lunedì 13 novembre 2017

Gantz: O

di Yasushi Kawamura & Keichi Saito

Animazione/Fantastico/Azione/Horror/Splatter

Giappone 2016




















Cercare di dare un giudizio, classificare o anche semplicemente discutere riguardo un manga come "Gantz" è opera assai ardua, non tanto per i suoi contenuti, né per il tono spiazzante della narrazione, quanto per l'altalenante qualità che la storia ha presentato nel corso della sua lunga serializzazione, presentando idee geniali seguite da un'esecuzione talvolta maldestra, colpi di scena che piazzano pugni allo stomaco decisi al lettore seguiti da cadute di tono e stile abissali, sino a giungere ad un finale dove ad una battaglia feroce e spettacolare segue un happy end fin troppo buonista, facilone e fuori luogo rispetto al resto.
Iniziato nel 2000, terminato nel 2013, "Gantz" è l'opera definitiva di Hiroya Oku, mangaka che ha mosso i primi passi nel mondo del fumetto grazie ai doujinshi ed al fumetto erotico (il suo primo successo è stato "Hen", sorta di hentai d'autore, giunto anche in Italia), per poi sperimentare i primi passi nella fantascienza con l'incompleto "Zero One". In "Gantz", Oku fa confluire praticamente tutte le sue passioni ed ossessioni: l'erotismo spinto, spesso virato verso il limite del pornografico, l'azione frenetica, violenza splatter talvolta oltre i limiti del gore, una struttura da shonen costantemente sovvertita in favore di una narrazione non lineare e a dir poco spiazzante, nonché un gusto divertito per la citazione hollywoodiana.




Definire "Gantz" in modo completo e soddisfacente è più difficile di quanto si possa immaginare; la storia comincia come un horror sovrannaturale con spruzzate di sci-fi pura. Il protagonista, Kei Kurono, sedicenne nipponico di bell'aspetto ma ancora vergine nonostante la forte libido, ritrova per puro caso un suo amico di infanzia mentre percorre la metropolitana di Tokyo, Masaru Kato, giovane dal carattere già maturo, dovuto al fatto di dover crescere da solo il fratello minore Ayamu. Ma non c'è tempo per la nostalgia: mentre il treno sta per arrivare, un barbone finisce sui binari; nell'indifferenza generale dei presenti, Kato decide di aiutare il vecchio e Kurono, spinto da una ritrovata empatia, accorre in suo aiuto; ma invano: salvata la vita all'estraneo, i due vengono travolti dalla metro e letteralmente fatti a pezzi dallo schianto. Ma qualcosa di sorprendente li aspetta dall'altra parte: i due si risvegliano infatti in uno strano monolocale, situato nel centro di Tokyo, in compagnia di altre persone che affermano di essere morte, tra le quali anche la bellissima Kai Kishimoto, per la quale Kurono perde subito la testa; ancora più strano: al centro della camera, un'enorme sfera nera afferma come le loro vecchie vite siano finite; la sfera si apre, mostrando di contenere armi e tute hi-tec e, di punto in bianco, assegna un obiettivo da uccidere ai presenti, una strana forma di vita che pare essere aliena; neanche il tempo di riflettere su quanto è accaduto che l'intero gruppo viene teletrasportato in un'altra zona di Tokyo; con una bomba impiantata in testa per prevenirne la fuga, un countdown che designa il tempo limite per l'uccisione e nessun addestramento, Kurono, Kato e Kishimoto si ritrovano loro malgrado immischiati in un gioco al massacro, dove l'unica regola è uccidi o sarai ucciso.




E questa non è che la premessa: un mix tra suggestioni oltremondane, influenze videoludiche, erotismo e gore, dove l'unica certezza è la mancanza di certezze; tant'è che già a metà del secondo tankobon, ossia alla fine della prima missione, l'intero cast di personaggi introdotto poco prima viene annichilito: a salvarsi sono solo i tre protagonisti e l'infido Nishi, studente delle medie dall'indole sadica, veterano nonostante la giovane età. Certezze che vengono nuovamente azzerate quando, nell'ottavo volume, a tirare le cuoia, assieme alle nuove reclute, sono gli stessi Kato e Kishimoto, azzerando così le loro storyline e lasciando Kurono a trovare una forma forzata e non richiesta di maturazione.
Ma cos'è davvero o cosa vuole essere "Gantz"?
Almeno inizialmente, Oku utilizza trama, personaggi e situazioni per creare un seinnen che in realtà sia sopratutto la parodia della classica formula degli shonen, con un gruppo di giovani alle prese con situazioni limite, nemici sempre più forti da abbattere ed esperienze di vita quotidiana che li portano a confrontarsi con i propri limiti e le proprie ossessioni.
Ma Kurono, Kato e gli altri sono, in un certo senso, il perfetto controaltare dei vari Goku, Vegeta e company. Kurono, il protagonista pressocché assoluto di tutta la serie, non è coraggioso, né intelligente, tantomeno forte nel senso convenzionale del termine (almeno all'inizio della storia); è un liceale chiuso in sè stesso, nella sua ossessione per il sesso e le ragazze prosperose, che si butta a capofitto contro i nemici non per coraggio, ma solo per sublimare la propria libido e fare colpo sull'agognata Kishimoto.
Quest'ultima, la donna del gruppo, che solitamente è forte quanto i suoi comprimari maschili, è in realtà poco più di una damigella in pericolo, che anche quando acquisisce le capacità necessarie al combattimento, non riuscirà mai davvero a fare la differenza.
Kato, d'altro canto, è fisicamente modellato su quello che nelle serie per ragazzi è il classico "bel tenebroso", l'antieroe taciturno e risoluto, spesso individualista nel midollo e oltremodo fascinoso; ma in "Gantz" è lui, non Kurono, ad essere la coscienza del gruppo, ad essere il "buono" che si preoccupa della sorte dei compagni e delle missioni.





