mercoledì 29 giugno 2016

Napoli Napoli Napoli

 di Abel Ferrara.

con: Abel Ferrara, Luca Lionello, Salvatore Ruocco, Beneditto Sicca, Shanyn Leigh, Salvatore Striano, Ernesto Mahieux, Peppe Lanzetta, Anita Pallenberg, Giovanni Capalbo.

Italia 2009


















Come tutti gli autori italo-americani, anche Abel Ferrara è ossessionato dalle sue origini italiane. Proprio lui, nato nel Bronx, cresciuto tra quelle strade luride e disperate, si è lasciato ammaliare da quel suo sangue mediterraneo, sbattendo il muso con una realtà non proprio rosea durante la tormentata lavorazione di "Mary" (2005) e "Go Go Tales" (2007). Eppure quel richiamo continua ad essere irresistibile, tanto che nel 2007 finisce per volgere il suo sguardo proprio verso quell'Italia alla quale deve gli atavici natali.
Il padre di Ferrara era infatti figlio di immigrati ebrei originari di Sarno, in Campania, che dovettero persino cambiare il loro cognome di battesimo per non dimenticare il luogo di nascita. Il grande artista si concede così un lungo soggiorno a Napoli, la bella Napoli, la Napoli delle canzoni di Dean Martin che ha stregato due generazioni di americani con la pizza, il mare e la musica.
O no.
Perchè a Ferrara non interessano i paesaggi baciati dal sole, le bellezze mediterranee, i babà e la pizza con la pummarola 'ncopp. Con un coraggio inedito, ma tutto sommato prevedibile, si addentra nel cuore più nero di Napoli, lasciandosi alle spalle i paesaggi da cartolina per perdersi tra i meandri di quello squallore materiale e morale che è humus perfetto per la criminalità, finendo per dare uno spaccato impietoso della città e dei suoi cittadini.
Uno sguardo che arriva in sala nel 2009, ma che viene elaborato a partire nel 2007, ossia prima che il successo di "Gomorra" (2008) di Garrone e del romanzo omonimo di Saviano riuscissero a portare l'attenzione del grande pubblico verso quel mondo. Tanto che il lavoro del regista del Bronx e dei due autori italiani è in fondo speculare: laddove Saviano e Garrone rielaboravano in forma di fiction fatti e situazioni reali, Ferrara si lascia aiutare da Gaetano di Vaio (che in quella Camorra ci aveva militato per davvero e che poi, pentito, ha fondato il collettivo "Figli del Bronx") e penetra a fondo in una realtà scomoda, alternando interviste disperate a ricostruzioni artistiche come nel precedente "Chelsea on the Rocks" (2008), con risultati efficacissimi.




D'altro canto, solo Napoli poteva essere la location di questo excursus: quei vicoli labirintici e asfissianti che grondano violenza, disperazione e una devozione religiosa primordiale, quasi superstiziosa sono il perfetto corrispettivo italiano della sua New York. Ma laddove l'archetipo ferrariano era un personaggio dannato che cosciente del suo stato cercava, spesso, una forma di redenzione, una scappatoia da quell'inferno metropolitano, in "Napoli Napoli Napoli" è la disperazione a trionfare. Non può esserci salvezza per la città o per i suoi abitanti: il buco nero che l'ha inghiottita ha le sue radici in un passato remoto che sembra ripetersi in eterno. Prendendo in prestito le immagini di un vecchio documentario d'epoca, "Napoli Sessantasei", Ferrara crea un ponte lungo quarant'anni per dimostrare come quel boom economico che ha cambiato il volto dell'Italia, a Napoli ha in realtà fallito su tutta la linea.
Il disastro architettonico e umano delle Vele di Scampia arriva così puntuale, nelle immagini e nelle parole degli attivisti che cercano (ormai da anni) di far sparire quell'orrore infestato dalla microcriminalità per far risorgere un popolo che cerca disperatamente di ritrovare una forma di umanità.
Popolo che vive nel film con le numerose interviste. Le "teste parlanti" che compongono la parte più riuscita, si alternano tra ex magistrati, attivisti di centri sociali, giornalisti e (nella parte più toccante e scottante) le detenute di una casa circondariale femminile. Dinanzi alle loro parole, Ferrara decide di sparire, di limitarsi ad assistere alla descrizione di un mondo impossibile da filmare nella sua interezza e che per questo può solo essere inteso, al massimo spiato con veloci inquadrature rubate alla quotidianità.






