con: Mia Goth, Elizabeth Debicki, Moses Summey, Giancarlo Esposito, Kevin Bacon, Halsey, Michelle Monaghan, Bobby Cannavale, Sophie Tatcher, Lilly Collins.
Thriller
Usa, Regno Unito, Nuova Zelanda
---CONTIENE SPOILER---
Concludere degnamente una trilogia non è compito facile e soprattutto nel cinema americano gli esempi di terzi capitoli sottotono rispetto ai predecessori non sono mai mancati. Fortunatamente, Ti West, con il suo MaXXXine, è riuscito a creare una sfolgorante eccezione a tale regola non scritta.
La coda della storia di Maxine Minx, iniziata con X e proseguita con il prequel Pearl, è il capitolo forse più riuscito di questo bel trittico che omaggia il cinema americano e non, exploitation e non; che omaggia, in sostanza, il cinema, la sua forza espressiva, creativa e distruttiva, che con questo finale viene rappresentato anche per quel che accade dall'altro lato della macchina da presa, in una riuscita commistione di omaggio cinefilo e spaccato drammatico.
Los Angeles, 1985. Maxine (Mia Goth), sopravvissuta a quello che è stato definito "The Texas Porn Star Massacre", è ora un'affermata interprete di film per adulti che cerca di fare il salto di qualità verso il cinema mainstream. Il passaggio intermedio è dato dal cinema horror, con un provino riuscito per una produzione diretta dall'affascinante regista Elizabeth Bender (Elizabeth Debicki). Ma all'improvviso, un lercio detective privato (Kevin Bacon) inizia a tampinarla, mentre le strade di L.A. sono sconvolte dalla violenza di Richard "Night Stalker" Ramirez, il quale sembra essere più vicino alla ragazza di quanto possa sembrare...
Laddove X omaggiava il cinema "sporco" degli anni '70 e Pearl gli anni d'oro della prima Hollywood, MaXXXine riporta in auge un filone in parte più oscuro, quello dato dai thriller ad ambientazione metropolitana degli anni '70 e '80. Un filone forse definibile come "sleazeploitation" il cui exploit più famoso è l'immortale Taxi Driver di Scorsese, ma che conta anche altre innumerevoli pellicole degne di nota: si pensi a Vice Squad (esaltato all'epoca della sua uscita proprio da Scorsese), Hardcore di Paul Schrader, China Blue di Ken Russell, il Maniac di William Lustig, The Driller Killer e Fear City di Ferrara e persino Lo Squartatore di New York di Lucio Fulci. Tutti film che descrivono la metropoli americana come un coacervo di depravazione e violenza che corrodono l'individuo, arrivando anche a distruggerlo fisicamente per il tramite della violenza gratuita.
West qui riporta quell'immaginario fatto di strade lerce lastricate di luci al neon, lucciole, papponi e psicopatici armati di coltello in modo certosino: la Hollywood Bld. qui ritratta sembra davvero uscita da un sleazeploitation del 1981 tanto è la cura riversata nella sua ricostruzione; eppure, al contempo, West sa come rendere verosimile questa ricostruzione, senza appiattirla sulla semplice nostalgia o, peggio, sulla mera citazione cinefila sterile, benché i rimandi anche diretti ai numi tutelari non manchino praticamente mai.
La L.A. di MaXXXine è la L.A. del cinema americano di genere, elevata però a sogno febbrile filmico, una metropoli pazza e sporca dove tutto è un rigurgito dell'immaginario collettivo hollywoodiano e persino i pervertiti armati di coltello travestiti da Buster Keaton. Eppure, questa L.A. di un'epoca che mai fu è anche il sogno febbrile della vera Los Angeles del 1985, con una certosina ricostruzione storica che si salda indistinta con quella cinefila.
Per le strade si aggira il vero Richard Ramirez e il suo regno di terrore finisce per influenzare direttamente la trama del film, pur se in maniera non decisiva; prima ancora, è il panico satanista a eruttare per i viali di Hollywood, con le orde di genitori preoccupati pronti a manifestare contro la produzione di un innocui horror da accatto, accusati di traviare i giovani verso il maligno. E' proprio tale aspetto, tale commistione tra realtà e fantasia cinefila, a costituire il risvolto più originale e radicale dell'opera di West, che qui porta a coronamento il discorso sul "perbenismo assassino" già iniziato in precedenza. Per comprenderne la portata è però essenziale tenere presente l'identità del vero killer che perseguita Maxine per tutta la durata del film.
Identità il cui disvelamento rappresenta anche il punto debole del film: soprattutto se si guarda questo terzo film in prospettiva con il primo (cosa in realtà non obbligatoria per comprendere storia e significato) o si tiene anche semplicemente conto di quel prologo dato da un filmato famigliare d'antan, non si possono che unire immediatamente in puntini e comprendere come l'assassino altri non sia che il padre di Maxine, quel predicatore infervorato stile Estus Pirkle i cui sermoni apocalittici invadevano sovente le immagini di X; il quale è ora a L.A. per riportare il timore di Dio nei peccatori a suon di coltellate e sventramenti.