Missioni che, sempre per sovvertire le regole dello shonen, non hanno senso, né fine (almeno inizialmente), sono puri e semplici giochi al massacro, videogame reali dove i personaggi muoiono davvero, in modo sempre cruento. E dove lo spirito collaborativo, come nei MMORPG, è essenziale alla riuscita: benché Kurono sia spesso al centro dell'azione e riesca a totalizzare molti punti anche da solo, è solo grazie agli aiuto dei compagni se riesce sempre a sopravvivere. Tematica di fondo che vuole essere una critica a quell'individualismo distruttivo proprio della società nipponica (ed anche occidentale) che qui è viatico solo per la propria distruzione; e che garantisce una chiave di lettura interessante.
Senza contare come lo stile di Oku sia a dir poco perfetto per la storia che narra; i disegni sono volutamente freddi, con i personaggi disegnati a mano e ricchi di dettagli e gli sfondi spesso generati con la CGI o mediante l'utilizzo di fotografie di luoghi reali; l'atmosfera si fa così glaciale, genuinamente disturbante anche quando la violenza non viene mostrata; e quando questa entra in scena, lo fa in modo roboante, con corpi umani ridotti a miseri brandelli di carne in pochi istanti, personaggi introdotti e caratterizzati con cura fatti a pezzi in pochissime pagine nei modi più brutali immaginabili.
In generale, al di là dell'estetica e dallo splatter, è l'immaginario evocato da Oku ad essere profondamente disturbante; i mostri, sopratutto a serie inoltrata, cominciano ad avere connotazioni sessuali esplicite e votate al mostruoso, in un mix tra reminiscenze paragigeriane ed il mitico "Urotsukidoji", dove il corpo femminile, comunque idolatrato dall'autore, si fa ammasso di carne rivoltante e letale.
L'erotismo, d'altro canto, quando non usato a fini orrorifici, è invece votato al puro intrattenimento, al sollazzo dello spettatore maschile, tramite scene di sesso esplicito (purchè nei limiti della censura) ed ogni singolo capitolo introdotto da una pin-up girl; lo stile di Oku rende le immagini irresistibili, sensuali, con modelle dai corpi prosperosi e dai volti angelici, quasi infantili.




E nel suo mix di sovversione dei canoni ed exploitation pura, "Gantz" riesce ben ad imporsi come una lettura disimpegnata ed estremamente divertente. Almeno nei suoi primi numeri. Perchè, come da manuale, a causa del successo planetario, Oku ha deciso di allungare il brodo in modo inefficace, dilatando una storia che in realtà aveva poco da dire sin dall'inizio; quel che è peggio è che nel farlo dimostra di non avere il minimo controllo sulla narrazione: da antologia della cattiva scrittura è la famosa sottotrama sui vampiri, dove questi vengono introdotti come rivali dei "gantzers", solo per poi finire letteralmente nel nulla; o anche le varie suggestioni spirituali e sovrannaturali, puntualmente sprecate, dimostrazione di come neanche l'autore conoscesse le risposte ai misteri della mitologia della sua stessa opera.
Ma tant'è, nei suoi primi volumi e nel finale, catastrofico ai livelli di un film di Roland Emmerich sotto acido, "Gantz" riesce davvero a divertire e a tratti a far riflettere sulla fallacia di una condotta di vita prettamente individualista; lettura, quest'ultima, che l'intera opera trova nella bella trasposizione anime prodotta dalla Gonzo Digianimation nel 2004, che pur coprendo solo i primi 8 numeri (ossia fino al massacro del primo gruppo), crea un finale ad hoc in cui la metafora sociologica risulta ben amalgamata alla componente exploitation.




Trasposizione animata che ha incrementato esponenzialmente il successo del brand, al punto che già nel 2010 escono due primi film live-action dedicati alle imprese di Kurono e soci: "Gantz- L'Inizio" e "Gantz- Revolution" (giunti in Italia direttamente per il mercato Home-Video); due pellicole televisive, quindi prodotte con un budget scarno come i primi film di "Death Note", che si segnalano quasi esclusivamente per la presenza di Ken'Ichi Matsuyama nei panni Kato e della bellissima Natsuna in quelli di Kishimoto; l'erotismo viene eliminato e la violenza fortemente limitata, per motivi intuibili, mentre storia e personaggi sono appiattiti per motivi di durata; in generale, si tratta di due film mediocri: il primo è abbastanza noioso e a tratti ridicolo, il secondo ha perlomeno un finale interessante e belle sequenze d'azione, ma non è nulla di memorabile.
























