giovedì 21 settembre 2017

Crepa padrone, tutto va bene

Tout va bien

di Jean-Luc Godard &Jean-Pierre Gorin.

con: Jane Fonda, Yves Montad, Vittorio Caprioli, Elizabeth Chauvin, Castel Casti, Eric Chartier, Anne Wiazemsky.

Francia, Italia 1972

















Per Jean-Luc Godard, il 1968 è stato un fallimento. Una rivoluzione, o per meglio dire una falsa rivoluzione, che ha portato a poco o a nulla, che non è riuscita a scardinare quell' "Ancien Regime" padronale e borghese, ossia non ha portato all'affermazione di un ideale effettivamente veritiero in grado di sostituire i vecchi valori borghesi. Il perché di questo fallimento lo aveva illustrato, con sagacia, acutezza e fervore nei capolavori "La Cinese" e "One plus One". E nel frattempo la Storia ha fatto il suo corso, in gran parte d'Europa i movimenti rivoluzionari sono stati riassorbiti nell'ottica della middle-class, le strade si sono svuotate dei manifestanti, talvolta per colorarsi del sangue dei proletari, come in quell'Italia che egli stesso aveva ritratto in "Lotte in Italia" del 1971.
Ma il fallimento della rivoluzione non è in realtà una sconfitta totale; con esso è giunta una nuova forma di coscienza, quella della classe operaia, che ora ha uno strumento per opporsi, anche solo in parte, ai soprusi del padrone. Godard decide così di analizzare tale rapporto di forza e creare un saggio sul lascito del '68, oltre che sullo stato dell'arte e delle cose. Nasce così "Crepa Padrone, tutto va bene", nuova disanima su quell'ideale e sull'impegno politico che è diretta continuazione (ma non effettivo superamento) di quanto aveva mostrato nei suoi film "sessantottini".




Godard recupera in parte una forma di schematismo. Per una volta è possibile dividere il film in "fasi": un prologo, un inizio con una love-story che si riconnette al finale ed un duplice corpo centrale, con l'occupazione della fabbrica e i "postumi" dell'accaduto.
Inizio e fine sono una disanima nerissima sullo strapotere del consumismo. Il consumo è l'unica forza portante nella società, sia esso incarnato dal capitalismo che impone un profitto su tutto, sia esso la mera mercificazione di ogni cosa.
Il cinema, prima di tutto, è una merce, un prodotto che abbisogna di un capitale, di una serie di finanziamenti per poter venire alla luce; e che è esso stesso prodotto da vendere, che quindi necessita di quegli aggettivi che possono far presa sul pubblico, che permettono, appunto, di venderlo. Da qui la necessità di una storia d'amore tra i due protagonisti, interpretati da due divi, conosciuti anche a livello internazionale. Godard è cosciente del limite intrinseco a tale concezione e la usa come metafora potente del potere capitalistico e della sua inscindibilità dal sistema produttivo.
Ma allo stesso modo, anche l'ideale è oggi merce, venduta nei supermercati ed in sconto. Cos'era il '68? A cosa a portato? A null'altro che ad un occasione per potersi appropriare di qualcosa, di possedere merce gratis tramite la violenza ed il tumulto, sia essa merce effettiva che merce intellettiva. Quegli ideali che lo animarono furono pretesti e vivono, nel '72 come allora, solo nella classe intellettuale, nella classe operaia e nei resti dei loro conglomerati associativi.




L'occupazione della fabbrica diviene a sua volta metafora di una lotta di classe che non va a parare da nessuna parte. Godard osserva lo scontro da lontano, aprendo il set e dandogli la forma di una casa delle bambole in cui far muovere i personaggi. Ognuno dei quali segue pedissequamente il proprio ruolo: il padrone è cinto nella sua ideologia borghese, totalmente ignorante delle necessità degli operai. Gli operai si divertono con delle "marachelle" contro il capo. Il sindacato spulcia cifre fredde e non si assume le responsabilità delle azioni dei suoi membri. Gli "estremisti" tentano invano di convincere i giornalisti della gravità della situazione.
Nessuno riesce ad ottenere nulla. Alla fine l'occupazione si estingue da sola e tutti tornano al proprio mondo.




Da qui la riflessione più importante. Quanto rimane di tale esperienza e perché non è riuscita nei suoi intenti?
Da una parte Godard punta il dito alla classe intellettuale, la quale spesso si è riciclata come perfetto membro di quel sistema produttivo che tanto aborriva, con il regista interpretato da Yves Montad che ha abbandonato il PC ed il cinema per dedicarsi alla direzione di soli spot pubblicitari. Dall'altro, se la prende con il sistema dei mass media, i quali tendono sempre ad edulcorare gli avvenimenti ed i contenuti. La giornalista di Jane Fonda fugge schifata a causa delle imposizioni della direzione.
Il linguaggio che viene imposto deve tendere al generico; si può parlare di padroni, operai e lotte, ma queste non devono avere un volto. Le condizioni disumane della fabbrica devono essere mostrate, ma devono sempre portare al compatimento, mai alla rabbia, né alla riflessione si di un loro possibile aggiustamento. Il linguaggio codificato dai media diviene strumento definitivo per ammansire le folle. Le stesse alle quali il pensiero marxista viene venduto un tanto al chilo.




Da qui la ripresa di quell'immaginario sessantottino, a cui Godard dà il volto di un ragazzo, morto nel Maggio '68, vittima delle lotte, ma al contempo metafora della morte di quella lotta, avvenuta nel momento stesso in cui è scoppiata, come un'esplosione abortita sul punto di deflagrare. La lotta di classe si fa così lutto di classe.
Necessaria libertà nel linguaggio che Godard codifica riprendendo l'ossessione (già esplicitata in "Due o Tre Cose che so di Lei") sull'impossibilità di dare una forma definita all'azione, nel poter ricostruire in modo perfetto una scena senza perdersi nella contemplazione di ogni sua possibile variante. Che qui diviene sfasatura tra inquadrature, sovrapposizione delle possibilità, con i personaggi che ripetono gli stessi gesti alternandosi o le stesse azioni mai in modo diverso. La complessità del concetto, del pensiero libero, benchè stentata ed impossibile da riproporre completamente in forme codificate, trova una sua rappresentazione calzante.




E la riflessione di Godard è al solito potente e dirompente. Ma, qui più che altrove, ancora profondamente attuale; come in "La Cinese" e "One plus One" la sua è una riflessione sempre verde; che anzi, al giorno d'oggi, a quasi 50 anni dal fallimento (totale o parziale a seconda di come lo si voglia intendere) del '68, brucia più che mai.

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