di John McTiernan.
con: Bruce Willis, Alan Rickman, Reginald VelJohnson, Bonnie Bedelia, Alexander Godunov, Paul Gleason, De'veroux White, William Atherton, Hart Bochner, James Shigeta, Clearence Gyliard Jr., Robert Davi, Al Leong.
Azione
Usa 1988
Si potrebbe guardare a "Die Hard" come ad un classico di Natale anomalo... e di fatto lo è, visto il tasso di violenza grafica, che pur temperato dall'umorismo risalta lo stesso, le parolacce e il suo aspetto di film d'azione tipicamente anni '80 che cozza clamorosamente con il buonismo solitamente associato ai film per le feste. La cosa strana è che non è neanche il classico più anomalo, primato che spetta a "Una Poltrona per Due", almeno in Italia.
Come sia riuscito ad assurgere a tale statua è invece la cosa più facile da capire: si tratta di uno dei migliori action americani mai fatti e ancora oggi risulta adrenalinico e coinvolgente.
La storia della produzione di "Die Hard" è stranamente lunga e complessa. Tutto inizia con un romanzo di Roderick Thorp, il quale però non è quello alla base del film, ossia "The Detective", dal quale viene tratto un altro film, omonimo, nel 1966. Adattamento che vede come protagonista niente meno che Frank Sinatra nel panni del detective del titolo, Joe Leland, che riscuote un ottimo successo e che permette a "the voice" di confermare il suo talento di attore. Al punto che è proprio lui a commissionare a Thorp la scrittura di un seguito da porre alla base di nuovo film. Cosa più facile a dirsi che a farsi, visto che di anni ne passano dieci finché il seguito è pronto: "Nothing last forever" esce nel 1979 e a quel punto Sinatra è troppo vecchio per il ruolo del protagonista, il quale ora si trova chiuso in un grattacielo mentre combatte, in svantaggio numerico, un gruppo di terroristi che ne ha preso in ostaggio la figlia; la quale, tra l'altro, in un finale cupissimo, muore cadendo dal palazzo.
I diritti del film restano però in circolazione ad Hollywood e arrivano alla Fox nella seconda metà degli anni '80. Ed è solo grazie all'interesse dell'executive Beau Marks che la produzione ha inizio e soprattutto successo, visto che per il film riunisce un'ensamble di professionisti semplicemente spettacolare.
In primo luogo affida il progetto al granitico produttore Joel Silver, il quale ha appena incassato una serie di successi action con "48 Ore", "Commando", "Arma Letale" e "Predator"; e proprio da questi suoi ultimi lavori, Silver chiama John McTiernan come regista e Steven E. De Souza a rimettere mani allo script, i quali hanno le idee chiare: non vogliono fare l'ennesimo film d'azione con al centro un superuomo tutto muscoli, ma una pellicola che si concentri sull'azione in sé lasciando che lo spettatore possa identificarsi con il protagonista, che (come nel romanzo originale) è un uomo comune intrappolato in una situazione disperata. Da cui la scelta di affidare il ruolo a Bruce Willis, la quale oggi appare scontata vista la sua carriera, ma che all'epoca venne accolta dal pubblico con scetticismo.
Willis era infatti famoso solo come attore comico, in particolare grazie al successo del televisivo "Moonlighting" e vederlo nei panni di un poliziotto che sgomina una banda di rapinatori armati fino ai denti non poteva che indurre alla risata involontaria. Tanto che la campagna marketing alla fine si è focalizzata non tanto sul protagonista, quanto sull'azione. Questo perché "Dia Hard" non era un ibrido tra commedia e azione come "Beverly Hills Cop", né una parodia che poteva essere percepita come un exploit serio stile "Commando", ma un action vero e proprio con forti dosi di umorismo, simile in ciò alla formula inaugurata da "Arma Letale" appena un anno prima, ma con una vena sarcastica decisamente più marcata.
Ciò che lo ha reso rivoluzionario, poi, è stato proprio il modo in cui ha scompaginato il paradigma del cinema d'azione anni '80 creandone uno nuovo, il quale è ancora oggi in voga.
