mercoledì 13 settembre 2017

Effetto Notte

La Nuit Américaine

con: François Truffaut, Jacqueline Bisset, Jean-Pierre Léud, Valentina Cortese, Nathalie Baye, Dani, Alexandra Stewart, Jean-Pierre Aumont, Jean Champion, Nike Arrighi.

Francia, Italia 1973

















La sprezzante, appassionata e quasi ossessiva indole cinefila dei "Giovani Turchi" è stata il motore primario di quella rivoluzione artistica di cui si sono resi protagonisti, che poi prese il nome di "Nouvelle Vague". L'amore per il linguaggio filmico, per il cinema tout court e per il mezzo in sé, ha permesso loro di riprendere stile e stilemi di alcune fonti illustri (Hitchcock, Rossellini, Howard Hawks, il noir e la commedia brillante, tra gli altri) per riqualificare il modo di intenderlo. E se Godard resta il cineasta più radicale (anche al di fuori dell'esperienza della Nouvelle Vague), a Truffaut va riconosciuto un merito non da poco: essere riuscito a creare una sincera, accorata e gustosissima dichiarazione d'affetto verso il momento creativo filmico, verso quell'esperienza personale e al contempo collettiva che è la fase delle riprese, con uno dei suoi capolavori, forse il più amato tra tutti, ossia "Effetto Notte".




La formula del "film dietro le quinte", della storia che pone al centro registi ed attori impegnati nella produzione di un film, non era nuova quando "Effetto Notte" vedeva il buio della sala; e, manco a farlo apposta, trova una fonte principale proprio in quel cinema italiano del Secondo Dopoguerra al quale gli artisti francesi tanto devono; basti pensare, anzitutto, al capolavoro di Fellini "8 e 1/2", dove il grande artista portava in scena con piglio visionario la crisi creativa di un cineasta alle prese con un improbabile film di fantascienza; o, ancora, ad un altro capolavoro, "La Ricotta", contenuto nell'episodico "Ro.Go.Pa.G.", dove Pasolini si immergeva sul set di un suo ipotetico film, usando come suo doppio niente meno che il mitico Orson Welles.
Ma sia Fellini che Pasolini utilizzavano l'escamotage del set per imbastire una storia simbolica, del tutto personale e, nel primo caso, votata al surreale. Quello di Truffaut è invece uno sguardo più diretto e "quadrato", una disanima di quella Babele caotica, eppure irrestibile, di quel non-luogo dove la creatività si scontra con la necessità, di quella magnifica ossessione che è la produzione filmica, rifacendosi più direttamente (e con le dovute differenze) al capolavoro di Wilder "Viale del Tramonto", a quanto fatto dal collega Godard con "Il Disprezzo" e da Fassbinder con "Attenzione alla Puttana Santa"; dedicando poi il tutto alle sorelle Gish, le muse di David W.Griffith, ossia coloro che furono di diretta ispirazione per la Settima Arte tutta.




Uno spazio, quello del set, dove alla fine c'è un'unica certezza, quella della visone del regista, che Truffaut interpreta con un piglio ironico, rifacendo praticamente sé stesso, ma aggiungendo al personaggio di Ferrand un auricolare per donargli una caratterizzazione effettiva e per sottolineareil fatto di come sia l'unico in grado di rispondere ai centinaia di quesiti che sorgono durante la lavorazione, al punto che il solo modo per ignorarli ed andare aaventi è essere sordo.
Ma Ferrand è a tutti gli effetti Truffaut: regista ossessionato dal cinema, che da piccolo si divertiva a rubare le affihcè di "Quarto Potere", che scrive i dialoghi volta per volta, ispirandosi alla situazione emotiva dei suoi attori, che legge voracemente testi sul cinema (gli amatissimi Hitchcock e Hawks, ma anche il collega Godard) e che teme per la riuscita del suo film; la sua voce-pensiero afferma, nelle prime battute, come fare un film sia come fare un viaggio in diligenza nel Far West: all'inizio si vuole fare un buon viaggio, ma dopo un pò si prega solo di sopravvivere; un mestiere che è una lotta contro gli eventi, a causa della interdipendenza tra l'autore e la sua troupe; e di fatto, attorno a Ferrand orbita un caleidoscopio di personaggi, tutti più o meno impegnati per la riuscita di "Vi presento Pamela".