Svolta debole quanto si vuole, ma che dona un significato decisivo al film soprattutto in rapporto al filone di riferimento: questa prospettiva altro non è che un ribaltamento di quella vista in Hardcore; se nel capolavoro di Schrader il buon padre di famiglia timorato di Dio interpretato da George C.Scott si immergeva nel lerciume della metropoli per ritrovare una figlia creduta rapita e costretta a girare porno, la quale si scopriva in realtà fuggita di casa per sottrarsi ad una vita opprimente, in MaXXXine il punto di vista è quello della ragazza fuggita, la quale, benché non venga ma descritta come una vittima di nulla, è fuggita anche lei da un quadro famigliare caratterizzato da una religiosità asfissiante che si ripresenta nelle forme di un castigo divino deviato.
La perdita di orientamento tra Bene e Male viene reinterpretata da West come conseguenza di un'oppressione religiosa che punta a castrare tutto e tutti in funzione di un bene dato unicamente dalla rinuncia; ma (ed è cosa nota praticamente a tutti) una rinuncia imposta non può che generare ribellione, da cui il rigetto della costrizione e l'abbraccio, da parte di Maxine, di un male utile a perseguire i propri fini (per paradosso puro, il suo mantra di autoaffermazione si scopre qui essere una devianza inculcatale dal padre in buona fede). Corrispettivamente, la reazione conservatrice ad un mondo che la rivoluzione sessuale e culturale ha reso più libero, ma anche più pericoloso è quella violenza che proprio i conservatori di stampo cristiano (ma non cattolico) paradossalmente aborriscono. Certo, quello di West non è certo il primo predicatore pazzo che il cinema di genere americano porta in scena e proprio Fear City, ossia uno dei punti di riferimento del filone, ne presentava uno dei primi circa quarant'anni fa, ma quello di MaXXXine risulta a suo modo memorabile soprattutto laddove lo si inserisce nel contesto del significato del film.
Nel mondo di MaXXXine il bene e il male, così come comunemente intesi, non esistono e l'unica linea di discrimine esistente per categorizzare le azioni umane è quella tra vittime e carnefici. Maxine non è di certo una semplice final girl, non lo era nel primo film, men che meno lo è nel terzo e ciò viene ribadito nella bella scena dell'aggressione, dove dimostra di essere lei stessa una carnefice priva di veri rimorsi. L'unico massimo sistema qui esistente è l'affermazione individuale, sia essa quella data dal successo materiale, sia essa quella data nell'affermazione di una propria personale ideologia. Hollywood, di conseguenza, non è semplicemente la Mecca del Cinema a cui sacrificare tutto per ascendere, quanto il luogo ideale dove poter sfogare il proprio egoismo al fine di averne un profitto materiale. In questo, West usa la metafora del mondo dello spettacolo sia in modo originale, sia in modo classico, creando una storia di rincorsa al successo tanto deviata quanto archetipica.
La metafora sul successo si salda poi con il thriller classico ed è qui che West unisce all'omaggio allo sleazesploitation quello ai maestri del genere, ossia Alfred Hitchcock e ai suoi ideali figli Dario Argento e Brian Del Palma.
Psycho, già nume tutelare in Pearl, ora rivive della scenografia originale del Bates Motel, riutilizzata per il celeberrimo sequel Psycho II del 1983; ed è qui che West inserisce anche lo spaccato di un'epoca che cambia: il cinema di genere sta subendo una mutazione, con molti exploit che divengono straight-to-video; la videoteca diviene così luogo di culto filmico nel quale il passato forse più illustre e il presente dei sequel fuori tempo massimo e dell'exploitation più rozza iniziano a coesistere. In tale momento delicato, il rigetto del pubblico per il sesso e la violenza portano ad una visione ancora più cinica di quel cinema, da cui l'unico vero omicidio mostrato su schermo, quello del videotecaro e amico Leon (Moses Summey) in una scena che sembra uscita dritta dritta da un giallo di Argento, con tanto di killer dai guanti neri e completo in pelle omaggio non solo al cineasta nostrano, ma anche al Vestito per Uccidere di De Palma, il cui stile ritorna anche nell'uso degli split-screen e di una macchina da presa che spesso si muove libera negli ambienti.
Laddove il limite di X consisteva nella riproposizione amorevole, ma meccanica di stilemi e situazioni e quello di Pearl in uno script privo di vera inventiva, qui West riesce in un'impresa a dir poco impossibile, ossia quella di far coesistere l'omaggio cinefilo con lo spaccato d'epoca e il ritratto di un personaggio complesso; MaXXXine dimostra un equilibrio di scrittura e messa in scena a dir poco miracoloso, che scade solo nella canonica costruzione da thriller e, nuovamente, in una mancanza di originalità ora quantomai scusabile; per il resto, è un exploit meraviglioso che conclude più che degnamente quella che, a conti fatti, è davvero una bella trilogia.
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