Si parte dalla cosa più ovvia, ossia la caratterizzazione del protagonista, su schermo ribattezzato John McLane, il quale non è un duro, non è un carro armato semovente in grado di annichilire orde di cattivi a suon di smitragliate e freddure, ma un uomo comune; un poliziotto, certo, ma di certo non addestrato ad intervenire in situazioni che prevedono ostaggi, tantomeno quando lasciato da solo.
McLane ha poi tutti i difetti che un essere umano può avere: è un codardo il quale cerca di evitare il confronto quando possibile, tanto che il suo senso dell'umorismo spesso appare più come un meccanismo di difesa che altro; sa solo reagire alle situazioni, dimostrando di non essere dotato di un pensiero strategico vero e proprio; soprattutto, si ritrova in trasferta a Los Angeles da New York per le feste a causa di quel suo brutto carattere che lo ha portato a separarsi con la moglie Holly (che qui sostituisce il ruolo che nel romanzo aveva la figlia di Leland, anche se sopravvive agli eventi).
McLane è, in buona sostanza, un uomo medio, che arriva persino a mostrare esplicitamente la sua debolezza riconoscendo il ruolo essenziale che l'amico Al Powell (il simpatico Reginald VelJohnson, che qui ha il ruolo per quale è tutt'oggi amato) ha giocato per la sua sopravvivenza; tanto che il rapporto tra i due è quasi un'inversione del classico duetto da buddy-cop movie, visto che sono sulla stessa lunghezza d'onda sin dall'inizio.
McLane si ritrova così a dover reagire ad una situazione disperata e lo fa usando l'ambiente a suo vantaggio, da cui l'esecuzione di scene d'azione dove non mancano sparatorie ed esplosioni, ma nelle quali a fare la differenza sono le fughe e le colluttazioni in un ambiente stretto. Da questo punto di vista, la regia di McTiernan riesce perfettamente a restituire il senso di claustrofobia dato dall'unità di azione, luogo e tempo e sfrutta perfettamente l'ambientazione per creare soluzioni fresche ad ogni scontro, come la conclusione della lotta con il gigante Karl (il compianto Alexander Godunov), impiccato ad una catena da cantiere.
Quando poi è necessario aumentare il tasso di spettacolarità, McTiernan ci mette tutto se stesso e tira fuori degli stunt incredibili, come il salto dal tetto del grattacielo, girato in location anche se con l'ovvio uso di stuntman professionisti, o la demolizione del tetto con tanto di elicottero distrutto, giocato con un mix di riprese reali mischiate con gli ottimi SFX del sempre affidabile Richard Edlund.
A rivederlo oggi, "Die Hard" colpisce però soprattutto per la cura riversata nella caratterizzazione dei personaggi di supporto. Se a svettare è ovviamente il cattivissimo Hans Gruber, che Alan Rickman interpreta donandogli uno charme inedito (e con una naturalezza strabiliante, se si tiene conto di come fosse il suo primo ruolo al cinema), non meno approfonditi e memorabili sono Al Powell o Holly, la moglie/ostaggio il cui ruolo non è decisamente limitato alla classica donzella in pericolo; e persino il capo della polizia Robinson, tanto arrogante quanto inetto, è un'aggiunta dannatamente divertente.
Persino la sottotrama sul giornalista interpretato da William Atherton (all'epoca in gara per divenire lo "stronzo per antonomasia" di Hollywood, visto il ruolo ricoperto anche in "Ghostbusters") risulta alla fine essenziale per la costruzione degli eventi, portando alla scoperta della vera identità di Holly da parte di Hans e innescando quel memorabile confronto finale. Merito di uno script ispirato e che risulta persino migliore di quel che effettivamente è se si tiene conto che è stato in realtà ultimato a riprese già iniziate (il che spiega l'errore di continuità dato da quell'ambulanza che fuoriesce da un furgone in precedenza vuoto).
Questa alchimia data da uno script simpatico, un attore perfettamente in parte, un cast di contorno perfetto ed una regia precisa rendono "Die Hard" un action ancora oggi godibilissimo, benché la sua formula sia stata riproposta infinite volte. E la sua ambientazione natalizia è un contorno gradevole, tanto che rivederlo durante le feste è sempre un piacere.
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