I primi poli d'attenzione sono i quattro divi, gli attori protagonisti del film nel film; la prima, la diva Severine (Valentina Cortese), donna matura la cui vita è stata distrutta dalla malattia del figlio e dal consecutivo alcolismo, che fatica a ricordare le battute ed arriva persino a suggerire al regista francese di usare il doppiaggio, cosa inaudita per l'epoca. Poi il divo, vero protagonista del film, Alexandre (Jean-Pierre Aumont), vero e proprio gentiluomo d'altri tempi, dal passato di ardito seduttore, che si scoprirà invece omosessuale; sono loro gli esponenti di un cinema antico, ma non antiquato, che Truffaut, contrariamente a quanto si possa immaginare, tratta con rispetto, arrivando persino a fare un affondo all'ex amico Godard quando descrive con orrore il futuro di un cinema senza attori professionisti e senza copioni, girato per le strade anzicchè sui set, in controtendenza persino con le sue prime opere.
Poi vi sono i giovani, emotivamente fragili, bambini in cerca di una figura affettiva di riferimento. Il primo è lui, Alphonse, personagggio tipicamente truffautiano e maschera prediletta di Jean-Pierre Léud che lo interpreta; un vero e proprio infante che cerca disperatamente l'approvazione di una figura femminile sfuggente (prima la stagista Lilliane, poi la diva Julie) solo per bilanciare il suo carattere insicuro, capriccioso, forse vacuo. Poi lei, la bellissima Julie Baker (Jacquline Bisset), anch'ella in preda ad una crisi affettiva ed esistenziale, che come il suo personaggio si ritrova attratta da una figura paterna, ma al contempo anche dall'infantile Alphonse, finendo per vivere quella stessa storia di cui è protagonista su pellicola, solo a termini invertiti.




Intorno a loro, la troupe, perennemente indaffarata, alle prese sia con le faccende più semplici, come far ribaltare un'auto in corsa, che quelle più difficili, come dirigere un gattino; ogni personaggio è caratterizzato in modo sicuro, con pochi e distinti tratti caratteriali: la segretaria di edizione Joelle, vero pilastro che spesso si sostituisce al regista, l'aiuto regia Jean-Françoise, che ha sempre una soluzione per tutto, il produttore Bertrand, entusiasta e collaborativo e così via.
Truffaut celebra la forza d'unione, quella sinergia che è componente essenziale nella produzione filmica; il ruolo centrale lo ha, ovviamente, l'autore, con la sua visione, la sua incrollabile (o quasi) forza d'animo e la sua versatilità; ma al contempo, la necessaria collaborazione dell'intero cast tecnico trova la giusta celebrazione.




Ed il cinema, si sa, è pura finzione; da qui l'ambientazione totalmente fittizia: gli studi della Victorine fuori Nizza e l'albergo dove la troupe alloggia, ossia due non-luoghi dove i professionisti si trattengono per il solo tempo necessario al lavoro. Ed ancora di più, come un De Palma ante literam, Truffaut apre il film con un piano sequenza elaboratissimo, che porta sullo schermo decine di comparse e con metodo hitchcockiano segue solo in parte i personaggi, lasciando libera la macchina da presa di poggiare lo sguardo anche sui singoli passanti; solo per poi rivelare l'artificiosità di quella stessa inquadratura, disvelando l'incredibile lavoro necessario per la sua riuscita, sottolineando non solo la complessità del lavoro del regista e dei suoi aiuti, ma anche l'estrema falsità di quella stessa visione, dove ogni singola comparsa viene diretta, dove ogni singolo movimento deve rispettare una serrata tabella di marcia; dove ogni azione è pura coreografia, ma sembra del tutto naturale: è questa la magia del cinema, che vive ora su schermo in tutta la sua forza proprio perché la finzione che ne sta alla base viene sviscerata esplicitamente.




Le gioie e le fatiche della produzione vengono ritratte al solito con un tono lieve, mai davvero malinconico, dove persino la morte di uno dei protagonisti ed il rischio di fallimento del film non divengono mai davvero cause ostative alla riuscita del lavoro. Per Truffaut dirigere un film era davvero il lavoro più bello del mondo ed il suo entusiasmo e la sua passione fuoriescono da ogni singolo fotogramma.
Passione che per una volta è davvero riuscita a far breccia anche presso il grande pubblico; grande successo di cassetta, "Effetto Notte" vinse persino l'Oscar come miglior film straniero.
Ma l'ottima accoglienza è stata controbilanciata da un'esperienza tragica; dopo aver visto il film, Godard accuserà Truffaut di aver generato una visione idealizzata e falsa del processo creativo, sottolineando come il film sia stato un successo solo a causa della sua insussistenza. Posizione che porterà alla rottura definitiva tra i due, che resteranno nemici sino alla morte di Truffaut, dopo la quale Godard si dirà pentito delle sue affermazioni.
Verosomiglianza a parte, "Effetto Notte" resta lo stesso una pellicola a dir poco deliziosa, dove l'amore verso il mezzo filmico diviene perfetta incarnazione degli ideali del suo autore, divertendo ed ammaliando per tutta la sua durata.

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