di Christopher Nolan.
con: Fionn Whitehead, Tom Hardy, Harry Styles, Cillian Murphy, Mark Rylance, Kenneth Branagh, James D'Arcy, Jack Lowden, Aneurin Barnard.
Storico/Guerra
Inghilterra, Usa, Francia, Paesi Bassi 2017
C'è qualcosa nello stile e nell'approccio al mezzo filmico di Christopher Nolan che riesce ad infastidire nel profondo, talvolta anche solo sul piano inconscio, sia lo spettatore medio che il critico snob. E' la sua capacità di fondere in maniera efficacissima il genuino spettacolo con storie complesse e stratificate, talvolta incredibilmente profonde e sfaccettate.
Basti vedere cosa sia riuscito a fare nella celebre "Trilogia del Cavaliere Oscuro", dove ha ripreso i topoi di un cinema spettacolare che sembrava ormai bollito, incapace di congiungersi con narrazioni adulte, solo per portare in scena una delle incarnazioni più riuscite non solo del personaggio di Batman, ma anche dell'intero filone dei "fumetti al cinema"; il tutto all'interno di una confezione che definire spettacolare sarebbe riduttivo, sopratutto se si tiene conto di come faccia affidamento su strumenti di messa in scena profondamente filmici: al bando la CGI, al rogo quel cinema di pura post-produzione che Hollywood ed i suoi padrini più illustri tanto amano (Spielberg, Lucas e Cameron su tutti), per esaltare quella forza del puro movimento impresso su pellicola che mai può e potrà essere eguagliato.
Come questo ideale estetico finisce per urtare i nervi di tanto pubblico e tanta critica? Semplice: Nolan è praticamente l'ultimo della sua razza, l'unico filmmaker ad oggi che, pur lavorando con budget stratosferici e con il pieno appoggio degli studios, riesce a portare avanti una sua idea di cinema ed una sua idea di spettacolo; è vero, ci sono altri grandi autori americani che al suo pari riescono a non scendere a compromessi (su tutti Quentin Tarantino), ma lui è l'unico che riesce a far propri anche personaggi e storie che gli vengono affidati per pure ragioni commerciali (Batman, appunto) e a produrre pellicole strettamente personali con una cadenza regolare ("Interstellar" è uscito appena 3 anni fa).
Nolan, in sostanza, riesce ogni volta a dimostrare come l'epiteto "blockbuster" non debba necessariamente significare "film stupido, fatto da gente stupida per un pubblico ancora più stupido"; come una grossa pellicola possa benissimo dar forma a storie complete, a personaggi sfaccettati, persino a racconti intimistici (ancora "Interstellar"), senza scadere nello scontato, nel tedioso o nel pretenzioso, riuscendo ad essere sempre rispettoso dell'intelligenza di chi lo osserva. Ed in un mondo dove pellicole come "Iron Man" e "The Avengers" sono acclamate come perfetti blockbuster, dove un hipster furbastro che si diverte a propinare al pubblico minestrine riscaldate come J.J. Abrams viene considerato un genio e dove persino i primi autori di quel cinema di intrattenimento intelligente (sempre Spielberg, Lucas e Cameron) sono divenuti la parodia di sé stessi, il cinema di Nolan finisce per metterci di fronte alla sconcertante realtà: il cinema di intrattenimento americano è, bene o male, idiota, ma non deve per forza esserlo; acclamare pellicole vuote, concepite dagli studios per fare soldi senza il minimo interesse per alcun tipo di narrazione, come capolavori, è sinonimo di stupidità, quando non di pura ipocrisia.
Si spiega così facilmente la ferocia dei suoi detrattori, che con "Dunkirk" sono riusciti nell'ardua impresa di raggiungere un nuovo livello di squallore; negli Usa c'è chi ha stroncato il film solo perché non porta in scena personaggi femminili in un contesto bellico (?) o perché non dà spazio adeguato alle minoranze etniche (???), ossia vere e proprie scuse pur di distruggere un'opera a prescindere dal suo valore; in Italia, come sempre, la critica radical chic non è andata per il sottile, con, tra le altre, una videorecensione ad opera di un noto sito di informazione cinematografica talmente becera che può solo suscitare risate di compassione.
E a questo punto è inutile girarci intorno: "Dunkirk" è un capolavoro, un vero e proprio pezzo di cinema duro e puro in uno spettacolo modernissimo e raffinato.
Nolan, come sempre e più di prima, lavora sulla scissione del concetto di tempo e spazio. La prevedibile unità geografica, data dall'unica ambientazione, viene sgretolata: la storia dell'evacuazione dei quattrocentomila soldati viene ripresa da tre purni di vista differenti; dapprima quello di un fante (Fionn Whitehead) perso dietro le linee nemiche e poi arenato sulla spiaggia; quello di un aviatore (Tom Hardy), impegnato in una missione di ricognizione e copertura nei cieli sopra la Manica; infine quello di un civile, un borghese (Mark Rylance) che decide di usare la sua barca per partecipare in prima persona alle operazioni di salvataggio. Tre sguardi, tre storie che si intrecciano in tre elementi (terra, aria ed acqua) ed a cui corrispondono tre linee temporali distinte: una settimana, un ora ed un giorno. La suprema manipolazione del piano narrativo giunge a compimento: una narrazione apparentemente lineare si sfalda per poi ricomporsi in un unico racconto nel corso della durata.
