martedì 8 marzo 2022

Non Violentate Jennifer

Day of the Woman/I spit on your grave

di Meir Zarchi.

con: Camille Keaton, Eron Tabor, Richard Pace, Anthony Nichols, Gunter Kleemann, Bill Tasgal.

Usa 1978



















Un film come "Non Violentate Jennifer" ("Day of the Woman" o "I Spit on your Grave" che dir si voglia) riesce davvero a sconvolgere. Non solo e non tanto per la storia, un rape & revenge classico già visto all'epoca della sua uscita in sala, né tantomeno per quelle immagini esplicite, quanto e soprattutto perché porta lo spettatore, in particolare quello più scafato, ad interrogarsi su cosa si è davvero visto, su cosa siano effettivamente quelle immagini. Se un film del genere è exploitation cinica e pura o se il suo autore abbia voluto comunicare qualcosa, imprimendo così come ha fatto una costruzione di facile lettura psicoanalitica alle sequenze e alla storia in generale. Può, in sostanza, un film che parla di stupro e mostra lo stupro in modo diretto e integrale davvero essere considerato come un pamphlet contro la violenza sulle donne e sulla giusta vendetta?


Certo è che l'exploit di Mair Zarchi, inizialmente, non ha avuto vita facile proprio a causa di quello che mostra e di come lo mostra. Distribuito per la prima volta nel 1978 come "Day of the Woman", viene ignorato dal pubblico e massacrato dalla critica: Siskel e Ebert, in particolare, lo additano come pessimo esempio di film che mercifica e umilia la figura femminile per il sollazzo del pubblico, mentre la femminista rampante Julie Bindel lo bolla come film misogino.
Due anni dopo, una nuova distribuzione cambia il titolo in "I Spit on your Grave", crea un nuovo poster (che pare ritrarre in realtà una giovanissima Demi Moore) e riporta il film nei drive-in americani e nelle sale del resto del mondo; questa volta la critica è meno severa, il successo non manca e la stessa Julie Bindel afferma come in realtà si tratti di un perfetto film femminista. Tempi che cambiano? Forse, o forse è davvero difficile capire ciò che Zarchi vuole, non vuole o cerca di dire.


La struttura del film ricalca in tutto e per tutto quella di "L'Ultima Casa a Sinistra" e di certo il film di Craven non è stata una mera fonte di ispirazione involontaria, visto che si respira la stessa atmosfera sudicia e malata, mitigata in parte solo dallo stile di regia meno dinamico, forse anche meno rozzo di quello dell'esordiente Craven, ma di certo non altrettanto viscerale.
Jennifer (Camille Keaton, nipote del mitico Buster e poi moglie del regista) è una scrittrice in erba che decide di allontanarsi da New York per passare l'estate in un cottage nel New Jersey. Qui conosce subito un gruppo di ruvidi maschi locali. Colpiti dall'avvenenza della giovane donna, questi decidono di violentarla, il che porterà ovviamente ad una sanguinosa vendetta.
Rape & Revenge nudo e crudo, dove tutto è minimale, dalla regia alle caratterizzazioni dei personaggi, tutto è subordinato alla storia e alla scabrosità delle immagini; filosofia perfettamente condensata nella lunga sequenza dello stupro: circa 25 minuti durante i quali la povera protagonista viene violentata per quattro volte e in quattro modi differenti, sottomessa, ridotta non ad un semplice oggetto da possedere, quanto ad una forma di vita ai limiti del non-umano, un puro corpo, un pezzo di carne da consumare. E già questo approccio può portare ad una prima lettura del film.




L'emancipazione femminile, negli Stati Uniti, è cominciata davvero solo a partire dagli anni '60, ossia nel decennio appena precedente il film. E Jennifer è né più nè meno la perfetta incarnazione di questa donna "nuova", lontana dal concetto arcaico dell'angelo del focolare, della madre o della figura ancillare buona solo a procreare e accudire la prole. E' una donna lavoratrice, per di più intellettuale, che ha avuto diversi partner, prova dell'acquisita libertà sessuale e che non si problemi a vestire in modo succinto, non per provocare chi osserva, ma solo perché non prova vergogna della sua bellezza. Una bellezza quasi eterea, intoccabile, pagana nel suo rappresentare una donna simbolo di naturalezza; non per nulla, in una delle prime scene è lei stessa a spogliarsi e lasciarsi trasportare dalle acque di un fiume, ninfea nell'elemento femminile per antonomasia.



I quattro uomini sono invece la perfetta rappresentazione di un maschilismo arcaico sopravvissuto in quei recessi della società già forieri degli orrori dei cannibali hooperiani e craveniani. Quattro "tipi", ognuno portare di un germe di misoginia preciso, un branco di selvaggi pronti ad inseguire e divorarela preda.
Johnny è il capobranco, maschio alfa, unico lavoratore, quindi nell'ottica capitalistica l'unico vero capo concepibile, uomo che si scoprirà sposato e padre di famiglia, ma il cui status famigliare non gli ha certo imposto un'etica che non comporti l'individualismo e l'affermazione violenta.
Matthew è il maschio omega, il cui handicap mentale lo mette per forza di cose in uno stato inferiore rispetto agli altri, un subordinato usato dapprima come scusa per avviare lo stupro, poi come capro espiatorio per uccidere la vittima, fino a divenire vittima a sua volta della violenza dei compagni.
Stanley ed Andy sono praticamente un unico personaggio, due perdigiorno privi di indole, barbarici e violenti, che cacciano la donna come se fosse un animale, cibo per sfamarsi e concupire in un amplesso violento; laddove lo stupro è sopraffazione e non erotismo, violenza più che esplicitazione sessuale, lo stupro di questi due veri e propri sub-umani è violenza allo stato puro, distruzione sadica di un essere visto come del tutto inferiore, neanche più preda quanto puro corpo da percuotere per il proprio ludibrio.