Tanto che a cercare di rimediare a tale operazione, a dare dignità a "Gantz" anche su schermo arriva nel 2016 "Gantz: O", film d'animazione in CGI fotorealistica, distribuito nelle sale nipponiche nientemeno che dalla Toho ed in Occidente da Netflix; pellicola a suo modo ambiziosa: prodotta con un buon budget ed un lavoro di animazione certosino, vede l'esordio alla regia di Keichi Saito e Yasushi Kawamura e della loro Digital Frontier, casa di produzione specializzata in effetti in CGI per anime ed animazione di FMV, che ha lavorato, tra gli altri, a giochi del calibro di "The Legend of Zelda- Brath of the Wild", "Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots" e "Killer7", già responsabile per il lungometraggio in CGI "Resident Evil: Damnation" e qui per la prima volta alle prese con un progetto non direttamente legato all'ambito videoludico. Progetto che ha prsino trovato una vetrina d'eccezione: presentato fuori concorso alla 73ma edizione del Festival di Venezia, con un'accoglienza mista tra promozioni e stroncature
Perché il risultato ottenuto dal duo di artigiani della computer graphic è godibile come pura pellicola d'azione e fanservice, ma anche totalmente vuoto sul piano narrativo.




Perché se non si ha dimestichezza con l'universo creato da Oku su carta, non si capirà nulla della pur basica storia, che riadatta lo story-arc ambientato ad Osaka, uno degli ultimi prima dell'ultima fase del manga. Protagonista assoluto è Masaru Kato, arruolato (per la prima volta?) tra i Gantzers dopo la sua dipartita e che si trova suo malgrado a sostituire il leader Kei Kurono, deceduto nel prologo; eliminato Kei, il cuore della serie, "Gantz: O" utilizza Kato come alter ego dello spettatore, che si ritrova letteralmente catapultato in un mondo strambo e violento. Ma senza mai avere davvero risposte su chi siano gli altri concorrenti, cosa sia la sfera nera o i mostri chiamati a combattere, né una risoluzione effettiva alla vicenda. Davvero blando e monodimensionale è il ruolo giocato dai comprimari: Reika, Suzuki e Nishi hanno la consistenza di figurine di carta velina e sono ascrivibili totalmente agli stereotipi della bella di turno, del vecchietto simpatico e del giovinastro antipatico. Unico barlume di carattere viene dato, oltre al protagonista, allo pseudo interesse amoroso, la bella e gioviale Anzu; ma anche qui, i caratteri sono talmente basilare da rientrare in pieno negli stereotipi del buono senza macchia e senza paura e della damigella in pericolo che cerca di rendersi utile; colpa di uno script che preferisce lasciare fuori dalla porta ogni approfondimento, ogni tipo di narrazione per concentrarsi sulla pura azione.
Per fortuna, almeno sotto questo punto di vista, "Gantz: O" risulta godibile.



L'animazione, pur non arrivando ai livelli qualitativi di "Capitan Harlock" o di "Appleseed Alpha", è di grande impatto; i modelli in CGI sono pressocchè perfetti, salvo qualche difetto che comunque non fa cadere la loro percezione nella famosa "uncanny valley" per renderli disturbanti alla vista, vero e proprio miracolo che talvolta non riesce neanche nei kolossal di Hollywood (basti vedere alle resurrezioni digitali di "Rogue One").
Il polso dei due registi è fermo: l'azione è frenetica e spettacolare, oltre che ben dosata; le coreografie sono perfette e l'animazione sempre fluida; semplicemente geniale, poi, la trovata di aggiungere un filtro grana che rende la fotografia simile a quella di un film su pellicola vero e proprio, piuttosto che a quello di un lungometraggio in CGI.


Anche la violenza è ben dosata: lo splatter, sempre presente, non viene mai esagerato, mai portato nei limiti del gore, restando disturbante senza mai divenire di cattivo gusto; quasi del tutto assente è invece la componente erotica, limitata alla sola comparsa del mostro fatto con pezzi di nudità femminili; mancata inclusione dovuta più che altro alla mancanza già nel soggetto originale, piuttosto che ad una scelta programmatica.



Tra corpi fatti a pezzi, mostri giganti che combattono contro robottoni stile "Pacific Rim", sparatorie frenetiche e duelli al cardiopalma, "Gantz: O" intrattiene al minimo sindacale di empatia verso gli scarni personaggi. Un puro pop-corn movie per giovani adulti, da guardare a cervello staccato in una serata di puro disimpegno, che pur non cogliendo molto dello spirito del manga, riesce ad essere anche un suo buon adattamento.

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