo che gli fosse più consono. Il suo progetto successivo, tuttavia, non narrava una realtà contemporanea, cosa inedita nel suo cinema persino contando il passato recente di Salvatore Giuliano; Rosi si confrontava infatti con un passato che già nel 1970 appariva remoto, ossia la Prima Guerra Mondiale.
Un passato che nell'Italia della fine degli anni '60 era però pressoché inedito su Grande Schermo; certo, c'era stato il successo del kubrickiano Orizzonti di Gloria e persino il celebre esperimento di La Grande Guerra, ma uno sguardo onesto e veritiero verso il primo conflitto globale non era mai stato davvero gettato; cosa che risultava ancora più urgente laddove si tenesse conto di come persino i libri di scuola dell'epoca non arrivavano a coprire quel dato periodo storico, per questo considerato ancora come troppo delicato.
Rosi, dal canto suo, parte dal capolavoro Un Anno sull'Altopiano di Emilio Lussu (che riadatta in maniera molto libera assieme ai collaboratori abituali Tonino Guerra e Raffaele La Capria), per creare un affresco sporco nel quale fa confluire assieme ad un'onesta ricostruzione storica anche uno sguardo politicamente impegnato. Il risultato è tutt'oggi notevole, benché fatalmente imperfetto.
Un affresco che poggia sulla dinamica tra tre personaggi, ciascuno rappresentativo di un ideale diverso: il generale Leone (Alain Cuny) è il conservatore, un vecchio nobile che incarna i valori guerrafondai della destra italiana; Ottolenghi (Volonté) è l'anarchico, un ribelle che aspetta di tornare in patria per dar vita ad una rivoluzione volta a cancellare il regime costituito; tra di loro, il pacifista Sassu (Mark Frechette, all'epoca reduce dal Zabriskie Point di Antonioni), che disprezza il conflitto e la classe dirigente, ma è cosciente di come una rivolta non porti davvero a nessun cambiamento.
Una dinamica a tre che diventa paradigma del potere. Un potere in mano a pochi, ad una classe dirigente tanto bieca quanto incapace, non per nulla si tratta di quella che è riuscita a perdere la Grande Guerra pur avendola vinta, un nugolo di ufficiali di alto grado che rappresenta il vero nemico dei soldati; sono questi ultimi gli "uomini contro", uomini che cercano invano di ribellarsi alla gerarchia, ad un nemico interno ben più feroce dell'evanescente nemico esterno (i Tedeschi appaiono giusto di sguincio) ; una "massa", un popolo che viene sfruttato e distrutto a piacimento e senza remore alcuna.
I risvolti marxisti più estremi vengono perorati da Ottolenghi, a cui Volonté dona un naturale carisma dato anche da una performance magnificamente tra le righe. Quelli meno feroci da Sassu, vera e propria figura mediana: non un rivoluzionario, non un guerrafondaio, quanto un uomo che comprende appieno i meccanismi del potere e quelli della guerra e ed è cosciente di come non possano essere elusi o eradicati in alcun modo; comprensivo quando può, ferreo quando serve, sa quando esporsi per il prossimo (il climax) e quando rimettere in riga i sottoposti; tra questi spicca Marrasi, l'eterno disertore, ed è purtroppo qui che la visione di Rosi trova un primo difetto; a Marrasi viene demandato il ruolo del pacifista, del ragazzo semplice, il campagnolo del sud che cerca di salvarsi dall'ingiusto massacro delle trincee; ma la sua caratterizzazione è troppo basilare e insistita, divenendo antipatico sin dal prologo, quando lo sguardo che dovrebbe suscitare dovrebbe essere invece quello di piena comprensione e compassione.
Monodimensionalità che purtroppo affligge anche il personaggio del generale Leone, vero e proprio cattivo del film; e che purtroppo porta la costruzione drammaturgica a cedere.
Non si riesce davvero a prendere sul serio questo generale da macchietta immerso in un contesto serissimo. Leone è lo stereotipo del nobiluomo avulso da ogni realtà che manda al massacro i sottoposti e ne ordina l'esecuzione sommaria solo per compiacere il proprio fanatismo ed il proprio immane narcisismo. Cuny lo rende a suo modo memorabile caricandolo con tutta la teatralità possibile e se non risulta mai credibile non è certo per colpa sua, quanto per una scrittura che da drammatica decide di farsi satirica praticamente solo su questo piano; colpa, probabilmente, delle simpatie politiche degli autori, le quali qui finiscono solo per creare un difetto davvero becero.
Rosi riesce tuttavia a portare in scena una Grande Guerra da incubo: soldati immersi nel fango, ammantati in capi logori e fiaccati dalle angherie dei superiori, persi in un'atmosfera lugubre dove dietro ogni ordine si nasconde una forma di prevaricazione. La guerra di Rosi altro non è se non un massacro ideologico prima ancora che fisico, dove i molti vengono chiamati a morire per il lusso di pochi, dove la vita non vale nulla in primis per i propri superiori. Non esiste speranza, non c'è lo scampolo della vittoria e la morte è la sola certezza; una morte brutale e veloce, talvolta ironica, ma sempre aberrante.
I limiti del budget si vedono tutti nelle prime sequenze, dove l'unico vero scontro frontale tra i due eserciti viene risolto con una serie di tagli veloci e inquadrature strettissime; una trovata che oggi potrebbe essere percepita come moderna, visto che tempo qualche decennio e sarebbe diventata lo standard per la costruzione delle scene di battaglia anche nelle grandi produzioni americane, ma che qui non riesce a trasmettere il senso di scala e drammaticità che tenta di ricercare.
Uomini Contro resta così un'opera sospesa tra grandissime ambizioni e risultati solo in parte raggiunti. La disanima della disumanità del sistema di potere palesato dal contesto bellico è ben definita, così come la ricostruzione storica e la tensione data dal conflitto. E' semmai il sistema narrativo ad essere fin troppo basato sulla convenienza dell'uso di archetipi che cozzano con un racconto drammatico tout court, gene3rando un corto circuito che affossa parte della credibilità.
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