Un racconto dove non esiste in realtà una narrazione vera e propria, né personaggi effettivi. I tre punti di vista vengono presto spersonalizzati (in una certa misura, persino quello di Mr. Dawson, unico personaggio ad avere un background e delle motivazioni caratteriali per agire) per divenire universali. I soldati di terra divegno un unico personaggio, privi di una caratteristica distintiva, così come l'aviatore di Tom Hardy indossa per tutto il film una maschera a celarne il volto.
Quello che conta non è la storia personale, quanto l'azione; la guerra diviene la vera protagonista, il tempo presente, il movimento, la paura e la paranoia divengono la vera materia del racconto. Come già Spielberg, anche Nolan dimostra di aver compreso (a suo modo) la lezione di "Và e Vedi" di Klimov e riesce perfettamente ad anteporre la sensazione alla descrizione. "Dunkirk" è un'esperienza sensoriale prima ancora di essere narrazione: è un film dove la visione e l'ascolto sono essi stessi pura narrazione, dove l'immersione nei fatti viene dato da ciò che si osserva, da ciò che si dipana sullo schermo. Il dialogo, che ha pur sempre giocato un ruolo essenziale nel cinema dell'autore inglese, è qui praticamente assente, relegato ad un monologo nel finale e a sparuti "messaggi" tra personaggi. Lo stile è più diretto, più secco, in poche parole più squisitamente cinematografico: la narrazione passa per le bellissime immagini (con inquadrature più geometriche e pittoriche rispetto al passatto) ed allo straordinario sound design, con una libreria di suoni dalla potenza inusistata che ben si sposano con lo score d'atmosfera di Hans Zimmer.
Contrariamente a quanto è stato pur sostenuto, "Dunkirk" non è un'apoteosi patriottica stile "Salvate il Soldato Ryan"; Nolan celebra, si, la forza dell'esercito inglese, ma il suo sguardo è più sfaccettato di quanto si possa (anche ad una prima occhiata) credere. Tutti i personaggi descritti non sono eroi senza macchia e senza paura (persino il personaggio di Tom Hardy, in teoria il più eroico); sono semplicemente un gruppo di persone che tenta disperatamente di sopravvivere agli eventi; sono personaggi umani, che sudano, sbagliano, gridano, che, letteralmente, se la fanno addosso dalla paura e che, quando costretti, non si fanno remore ad abbadnonarsi alla vigliaccheria pur di andare avanti.
L'orrore della guerra non viene mai celato; la violenza degli scontri, benché purgata da quei risvolti esageratamente splatter che da un paio di decenni a questa parte sono immancabili in pellicole belliche, è sempre palpabile; ma ancora prima, lo sono le sesnazioni di spaesamento e paranoia che affliggono ogni singolo personaggio. Dal racconto della disperazione degli Highlander in fuga sulla spiaggia al crollo nervoso del personaggio di Cillian Murphy, la descrizione data in "Dunkirk" è lontana anni luce dalla propaganda patriottistica. Non per nulla, Nolan chiude il film con due immagini esemplari: uno spitfire dato alle fiamme, ossia lo strumento usato per salvare ridotto a brandelli; e lo sguardo perso ed impaurito del soldato di Whitehead dopo aver letto il resoconto del discorso di Wiston Churchill che prelude alla fase più acuta del conflitto.
Quella di Nolan non è un'apoteosi spielberghiana degli "eroi" che hanno preso parte al conflitto, quanto una cronaca (anche per il tono usato) di chi in quella guerra è solo riuscito a sopravvivere, a tornare a casa tutto d'un pezzo; persino l'eroismo degli ufficiali, se contestualizzato in ciò che viene mostrato, si dimostra come semplice scrupolosa ossevazione del dovere, piuttosto che indomito spirito di cameratismo. L'unico vero eroe, alla fine della corsa, è anche il personaggio più umano: il ragazzo che aiuta i Dawson nell'escursione in barca e che finisce i suoi giorni in modo quasi idiota, ucciso per puro caso, senza salvare davvero nessuno; il cui eroismo è dato dall'aver semplicemente partecipato a quell'impresa, della quale nulla sapeva o voleva sapere; un "eroe per caso", un ragazzo comune, non un soldato, non un ufficiale, non un aviatore che abbatte bombardieri per coprire la ritirata ai commilitoni, ma un semplice aiutante che gioca un ruolo minimo negli eventi senza voler portare a casa chissà quale risultato e che, suo malgrado, riesce ad essere d'aiuto; non proprio un'idealizzazione.
Ogni azione prettamente "eroica", nel corso della narrazione, viene controbilanciata da una reazione che rende la situazione ancora più cupa; basti pensare a tutta la parte dedicata al pilota di Tom Hardy, dove ogni salvataggio, anche quello più estremo, prelude solo a nuovi "guai" da risolvere. Non per nulla, il nemico in "Dunkirk" non ha volto: le forze dell'Asse non appaiono praticamente mai (se si esclude unicamente il finale della storia di Hardy, appunto, dove compaiono come delle ombre fuori fuoco). Il vero nemico, qui, è il fronte degli eventi, è la guerra stessa ad essere l'antagonista; il racconto, così, per quanto volutamente freddo, si fa incredibilmente umano, incommensurabilmente coinvolgente.
Data la commistione tra reverenza verso i soldati e repulsa verso la violenza della guerra, è stato pur facile bollare "Dunkirk" come una sorta di "spielbergata mal riuscita"; facile, ma sbagliato: a conti fatti non c'è pellicola più lontana da una visione spielberghiana della guerra (se si esclude il solo dittico su Iwo Jima di Clint Eastwood). E "Dunkirk" resta una pellicola imponente e feroce, un'esperienza filmica di rara potenza, dove Nolan dimostra per l'ennesima volta il suo talento e per la prima, forse, il suo ecclettismo.
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