giovedì 16 novembre 2017

The Terminal

di Steven Spielberg.

con: Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci, Diego Luna, Kumar Pallana, Barry Shabaka Henley, Zoe Saldana, Chi McBride, Eddie Jones.

Commedia

Usa 2004

















Gli effetti della paranoia post 11 Settembre, inutile sottolinearlo, hanno finito per influenzare in modo marcato tutta (o quasi) la produzione filmica statunitense della prima degli anni 2000. Steven Spielberg, pur famoso per il suo cinema "per ragazzi", ha provato anch'egli a confrontarsi con il lascito di quell'orrore, in due dei suoi film meno riusciti: "La Guerra dei Mondi" e questo "The Terminal".
Commedia brillante, che vorrebbe essere satira umanitaria, "The Terminal" si basa su di un soggetto originale del mai troppo lodato Andrew Niccol, che a sua volta ha tratto ispirazione da una storia vera, capitata ad un viaggiatore all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi; ma in sede di script prima, sul set dopo, Spielberg stravolge totalmente quella che era la visione originaria, avvicina storia e personaggi al suo stile, ponendo al centro di tutto, come sempre, i valori familiari e caratterizzando Victor Navorski come il più classico "magnifico idiota" del cinema americano.




L'areoporto, il JFK di New York, non-luogo ideale, ove si è sempre e solo di passaggio; incontri casuali, facce che si perdono nella folla, nomi appena uditi, corpi in perenne movimento. Eccetto che qui: Victor diviene suo malgrado apolide, causa una sanguinosa rivoluzione nella sua terra natia, l'immaginaria Krakozhia; e la sua nuova patria diviene il duty free del JFK, per motivi prettamente burocratici.
Sopratutto nel primo atto, la regia è asciutta, quasi asettica; la macchina da presa vola costantemente nello spazio chiuso del terminal del titolo, resta sempre a distanza dai soggetti; laddove i movimenti di macchina sono fluidi, il montaggio è minimale, la fotografia fredda, come a distanziarsi dalla materia narrata. Il senso di isolamento di Victor, solo in mezzo ad una folla perenne, viene enfatizzato magnificamente dall'uso di una carrellata aerea che lo inquadra come perduto in mezzo alla calca.




L'inferno burocratico, la costante richiesta di moduli, certificati, permessi e firme dovrebbe essere incarnazione di kafkiana di quella paranoia strisciante, quella paura di un estraneo, qui letteralmente senza origini e per la gran parte del tempo senza storia, che potrebbe insinuarsi in seno alla Grande Mela, perdersi nella folla per compiere chissà quale gesto. Meglio, dunque, isolarlo o cercare di sbarazzarsene, spiarlo costantemente con un sistema di telecamere guidate in remoto da far invidia al Dottor Mabuse. Solo per poi scoprirne l'innata umanità, l'umanità di un personaggio buffo all'apparenza, ma dal cuore d'oro, che Hanks caratterizza sfruttando sopratutto il suo fisico, piuttosto che le sole gag verbali date dall'impossibilità di comunicazione.
Se in teoria la stramba storia di Victor ha del potenziale, sia comico che satirico, a dir poco enorme, Spielberg non sa letteralmente cosa farsene del tutto e gioca sul sicuro, mettendo quasi subito in secondo piano ogni possibile lettura metaforica per concentrarsi unicamente sui personaggi ed i loro legami, appiattendo tutto in modo esasperante.




Il trattamento riservato ai personaggi schiaccia ogni possibile forma di credibilità; Victor è e resta sino alla fine il buono ed ingenuo, dotato di ogni possibile risorsa, in grado di adattarsi a tutto; non si teme mai davvero per la sua sorte, né si gioisce delle sue vittorie: il suo spirito umanitario e le sue capacità pratiche sono talmente grandi da divenire iperboliche, come se il personaggio fosse la parodia di un santo tuttofare sceso in terra.
Sorte ancora peggiore tocca al personaggio di Frank Dixon, per il quale la performance al solito ottima di Stanley Tucci risulta sprecata: un burocrate maniaco del controllo che decide di perseguitare Victor per il solo gusto di farlo. Il loro conflitto, già debole in partenza, viene forzato più e più volte per cercare di dare una forma di empatia verso le disavventure del buffo omino del duty free; ma invano, poiché davvero non si capisce come mai Victor non esca dall'aeroporto quando, già all'inizio della vicenda, gli viene data questa opportunità; tantomeno è comprensibile l'astio di Dixon nei suoi confronti, troppo marcato persino per un dirigente ossessionato dalla sicurezza e dalla sua immacolata carriera; tanto che alla fine, i personaggi divengono semplici cartonati, anzi vere e proprie macchiette da cartone animato, impossibili da prendere sul serio.




Piuttosto che la paranoia strisciante nella società americano o lo scontro tra personalità opposte, tema centrale della storia, come da tradizione nel cinema di Spielberg, è il legame familiare, sia quello che lega Victor al suo passato, sia quello che forma con le persone incontrate nel suo soggiorno forzato.
I personaggi che lavorano nel non-luogo del JFK sono i classici stereotipi etnici: l'impertinente inserviente indiano, che poi si redimerà aiutando quel protagonista che all'inizio tanto disprezzava e che nel frattempo si diletta ad intrattenere  con giochi di prestigio, ancora come in un cartone animato piuttosto che come in una commedia che vorrebbe essere brillante ed umana; l'ispanico appassionato, follemente innamorato dell'ufficiale di sicurezza trekkie (interpretata da una giovane Zoe Saldana, che guardacaso tempo cinque anni e finirà proprio a bordo dell'Enterprise); senza contare gli amorevoli uomini di colore, che questa volta sono ben tre.




Ed ovviamente, l'immancabile love-story, che vorrebbe ricalcare quella ben più celebre e riuscita di "Breve Incontro" del tanto amato David Lean, senza ovviamente riuscirci. Anche qui Spielberg calca la mano sulle forzature, rendendo il personaggio della Zeta-Jones troppo piatto, una semplice donna bisognosa d'affetto che però non riesce ad amare sè stessa, finendo sempre con il ripetere gli stessi errori senza mai imparare nulla, anche quando non ha nessun valido motivo per continuare a farli. Quel che è peggio, ad una caratterizzazione sbagliata si aggiunge un tono smielato e zuccheroso persino quando vorrebbe e dovrebbe essere agrodolce.




E' impossibile, alla fine, appassionarsi davvero alle disavventure di Victor Zavorski e compagnia bella: tutti i personaggi sono caricature di sè stessi e cozzano con i toni usati, sia quando virati alla commedia, sopratutto quando si cerca di creare un'atmosfera più seria e matura, finendo automaticamente per scadere nel pretenzioso o, peggio, nel ridicolo.
Tanto che per gli oltre 120 minuti, la noia non manca davvero: tutto è troppo tirato e compiaciuto, un lavoro blando che crede di essere davvero brillante ed efficace, risultando, oltre che vuoto e malriuscito, oltremodo pesante.

1 commento: