sabato 5 dicembre 2020

Mank

di David Fincher.

con: Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Tom Burke, Charles Dance, Tuppence Middleton, Tom Pelphrey, Arliss Howard, Toby Leonard Moore, Natalie Denise Spearl.

Biografico/Drammatico

Usa 2020














Quanto c'è di Welles nello script di "Quarto Potere"? Fino a che punto è possibile attribuirgli la paternità della sceneggiatura per la quale ha vinto il suo unico Oscar e, soprattutto, in cosa è effettivamente consistito il lavoro svolto da Herman J.Mankiewicz? Questi sono i quesiti che hanno ossessionato la mente di David Fincher per anni e, prima di lui, di suo padre Jack, autore della sceneggiatura.
Per David, quindi, "Mank" è il film della vita, che tenta di realizzare senza successo da almeno 20 anni (le riprese dovevano partire nel 2003, ma poi l'accordo con la casa di produzione saltò a causa della decisione del regista di girare l'intero film in bianco e nero) e che riesce a realizzare solo grazie alla carta bianca datagli da Netflix (già responsabile dell'ultimazione del capolavoro di Welles "The Other Side of the Wind"). E "Mank" si configura prima ancora che come una biografia d'autore, come un immenso atto d'amore verso il mondo del cinema degli anni '30 e '40 e dei miti e delle leggende che circondano tutt'oggi la realizzazione del "più grande film americano mai concepito".


Per i Fincher non ci sono dubbi: lo script di "Citizen Kane" è da attribuire per la maggiore a Mank. E proprio da quello script riprendono la struttura a episodi; la cornice è iconica, ossia i 60 giorni di "ultimatum" concessi da Welles allo scrittore per la stesura della sceneggiatura. Costretto a letto a causa di un incidente d'auto, Mankiewicz concepisce la storia di Charles Foster Kane mentre ripensa agli ultimi dieci anni della sua vita, al rapporto con Louie Meyer, con il fratello Joe e all'amore platonico per Marion Davies, seconda moglie di William Randolph Hearst e ispirazione per il personaggio di Susan Alexander.



Non c'è interesse per l'autodistruzione che Mank sembra essersi impostosi. L'alcolismo compulsivo viene ritratto in modo diretto, ma l'enfasi è posta più verso l'integratà morale dello scrittore. Centro focale diviene così il suo essere orgogliosamente di sinistra in un ambiente in cui il "pericolo rosso" fa già paura. E terreno di scontro è l'elezione per il nuovo governatore della California, con Mank che si schiera con il radicale democratico Upton Sinclair (proprio lui, lo scrittore autore di "Oil", romanzo alla base del capolavoro "There will be blood"), suscitando le ire di Meyer e, indirettamente, di Hearst, vero proprietario della MGM, dove Mank lavora.


Lo scontro con Hearst è indiretto e si consuma solo nell'ultimo atto. Per Mank, la sua più importante sconfitta è l'essere diventato ciò che egli stesso odiava, ossia quel magnate lontano dai bisogni di quella gente comune per la quale si batteva nei primi anni della sua carriera. Scontro che, ovviamente, non paga: gli integri vengono annichiliti, anche fisicamente, dai bisogni del capitalismo rampante e dei ricchi. A Mankiewicz non resta quindi che elaborare il lutto per un amico che non ha retto la scorrettezza mediatica e per quella Marion Davies la cui immagine sarà distrutta dal film, donna che, come in "Hollywood Confidential" di Bogdanovich, nella realtà è solo buona, non stupida.



Se il ritratto del suo protagonista e della sua lotta è anapologetico e mai compiaciuto, Fincher trova una forza espressiva incredibile nell'ottima messa in scena. Il bianco e nero del film, girato in digitale, ricalca quello di "Citizen Kane" e, in generale, del cinema dei primi anni '40, con tanto di leggera patina sui bianchi e neri profondi; Trent Razor e Atticus Ross, al solito collaboratori per la colonna sonora, abbandonano ogni sonorità techno-industrial per affidarsi ad archi e ottoni d'epoca, creando una compattezza stilistica tangibile. Persino la recitazione degli attori è enfatica e teatrale.
Il tutto, miracolosamente, non si traduce nel semplice "vintagexploitation" a là "Grindhouse", né si pone in modo più di tanto nostalgico. Fincher cerca, più semplicemente, di creare una pièce d'epoca con tutti i crismi, trovando un registro espressivo incredibilmente adatto e incredibilmente pittoresco, incantando ad ogni scena. Il suo lavoro di messa in scena non ricalca quello di Welles, non c'è la ricerca spasmodica della profondità pittorica in ogni inquadratura, quanto un gusto per una composizione più semplice, più "classica" ma altrettanto sublime.
Più che ai giovani autori ciecamente innamorati del cinema del passato, quindi, il suo lavoro è simile a quanto fatto proprio dal già citato Bogdanovich nel suo "Paper Moon". E proprio la figura del regista più vicino a Welles aiuta a comprendere il ruolo di Fincher in quest'opera, ossia quello del cantore di un personaggio che lo ha sempre affascinato e ispirato. Tanto che tutte le trappole che avrebbero potuto facilmente ingabbiare un'opera del genere (nostalgia gratuita, compiacimento stilistico, messa in scena calligrafica) vengono facilmente evitate.



Amorevole e formalmente perfetto, "Mank" è un omaggio sentito ad un grande artista e alla sua opera più grande, un vero e proprio atto amore, sincero fin nel profondo.

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