Il coraggio di chi interviene sta in due affermazioni politiche che, è inutile negarlo, sono di un'importanza capitale. La prima è la presa di coscienza dell'esistenza di un popolo nel popolo: la "plebe", i "mao mao", quel populino che con il suo misto di arroganza, disperazione e atavica ignoranza va a gonfiare le fila della criminalità organizzata, contribuendo all'intensificarsi della decadenza umana e morale della città. Un dito puntato, per una volta, non solo contro le istituzioni perennemente assenti o l'operato di pochi, ma contro quello stesso popolo in grado di pensare solo a sé stesso e per questo causa suprema ed ineliminabile della propria rovina. La seconda è insita dell'affermazione della convenienza dello stato di emergenza che affligge Napoli, utile  ad ottenere quegli aiuti dallo Stato centrale di volta in volta bruciati dagli amministratori e dai mafiosi conniventi.
Non c'è manicheismo, né sensazionalismo: il ritratto truce è a tinte talmente forti da accecare, proprio perché ad opera di un autore alieno a quella realtà che ha saputo approcciarvisi senza pregiudizi.
La lucidità dello sguardo non cala neanche dinanzi alle tragedie di quelle detenute che, figlie di un mondo dedito alla criminalità pur di sopravvivere, si ritrovano anche giovanissime a passare la loro vite tra le sbarre. Vite segnate indelebilmente dalla droga, distrutte dalla mancanza dei più basici valori umanitari, marcate da perdite e violenza, che Ferrara riprende con distacco, facendone emergere tutta la forza. Nelle loro parole, la mancanza di discernimento, quella vis dei "mao mao" si carica di una drammaticità insostenibile, quasi disturbante per la loro totale mancanza di coscienza: persone che hanno conosciuto solo l'oscurità di una vita priva di valore e dalla quale non riescono ad emanciparsi forse perchè non vogliono.






Laddove il grande artista inciampa è nella concezione delle sezioni di fiction che si alternano alle interviste: tre storie di violenza e sopraffazione che non sempre riescono a cogliere nel segno.
Nella prima, che apre il film, assistiamo alla giornata tipo di un gruppo di detenuti; asserragliati come conigli in una stanza di pochi metri quadrati, cercano di creare una forma di normalità ripetendo i gesti e i riti della vita quotidiana, ma finiscono lo stesso in preda alla violenza, in una storia priva di mordente.
La seconda segue due affiliati della Camorra in una scampagnata per uccidere un loro compagno venduto. Tra visioni dalle metafore sfuggenti ed il contrasto con la bellezza della campagna, a restare impresso è solo il bel monito recitato da Ernesto Mahieux: spesso si confonde il bene con il piacere.
Più riuscita è invece la storia della giovane donna interpretata da Shannyn Leigh, la bellissima compagna del regista. Ragazza dalla bellezza quasi metafisica, costretta dagli eventi a vivere in strada, nonché vittima degli abusi di un genitore volgare e violento. Fatta salva la descrizione didascalica del padre, Ferrara riesce a creare una metafora riuscita sull'ignoranza che distrugge l'innocenza, che resta impressa grazie a quel finale disturbante.
Tanto che, per coraggio e perizia, "Napoli Napoli Napoli" potrebbe essere un esempio da seguire per molti filmmaker italiani interessati alla sanguinante "questione del sud": girato con pochi mezzi, ma tanto spirito, è forte della grandezza di un autore in grado di pensare fuori dagli schemi e di dimostrare un coraggio indomito e una volontà priva di compromessi.

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