La pietra dello scandalo, all'epoca dell'uscita come oggi, è data ovviamente dalla lunga sequenza dello stupro, la quale è però più profonda nella sua messa in scena di quanto si possa di primo acchito pensare.
Comincia nella foresta, la selva, la dimora delle creature selvagge, di quella mascolinità ancestrale e violenta che avvelena un elemento tipicamente femminile, ossia la natura, così come la violenza distrugge la femminilità. Al di là della metafora della caccia e della pesca usate per far intrappolare Jennifer dai suoi assalitori, è l'assoluta barbarie di questi a colpire, come invasati da uno spirito arcano che ne disvela la violenza latente.




L'azione poi si sposta in casa e ricomincia con la negazione dell'aiuto, quel calcio verso il telefono usato per denunciare i fatti e che non servirà a nulla. La violenza, come sempre nel cinema americano degli anni '70, non conosce confini, entra nel quotidiano, nel santuario privato delle persone e non si fa remore a trasformalo in un'alcova di depravazione. Non per nulla, Zarchi affermò di aver avuto l'idea del film da un episodio capitatogli a Manhattan: l'incontro con una giovane donna, violentata e picchiata a sangue, con la mascella spaccata. Prestatole i primi soccorsi, l'autore e gli amici denunciano l'accaduto, ma i poliziotti accorsi si preoccupano più della deposizione che dello stato di salute della vittima, arrivando persino a negare i soccorsi medici. Da qui la visione di un'autorità incomprensiva e priva di empatia, oltre che della bestialità degli assalitori e di una violenza strisciante all'interno di una moderna metropoli.
Soprattutto, Zarchi ha un'intuizione che avrà fortuna e riesce davvero a disturbare: usare la soggettiva della vittima intercalata alle inquadrature oggettive della violenza, costringendo lo spettatore a subire ciò che lei subisce, evitando così anche solo per pochi istanti il potenziale spettacolare dello stupro.




Nei momenti immediatamente successivi alla sevizia, troviamo una Jennifer silenziosa, che si ripulisce dal sudiciume e prova a ritornare alla normalità, cercando quasi di far finta di niente, obliare quella violenza subita, archiviarla come un episodio ininfluente. La sua figura non è più quella di una ninfea che mostra con orgoglio il suo corpo, quanto essere distrutto dagli eventi che si copre come vergognandosi di quella femminilità un tempo mostrata con orgoglio e che forse, inconsciamente, biasima, a torto, come causa dello stupro.



L'esecuzione della vendetta porta poi ad ulteriori metafore a seconda delle "vittime".
Si comincia con Matthew, in apparenza il più innocente; per adescarlo, Jennifer fa ricorso platealmente all'archetipo freudiano della Madonna/puttana: nella sua semplicità, l'uomo concepisce la donna solo come santa e intoccabile o al suo estremo opposto, ossia come meretrice; il che è ovviamente una visione distorta, che riduce la persona ad un ruolo, una maschera più che un essere umano. Ed è proprio questa maschera immediatamente riconoscibile che il più "semplice" del gruppo riconosce e del quale resta ammaliato.
Johnny, il capo, viene a sua volta manipolato e qui la regia mostra sicuramente il fianco ad una spettacolarizzazione della violenza che si poteva evitare. Dapprima minacciato da una pistola, l'uomo non riesce a concepire la donna e vittima come vera minaccia e giustifica le sue azioni come reazioni alla femminilità, il classico ritornello per cui è la vittima ha ricercare la violenza. Da cui l'esecuzione vera e propria tramite l'agghiacciante scena dell'evirazione; ed è anche inutile sottolineare come il torto venga restituito privando il carnefice dello strumento identificante il proprio status.
Stanley ed Andy, le bestie, vengono uccisi come animali, appunto, uno "pescato" dopo essere stato dileggiato, l'altro stroncato da un colpo d'ascia, come un cinghiale selvatico, ripagati con la stessa moneta che hanno usato per rendere più turpe un atto già di per sé stesso vile e vomitevole.



Laddove la lettura del film è agevole, occorre chiedersi, come si diceva in apertura, se davvero ciò ne giustifica l'efferatezza: è davvero giusto mostrare in modo così esplicito la violenza?
Forse, invece, la vera domanda è un'altra, ossia quali "benefici" porta una rappresentazione così diretta della violenza?
Ed è la risposta più ovvia ad essere la più corretta: il ribrezzo e la catarsi. Solo l'orrore più puro può restituire la dimensione effettiva della mostruosità dello stupro (e della violenza in generale): da qui l'estrema efficacia di una rappresentazione orrorifica, rispetto soprattutto ad una più sottile, velata o addirittura non diretta. E se si tiene conto di come il film Zarchi sia effettivamente disturbante, sgradevole e genuinamente sporco, si comprende appieno la sua riuscita.


Su quanto ci sia di effettivamente voluto è poi discutibile; dato il carattere "biografico" della storia, il regista ha sicuramente avuto le migliori intenzioni nello scrivere e dirigere il film. Ma quando si è deciso di trasformare il film in marchio, dopo la sua riscoperta negli anni 2000, con un remake, due sequel del remake ed un recente sequel diretto, forse si è cercato di sfruttare quella cattiveria in modo non genuino, puramente speculativo. Ma questo primo film è duro e grezzo, non ha fini strettamente commerciali, per questo resta ancora puro nella sua volontà di sconvolgere. E tanto basta per renderlo quantomai memorabile.

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